Abbandono del tetto coniugale: quando è irrilevante ai fini dell’addebitabilità della separazione?
L’abbandono del tetto coniugale può configurare una specifica ipotesi di addebito della separazione, ma vi sono circostanze rispetto alle quali l’addebitabilità è, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, esclusa.
Al fine di addivenire ad una corretta e quanto più esaustiva ricostruzione della questione prospettata in seno a tale lavoro, si rendono necessarie delle doverose premesse volte ad inquadrare i termini del dibattito, partendo dalla corretta individuazione dei diritti e dei doveri nascenti dal matrimonio, nonché delle cause di addebitabilità della separazione in caso di crisi coniugale, con particolare riferimento all’ipotesi di abbandono della casa familiare.
Preliminarmente, ai sensi dell’art. 29 Cost., “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società fondata sul matrimonio”; quest’ultimo “è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Tali principi di rango costituzionale trovano riflesso nel corpo del codice civile e, in particolare, in seno all’art. 143 c.c., il quale individua i diritti ed i doveri reciproci tra i coniugi. Alla luce di tale norma, dal matrimonio deriva l’insorgere degli stessi diritti e doveri in capo al marito ed alla moglie, nonché tra gli stessi una serie di obblighi reciproci, ovvero quelli di fedeltà, assistenza morale e materiale, di collaborazione nell’interesse della famiglia, nonché di coabitazione.
In riferimento a tale ultimo obbligo, l’art. 144 c.c. specifica che la residenza familiare è concordata secondo le esigenze di entrambi i consorti, nonché di quelle preminenti della famiglia; inoltre, l’art. 146 c.c., rubricato “allontanamento dalla residenza familiare”, disciplina le conseguenze derivanti dalla violazione del dovere di coabitazione, qualora uno dei coniugi si allontani dalla casa coniugale: affinché l’allontanamento rilevi giuridicamente, è necessario che questo sia avvenuto senza giusta causa e sia accompagnato dal rifiuto del coniuge allontanatosi di tornare presso la residenza familiare. In tal caso, è sancita la sospensione dei doveri di assistenza di cui all’art. 143 c.c. . Tuttavia, è lo stesso art. 146, che al suo secondo comma riconosce esplicitamente l’eventualità per cui l’allontanamento sia avvenuto per giusta causa e nella specie prevede, quale giusta causa di allontanamento, la proposizione di domanda giudiziale volta all’ottenimento di una separazione, un divorzio, ovvero lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Lungi da una interpretazione strettamente letterale, per la giurisprudenza di legittimità tale elencazione non è tassativa: infatti, a prescindere dalla proposizione di una delle suddette domande, può ravvisarsi una giusta causa “anche quando esistano ragioni di carattere interpersonale che non consentano la prosecuzione della vita in comune” (sul punto, Cass., sez. VI, sent. n. 11064/1999).
Ebbene, qualora si ravvisi la violazione dei reciproci obblighi di cui all’art. 143 c.c., è ben possibile che si palesi una crisi che renda intollerabile la prosecuzione del rapporto. Il legislatore, pertanto, consapevole di tale eventualità, ha previsto l’istituto della separazione personale di cui agli artt. 150 e ss. c.c.
La separazione è istituto che mira ad una sorta di “congelamento” del vincolo coniugale; congelamento precipuamente finalizzato ad una eventuale riconciliazione: infatti, confidando nell’ipotesi che i coniugi in crisi possano appianare le proprie divergenze e ristabilire l’armonia di coppia, si concede loro di superare l’impasse, autorizzandoli a cessare la coabitazione e a vivere, così, separati. Tale autorizzazione è concessa a seguito della proposizione di apposita domanda giudiziale in tale senso, a cui sono legittimati esclusivamente i coniugi.
Questi possono accedere alla procedura di separazione consensuale, qualora la richiedano congiuntamente e di comune accordo (art 158 c.c.), ovvero a quella giudiziale (art 151 c.c.), qualora venga richiesta al giudice anche da uno solo di essi, sul presupposto che si sono verificati fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, anche indipendentemente dalla volontà dell’uno o di entrambi.
Nel proporre la domanda, le parti possono, ai sensi dell’art 151, co. 2, c.c., richiedere al giudice, “in considerazione di comportamenti contrari ai doveri che derivano dal matrimonio”, di dichiarar a chi dei due la separazione sia addebitabile, e cioè a quale dei due e in un certo qual modo riconducibile la crisi coniugale. La locuzione su riprodotta, usata nel corpo della norma citata, fa chiaro riferimento ai doveri di cui all’art. 143 c.c.
La pronuncia di addebito ascrive la colpa dell’avvenuta crisi coniugale ad uno dei due coniugi e determina conseguenze di tipo prevalentemente patrimoniale, dal carattere – si oserebbe dire – quasi punitivo: infatti con una pronuncia in tal senso, si mira ad escludere il diritto del coniuge, al quale è addebitabile la separazione, alla percezione dell’assegno di mantenimento. Quest’ultimo, come è noto, ha la precipua funzione di permettere al coniuge separato di continuare a godere del medesimo tenore di vita di cui aveva goduto in costanza di matrimonio.
Tuttavia, è bene tenere a mente che la pronuncia di addebito non esclude, tuttavia, il diritto del coniuge “colposo” ad ottenere dall’altro gli alimenti, qualora questi non sia in grado di poter provvedere autonomamente ai propri fabbisogni: infatti, la percezione degli alimenti ha una funzione ben diversa, correlata alla necessaria tutela della persona che, al di fuori del vincolo matrimoniale, si troverebbe nella difficoltà di provvedere a sé stessa.
Ebbene, individuato il quadro normativo di riferimento, è possibile ora calarsi nel vivo della questione prospettata e chiedersi se e come opererebbe l’istituto dell’addebito nella ipotesi in cui, venendo meno l’obbligo di coabitazione a seguito di abbandono del tetto coniugale, venga realizzato da parte di uno dei due coniugi l’abbandono della residenza di famiglia.
La questione non è di scarsa rilevanza in quanto detto abbandono può determinare la violazione degli art. 143 e 146 c.c. – con conseguente rischio di addebitabilità della separazione – ed addirittura integrare la fattispecie criminosa di cui all’art. 570 c.p., rubricato “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, che vede, tra i suoi presupposti applicativi, proprio l’abbandono del domicilio domestico.
Tuttavia, si rendono in merito necessari degli opportuni accorgimenti, suffragati dalla Corte di Cassazione, che hanno portato ad una rilettura del fenomeno in termini diversi da quello che è il mero dato letterale di cui alle norme sin qui richiamate: infatti, a mente del fatto che, ai sensi dell’art. 146 c.c., l’allontanamento può avvenire anche per giusta causa, la giurisprudenza ha fornito importanti delucidazioni, arrivando a sostenere che “l’abbandono della casa familiare non costituisce causa di addebitabilità della separazione, quando sia stato determinato da una giusta causa, ossia dalla ricorrenza di situazioni di fatto o anche avvenimenti o comportamenti altrui, di per sé incompatibili con la protrazione della convivenza, ovvero quando sia intervenuto in un momento in cui la intollerabilità della prosecuzione di detta convivenza si sia già verificata” (ex multis, Cass., Sez. VI, 12 aprile 2016, n. 7163).
Tali comportamenti ben potrebbero ravvisarsi in situazioni di convivenza litigiosa o addirittura qualora uno dei due coniugi subisca violenze fisiche o verbali da parte dell’altro: situazioni simili renderebbero la convivenza non armoniosa e sicuramente gravosa, con seri rischi per la persona e la sua salute. In tali casi, quindi, sembrerebbero prevalere valori costituzionali gerarchicamente superiori che legittimerebbero, secondo la “giusta causa” di cui al secondo comma dell’art. 146 c.c., il coniuge ad allontanarsi dal tetto coniugale per preservare la sua persona.
La giurisprudenza circoscrive, tuttavia, tale giusta causa a ben precisi parametri, in quanto è richiesto che la l’allontanamento sia dettato da situazioni che superino la normale soglia di tollerabilità. E non sarebbe potuto essere altrimenti: in caso contrario, anche un singolo episodio litigioso sarebbe potuto essere strumentalizzato al fine di sottrarsi alla pronuncia di addebito, la qual cosa non sarebbe stata di certo sostenibile in uno Stato di diritto qual è quello in cui viviamo.
Ancor più pregnante in tal senso sembrerebbe l’ipotesi in cui l’abbandono si realizzi in età ormai avanzata: infatti gli Ermellini hanno riconosciuto, nel fatto stesso dell’abbandono del tetto coniugale, in capo ad una donna che aveva abbandonato il tetto coniugale dopo decenni di matrimonio, la prova di una infelicità oltrepassante la soglia della tollerabilità (cfr. Cass, Sez. I, 30 gennaio 2013, n. 2183).
Per di più, ogni volta che l’abbandono della casa coniugale è giustificato, esso non è nemmeno idoneo ad integrare la fattispecie criminosa di cui all’art. 570 c.p. (cfr. Cass, Sez VI, sent. n. 11064/1999, ibidem).
Tali pronunce, in un periodo storico qual è quello odierno, ove la cronaca ci invita quanto mai spesso a riflettere su fenomeni in frequente aumento – quali stalking e omicidi di donne, mogli e madri purtroppo all’ordine del giorno – risultano di grande impatto e permettono di dare spunto a floridi dibattiti sul tema, oltre ad aprire spiragli di riflessione non indifferenti.
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Emanuela Spolverino
Praticante Avvocato Abilitato al patrocinio, presso il foro di Avellino.
Laureata in Giurisprudenza nel settembre 2014 presso l'Università degli Studi di Salerno, ove è stato anche conseguito il Diploma di Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali nel settembre 2016.
Attualmente impegnata a svolgere la professione forense; collabora con il Tribunale di Avellino, come tirocinante ex art. 73 L. 98/2013, presso la Sezione Lavoro e Previdenza.