41 bis: il carcere duro in chiave costituzionale
L’articolo 41 bis della Legge sull’Ordinamento Penitenziario prevede che in situazioni eccezionali dovute a rivolte o a gravi emergenze – ai fini di ripristinare l’ordine e la sicurezza e solo per il tempo strettamente necessario – il Ministro della Giustizia possa sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti nell’intero carcere o in parte di esso. Tale facoltà può essere espletata anche nei confronti di singoli detenuti per i quali si tema che sussistano ancora collegamenti con associazioni di stampo criminale, terroristico o eversivo.
Il provvedimento che dispone il carcere duro ha durata pari a quattro anni ma è prorogabile per periodi successivi di due anni ciascuno qualora risulti ancora plausibile la capacità del detenuto di mantenere collegamenti con l’organizzazione criminale.
I detenuti sottoposti a tale regime vengono internati in istituti appositi, preferibilmente in aree insulari. Essi possono usufruire di un solo colloquio al mese in locali attrezzati in modo tale da impedire il passaggio di oggetti e possono parteciparvi solo familiari o conviventi. I colloqui sono sottoposti a controllo auditivo e a registrazione.
Tali detenuti, però, possono richiedere tre colloqui a settimana con i difensori, da svolgersi nella stessa modalità di quelli previsti con i familiari.
La corrispondenza, nel periodo in cui è applicato questo regime, è sottoposta a visto di censura.
La Corte Costituzionale è spesso intervenuta sulla materia in esame e, di recente, ha apportato modifiche che paiono affievolire la natura – afflittiva e dibattuta – dell’istituto.
In particolare, con la sentenza numero 186/2018 la Consulta si è pronunciata sul divieto di cottura dei cibi imposto ai detenuti in regime di carcere duro e sancito dal comma 2 quater, lettera f): tale previsione è stata dichiarata incostituzionale perché in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.
Vietare la cottura di cibi ai detenuti ex articolo 41 bis pone in essere una disparità di trattamento ingiustificata, essendo, invece, permesso di cucinare agli altri detenuti; ha carattere puramente afflittivo e vessatorio, contrastante con il fine rieducativo della pena e con il divieto di infliggere pene contrarie al senso di umanità.
Inoltre, con la sentenza numero 97/2020 la Corte ha dichiarato – ancora – l’illegittimità del comma 2 quater, lettera f) dell’articolo 41 bis ma nella parte in cui stabilisce un divieto assoluto di scambiare oggetti fra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità.
Anche in questo caso, si ravvisa un contrasto con gli articoli 3 e 27, comma 3 della Costituzione.
La Corte ha affermato che la previsione di un regime differenziato come quello di cui all’articolo 41 bis della Legge sull’Ordinamento Penitenziario incontra dei limiti precisi e non può tradursi in una compressione sproporzionata dei diritti dei detenuti.
Le misure adottate non possono eccedere lo scopo, altrimenti assumerebbero una connotazione puramente afflittiva che andrebbe ad incidere negativamente sul programma trattamentale del detenuto.
La Consulta ha ritenuto che vietare a coloro che sono sottoposti al regime di carcere duro lo scambio di oggetti durante le ore di socialità non osta alla eventuale trasmissione di messaggi all’esterno, potendo questi essere veicolati tramite il linguaggio verbale e non verbale.
La Corte, tuttavia, non ha escluso che l’amministrazione penitenziaria introduca eventuali restrizioni, purché siano fondate su un bilanciamento tra esigenze di sicurezza e diritti fondamentali in concreto e siano sempre sottoponibili al vaglio del magistrato di sorveglianza.
La Corte Costituzionale, infine, è da poco tornata a pronunciarsi in tema di 41 bis con la sentenza numero 18/2022.
La Consulta, accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 quater, lettera e) dell’articolo 41 bis nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza tra il detenuto e il suo difensore in quanto vi ha ravvisato una violazione del diritto di difesa.
Il detenuto è titolare del diritto di comunicare in modo privato con il proprio difensore e ciò, tra l’altro, può tutelarlo da eventuali abusi da parte delle autorità penitenziarie.
Sottoporre a visto di censura la corrispondenza tra detenuto e difensore significa comprimere irragionevolmente il diritto di difesa del reo e non è, di certo, una misura idonea a impedire che abbia contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza.
Inoltre, una tale previsione farebbe presumere una collusione tra difensore e imputato che screditerebbe il ruolo della professione forense, atta a tutelare i diritti fondamentali del reo nonché lo stato di diritto in toto.
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Adelisa Pesce
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