Aborti illegali presso lo studio privato di un medico. Qual è il reato che si configura?
La Corte di Cassazione, Sez. VI, con la sentenza n. 1743 del 15/11/2016 – dep. 16/12/2016 affronta un interessante caso, riguardante la condotta di un dirigente medico in servizio presso il reparto di ginecologia di un ospedale pubblico, il quale speculando sui tempi della procedura legale di interruzione volontaria della gravidanza, spingeva le donne in stato di gravidanza e che avevano necessità di abortire in tempi contenuti, ad un aborto clandestino (in assenza delle prescritte autorizzazioni) a pagamento presso il proprio studio privato.
La condotta del medico si pone, dunque, al crocevia tra le fattispecie criminose di: concussione (ex art. 317 c.p.), induzione indebita a dare o promettere utilità (ex art. 319 quater c.p.) e truffa aggravata commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio (ex art. 640 c.p.).
La sentenza summenzionata ha ritenuto corretta la qualificazione del fatto come concussione (art. 317 c.p.), escludendo sia l’induzione indebita che la truffa. Nella vicenda in esame, infatti, le donne, non erano complici del medico secondo la logica di tipo negoziale propria della nuova fattispecie di induzione indebita, riconducibile al genus della corruzione, ne tantomeno sono state indotte in errore tipico elemento di discrimine sul carattere indebito delle dazioni di denaro nel reato di truffa. La distinzione tra il delitto di concussione per induzione e quello di truffa aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale va individuata nel fatto che nella concussione il privato mantiene la consapevolezza di dare o promettere qualcosa di non dovuto, mentre nella truffa la vittima viene indotta in errore dal soggetto qualificato circa la doverosità delle somme o delle utilità oggetto di dazione o promessa e la qualità di pubblico ufficiale concorre solo in via accessoria a condizionare la volontà del soggetto passivo (Sez. 6, n. 20195 del 22/04/2009, Golino,Rv. 243842).
Le donne, dunque, sarebbero state ‘costrette’ a pagare gli aborti illegali “per non esporsi al rischio…di un disvelamento dello stato di gravidanza con conseguente compromissione del rapporto con il partner, di reazione da parte dei parenti e/o di impossibilità di abortire nel termine legale di novanta giorni”.
La Suprema Corte richiama espressamente la nota sentenza delle S.U. n. 12228 del 2014 “Maldera”, nella quale si è osservato che “non mancano casi in cui, per assicurare la corretta qualificazione giuridica del fatto come concussione piuttosto che come induzione indebita, non si può prescindere dal confronto e dal bilanciamento tra i beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale: quello oggetto del male prospettato e quello la cui lesione consegue alla condotta determinata dall’altrui pressione. Può accadere, infatti, che il privato, nonostante abbia conseguito, prestando acquiescenza all’indebita richiesta del pubblico agente, un trattamento preferenziale, si sia venuto sostanzialmente a trovare in uno stato psicologico di vera e propria costrizione, assimilabile alla coazione morale di cui all’art. 54,comma terzo, cod. pen., con conseguente decisiva incidenza negativa sulla sua libertà di autodeterminazione. Il riferimento è a quelle situazioni in cui l’extraneus, attraverso la prestazione indebita, intende, soprattutto, preservare un proprio interesse di rango particolarmente elevato (si pensi al bene vita, posto in pericolo da una grave patologia); oppure, di fronte ad un messaggio comunque per lui pregiudizievole e al di là del danno ingiusto o giusto preannunciato, sacrifica, con la prestazione indebita, un bene strettamente personale di particolare valore (libertà sessuale), e ciò in spregio a qualsiasi criterio di proporzionalità, il che finisce con l’escludere lo stesso concetto di vantaggio indebito…..”.
Pertanto, secondo l’autorevole decisione “il criterio del danno-vantaggio non sempre consente, se isolatamente considerato nella sua nettezza e nella sua staticità, di individuare il reale disvalore di vicende che occupano la c.d. “zona grigia”. Il detto parametro, pertanto, deve essere opportunamente calibrato, all’esito di una puntuale ed approfondita valutazione in fatto, sulla specificità della vicenda concreta, tenendo conto di tutti i dati circostanziali, del complesso dei beni giuridici in gioco, dei principi e dei valori che governano lo specifico settore di disciplina”.
Il Tribunale di Messina ha desunto la condotta costrittiva del ricorrente individuando, per ognuna delle vicende passate in disamina, la strumentalizzazione della propria nota posizione in ambito ospedaliero con l’aver prospettato alle pazienti lungaggini nella pratica standard di interruzione volontaria della gravidanza e, quindi, ostacoli organizzativi.
La Corte, pertanto, ha ritenuto che la decisione impugnata si è posta all’interno del parametro di legittimità suddetto attraverso una puntuale ricostruzione dei termini rilevanti di ciascuna delle vicende esaminate (modalità dell’approccio, mancanza di effettivi margini di trattativa sulla somma pretesa, grave difficoltà psicologica nella quale si trovavano le pazienti, la situazione “necessitata” che le spingeva ad accedere alla richiesta indebita) e con la radicale compressione della volontà negoziale della vittima identificando l’abuso costrittivo del ricorrente col fine di realizzare delle remunerative illecite pratiche abortive.
Infine, la Suprema Corte in riferimento all’ultimo motivo di ricorso circa l’inutilizzabilità del materiale intercettivo, ribadisce che costituisce jus receptum l’orientamento secondo il quale in tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento per uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili, senza alcun limite, per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento.Mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso “ab origine”, l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’art. 270 cod. proc. pen., e, cioè, l’indispensabilità e l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza (Sez. 6, n. 50261 del 25/11/2015, M. e altri, Rv. 265757).; inoltre, è stato affermato che, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270, comma primo, cod. proc. pen., occorre far riferimento ad una nozione sostanziale di “diverso procedimento”, secondo cui la “diversità” va collegata al dato dell’insussistenza, tra i due fatti – reato, storicamente differenti, di un nesso ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., o di tipo investigativo, e, quindi, all’esistenza di un collegamento meramente fattuale ed occasionale (Sez. 3, n. 2608 del 05/11/2015, Pulvirenti e altri, Rv. 266423).
Per tutti i superiori motivi la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e conseguentemente ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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