Aborto: spaccato di diritto tra Stati Uniti e Italia

Aborto: spaccato di diritto tra Stati Uniti e Italia

Abstract: Cinquant’anni dopo la storica sentenza Roe v. Wade la Corte Suprema americana, con pronuncia del 24 giugno 2022, ha deciso che “la Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”.

A fronte del presente scenario americano, l’Italia resta ancorata al dettato della legge sull’aborto n.194 del 1978, malgrado il dibattito tra i “pro life”, di cui tirano le fila gli obiettori di coscienza, e i “pro choice” non sembra volersi arrestare. Il presente contributo analizza lo spaccato di diritto in materia di aborto tra Stati Uniti e Italia, a cui fa da sfondo l’attrito tra la definizione di Stato laico e le diffuse sacche di resistenza che si oppongono alla piena autonomia e all’autodeterminazione del corpo della donna, ostacolando il libero ed effettivo accesso alle pratiche relative all’interruzione della gravidanza.

Sommario: 1. Il quadro storico – 2. La situazione americana prima del 1973 – 3. Regolamentazione dell’aborto a seguito della sentenza Roe v. Wade – 4. Italia: approvazione della legge 194 del 1978 – 5. Confronto tra lo storico passo indietro in America in materia di aborto e l’attuale situazione in Italia

 

1. Il quadro storico

L’interruzione volontaria della gravidanza, in maniera analoga a quanto accade per tutte le questioni afferenti all’esistenza umana, interroga il diritto e gli ordinamenti in cui si esplica, costringendoli continuamente ad interfacciarsi con il tema della regolamentazione della fitta trama dei rapporti sociali, nonché dalle esigenze che scaturiscono da essi.[1]

In questo orizzonte il tema dell’aborto è uscito dal perimetro del confronto politico-sociale per diventare argomento di dibattito nel settore del diritto. La dialettica intorno alla disciplina dell’aborto, infatti, è tutt’altro che sopita, come dimostrano le recenti pronunce statunitensi e le risposte contrastanti suscitate nel tessuto sociale. E – anche al netto delle spinte contrarie che da decenni si oppongono sul tema – è ragionevole pensare che nemmeno nel prossimo futuro gli ordinamenti costituzionali pronunceranno una parola definitiva in merito.

Il tema dell’aborto e le problematiche che si trascina dietro vengono alla ribalta negli anni Sessanta del XX secolo con la pubblicazione di testi (scientifici e di altra natura) sul controllo delle nascite e grazie al grande interesse mediatico dovuto alla commercializzazione della pillola anticoncezionale. Sul punto, anche la Chiesa, nella persona di Paolo VI, prese posizione, invitando la popolazione a “non diminuire il numero dei commensali al banchetto della vita”, come poi ribadito nell’enciclica Humanae Vitae del 1968.[2]

Questo processo di emersione, acuitosi negli anni Settanta del XX secolo a cavallo tra gli Stati Uniti ed Europa, in particolare in Italia, si deve alle testimonianze dirette di una moltitudine di donne rispetto a pratiche di aborto costrette in una “quotidianità clandestina”, con le quali il tema dell’interruzione volontaria della gravidanza ha sfondato il perimetro dell’intimità per tracimare nel dibattito pubblico. Così facendo l’IVG[3] assumeva valore di thick description.[4]

In un’ottica comparata, il sorgere e il maturare delle problematiche giuridiche sottese all’aborto nelle principali democrazie contemporanee, se da una parte mette in luce una diversa modalità di approccio al tema, dall’altra evidenzia che “le questioni del corpo”[5] vengono in rilievo pressoché nella medesima maniera, attraverso una narrazione collettiva che passa dalle testimonianze pubblicate sulle riviste[6], dall’emancipazione femminile su cui si getta una luce tramite la proliferazione di immagini di nudo, anche a scopo di protesta, sino alla nascita di gruppi autogestiti[7] che rivelano una realtà fino ad allora quasi sconosciuta nelle sue dimensioni.

Il moto incessante di presa di coscienza delle donne in materia di aborto e di quella dell’intera società è stato travagliato. Questo lento percorso sottolinea una mancanza di diritti che tutelino la gestione del corpo della donna, rimarcando come il senso comune, i costumi e gli stereotipi abbiano impostato i rapporti sociali e giuridici tra i due sessi senza considerare le differenze tra loro.[8]

Questa cornice storica costituisce il paradigma di analisi per gli operatori del diritto che si affacciano alla disciplina sull’aborto.

2. La situazione americana prima del 1973

Prima del 1973, i singoli Stati Americani presentavano un quadro variegato rispetto alla disciplina normativa dell’aborto. Parallelamente nell’opinione pubblica restava un argomento tabù, nonostante le battaglie per l’emancipazione promosse dalle attiviste del movimento femminista.[9]

Le posizioni a favore o contro l’interruzione volontaria della gravidanza derivavano da una serie di elementi politici, economici, sociali, religiosi.[10]

Per comprendere meglio la questione occorre richiamare l’analisi effettuata dallo studioso Rosemary Nossiff il quale, nell’ambito dei suoi ragionamenti in materia di aborto, confronta due diverse realtà governate dai democratici[11] – quella dello Stato di New York e quello della Pennsylvania – che sviluppano il tema dell’IVG in senso del tutto opposto.

Nello Stato di New York i “pro choice” nel 1966, sostenuti dai democratici, formulano una proposta di riforma volta a depenalizzare l’aborto terapeutico al fine di tutelare i medici abortisti che si concretizzerà nel 1970 in una proposta di legge “liberal”: aborto fino a ventiquattro settimane purché venga eseguito da un medico in ambiente sanitario.[12] Di converso in Pennsylvania i “pro life” indirizzavano i democratici verso una sostenuta campagna anti-aborto appoggiando la voce cattolica che condurrà nel 1969 alla nascita dell’associazione “Pennsylvanians for life”.

Orbene, la suddetta descrizione mostra come nello Stato di New York gli attivisti fanno breccia nel cuore del partito democratico tanto da iniziare un discorso nuovo in materia di aborto, mentre in Pennsylvania lo Stato non si fa permeare dalle posizioni dei “pro choice”, dimostrandosi al contrario monolitico nella sua posizione in linea con le tesi cattoliche, assunte già in precedenza dalle altre amministrazioni.

In questo scenario, l’irrompere del discorso femminista dà nuova linfa alle ragioni dell’aborto facendolo entrare a tutti gli effetti nella retorica dei diritti dei cittadini americani.

La posta in gioco è alta e tutte le carte sono in mano agli attivisti “pro choice”. Nascono così nuovi gruppi[13] che portano il tema dell’aborto sull’agenda politica. Obiettivo primario è quello di trasferire l’argomento IVG dal Codice penale a quello Sanitario, come accaduto nel 1973 grazie a Jane Roe, ragazza madre di Dallas in Texas, la quale con un ricorso si rivolge alla Corte Suprema desiderando interrompere la gravidanza non voluta, avendo già due figli a carico.

3. Regolamentazione dell’aborto a seguito della sentenza Roe v. Wade

La sentenza Roe v. Wade[14] è considerata, congiuntamente a Brown v. Board of Education, la più emblematica sentenza della Corte Suprema Americana.

Il giudizio vedeva quali parti Roe, donna incinta e nubile, contro Henry Wade, procuratore distrettuale della contea di Dallas che le aveva impedito di interrompere la gravidanza ai sensi della legge del Texas. Con la presente pronuncia la Corte Suprema, maggioranza democratica, affermò che la legge del Texas violava il diritto delle donne alla privacy e la clausola del giusto processo previsto dal XIV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.

Solo a partire da allora “per la prima volta nella storia generale del diritto costituzionale[15] si è riconosciuto un diritto di libertà della donna all’interruzione volontaria della gravidanza, comprimibile dallo Stato, in astratto, solo a partire dal settimo mese di gravidanza.

La pronuncia Roe ha operato come una sorta di cassa di risonanza, innescando reazioni a vari livelli sul piano legislativo e politico, ma soprattutto sociale. Difatti, la successiva evoluzione della normativa dell’aborto è specchio della tensione e del dibattito che la pronuncia della Corte non ha potuto acquietare.

La giurisprudenza della Corte Suprema è intervenuta a più riprese andando a ridisegnare i confini del diritto all’aborto.

I legislatori statali hanno cercato di limitare il diritto all’aborto attraverso una serie di leggi restrittive che hanno interessato sia aspetti procedurali che sostanziali della materia, come è accaduto per le “TRAPS law”[16], ossia le linee guida che vertono sugli standard per le cliniche abortive e per il regime sanitario che i medici[17] devono seguire nell’applicare la pratica abortiva. E ancora, leggi che bandiscono la pratica del “partial birth abortion”[18], leggi che stabiliscono i finanziamenti in materia di IVG, leggi che prevedono il consulto prima dell’aborto e leggi che prevedono per le ragazze che non hanno ancora raggiunto la maggiore età il coinvolgimento dei genitori.

Il messaggio trasmesso simbolicamente dalla sentenza Roe agli Stati Americani e a tutto l’Occidente[19] è che le donne possono decidere del proprio corpo.

4. Italia: approvazione della legge 194 del 1978

In Italia dopo il miracolo economico degli anni cinquanta che proietta il Paese nel mondo industrializzato, dove in poco più di un decennio si è introdotto nell’ordinamento elementi come il divorzio[20] e un nuovo diritto di famiglia[21], una svolta decisiva in tema di aborto si è avuto nel 1975, con la sentenza n.27 della Corte costituzionale[22], che prende in esame la legittimità dell’art.546 c.p. allora in vigore nella parte in cui è punito “chi cagiona l’aborto di donna consenziente anche qualora sia stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l’equilibrio psichico della gestante”.[23]

La Corte dichiara l’incostituzionalità dell’articolo e prevede che “non vi sia equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona ancora deve diventare”.

Grazie a questa pronuncia si recepisce l’eco della sentenza della Corte Suprema americana che si era pronunciata, come visto nel paragrafo precedente, nel 1973 sul caso Roe v. Wade[24] e si stabilisce il “superiore valore” della madre, intesa quale persona già formata, rispetto al feto che “persona in senso pieno ancora non è”.[25]

Si tratta di un passaggio storico che origina da un clamoroso processo pubblico sull’aborto che apre la strada a nuovi spazi per il dibattito e che proprio sulla spinta del vuoto normativo che la stessa Corte costituzionale aveva lasciato, qualche anno più tardi, conduce alla formulazione della legge italiana sull’aborto, la n. 194 del 1978, dal titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” che portava in calce la firma dell’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e dei ministri Anselmi, Bonifacio, Morlino, Pandolfi.[26]

La critica femminista ricorda come il presente articolato non sia una “buona legge” che intende liberalizzare l’aborto (che rimane comunque vietato in linea di principio, ma oggetto di permesso solo nelle forme stabilite dalla legge), ma sia una “cattiva legge” che ha effettivamente funzionato in quanto disapplicata.[27]

La suddetta legge consente, dunque, alla donna di poter far ricorso all’IVG in una struttura pubblica nei primi novanta giorni di gravidanza qualora “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.[28] Per quanto concerne invece il quarto e il quinto mese di gravidanza l’aborto è previsto esclusivamente per motivi di natura terapeutica, ossia quando “la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; (…) siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.[29]

Volendo poi sintetizzare il testo della legge, attenzione deve essere data all’art. 2, il quale regola funzioni e doveri dei consultori, mentre negli art. 12 e 13 si esplica la disciplina della tutela delle situazioni di minori e donne interdette per le quali è assicurata la possibilità di accedere alle pratiche abortive a seguito di autorizzazione manifestata dal tutore o dal giudice tutelare.

Leggendo attentamente il dettato della legge 194 del 1978 si rileva come la stessa più che definire un diritto all’aborto vada, piuttosto, a regolamentare i casi in cui l’aborto non può essere considerato reato.

Orbene, sul punto ci viene in soccorso l’art. 5 della stessa legge il quale dispone che “il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso (…) di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta (…), le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. Nel momento in cui il medico del consultorio o della struttura, o il medico di fiducia, “riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza” con cui la donna ha la possibilità di presentarsi innanzi alle sedi autorizzate per attuare l’IVG. Nel caso in cui non vi fosse urgenza “al termine dell’incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all’articolo 4, le rilascia copia di un documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate.”

Diverse polemiche sono state sollevate in ordine all’art. 9 della l. 194/1978 in tema di obiezione di coscienza. Si paventava l’idea che il presente articolo potesse diventare l’arma affilata con cui i cattolici intransigenti appartenenti alla ristretta categoria professionale (ostetrici e ginecologi) potessero rendere inoperante la legge sull’aborto.

Diverse sono le contraddizioni in termini che riaffiorano dalla lettura del testo della legge 194/1978.

Invero, già la Corte costituzionale con la sentenza citata nelle prime righe del presente paragrafo subordina l’interesse del feto a quello della salute della donna, ma nel mentre connette il primo all’art. 2 della Carta costituzionale, non riconosce alcun rilievo costituzionale alla libertà di procreare della donna, ma ne richiama solo il diritto alla salute di cui all’art. 32 della stessa Carta. [30]

Nelle maglie della legge di cui in commento, l’interruzione volontaria della gravidanza appare più una concessione dello Stato che un diritto della donna. È questo il tallone d’Achille della normativa italiana in tema di aborto, perché la donna è ancora costretta a giustificare la propria decisione in linea con quanto statuito dall’articolato della l. 194/1978.[31]

5. Confronto tra lo storico passo indietro in America in materia di aborto e l’attuale situazione in Italia

Cinquant’anni dopo la storica sentenza Roe v. Wade la Corte Suprema americana con pronuncia del 24 giugno 2022 ha deciso che “la Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”.

Si tratta, come definito dalla critica giornalistica, di una “decisione generazionale di matrice conservatrice”.

La decisione che afferma che sarà diritto dei singoli Stati decidere e, se voluto, vietare l’aborto è stata assunta con una maggioranza di sei giudici contro tre nel caso Dobbs v. Jackson Woman’s Health Organization, nell’ambito della quale i giudici hanno confermato la legge in vigore nel Mississippi che proibisce l’interruzione della gravidanza passate le quindici settimane.

A seguito della decisione gli Stati del Texas e del Missouri hanno immediatamente vietato l’aborto, copione seguito successivamente in South Dakota.

Si tratta di un “tragico errore”, come l’ha definito il presidente degli Usa Joe Biden ai media americani, che alimenta la difficoltà di accesso all’aborto e fa riemergere un problema di censo. Vi è infatti in atto una vera e propria discriminazione di natura economico-territoriale dovuta alla circostanza che la donna, già costretta a spostarsi, solo se in possesso di risorse monetarie sufficienti potrà permettersi di migrare da uno Stato all’altro e, dunque, accedere alle pratiche abortive. Di converso la gestante che non dispone della stessa fortuna si dovrà affidare solo “alla mano di Dio” e alle cure clandestine.

A fronte del presente scenario americano, l’Italia resta, al momento, ancorata al dettato della legge sull’aborto n.194 del 1978 la quale, tuttavia, non può considerarsi blindata, stanti i tormenti che periodicamente riaffiorano portando il tema dell’aborto sulla scena politica e giuridica, dove si riproduce il contrasto tra chi ne paventa una compressione o l’eliminazione e chi rivendica la sua natura di diritto, nella prassi spesso osteggiata. Lo dimostrano alcuni dati. In Italia il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza è in continuo calo e i tassi di abortività sono tra i più bassi nel mondo. Altresì a scendere è anche la quota di obiettori di coscienza, che rimane attestata, tuttavia, su percentuali alte. Nel 2020, la percentuale di ginecologi obiettori su scala nazionale era pari al 64,6% rispetto al 67% dell’anno precedente.[32]

Tuttavia, proprio quest’ultima pronuncia della Corte Suprema americana in materia di aborto potrebbe invertire la rotta, dando nuova linfa alle ragioni degli anti-abortisti.

Anche in Italia, infatti, la legge in materia di aborto non ha cessato il dibattito tra i “pro life”, tra cui gli obiettori di coscienza, e i “pro choice” e non si dimostra neppure neutrale sul punto, stante la sua tendenza a prediligere il “no-aborto”, come dimostrato dal combinato disposto degli art. 4 e 5 che mira a far desistere la donna dall’intento di dar luogo all’interruzione volontaria della gravidanza.

Questa soluzione ibrida se poteva essere condivisa nel ’78, attualmente necessita di una ventata di aria fresca nella direzione dell’autodeterminazione della donna, in linea con le diverse pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.[33]

La legge 194 del 1978 mostra un’eccessiva ingerenza nella scelta della donna in gravidanza e le percentuali cui si è fatto riferimento in precedenza non ne consentono la piena applicazione. Infatti, più che garantire alla donna un “diritto all’aborto” disciplina un sistema bizantino di persuasione della gestante limitando e, talvolta, addirittura ostacolando la sua capacità di ragionamento, inducendola a compiere delle scelte spesso condizionate da personale medico “pro life” vanificando così il bilanciamento di interessi sottesi al momento della nascita della legge italiana sull’aborto.

E quindi è corretto parlare di scelta di libertà responsabile in materia di aborto?[34]

Dinanzi al quadro fin qui prospettato, dove in generale i diritti sociali e riproduttivi che riguardano le donne e il loro corpo sono sottoposte a continuo attacco, dove la pratica clandestina dell’aborto è diventato “fatto” che ha scosso e cambiato l’opinione pubblica, dove ancora oggi per retaggio culturale primeggia il “segreto”, dove persiste la sottomissione al sistema dei pregiudizi; in un Paese che deve consentire di far emergere la capacità di scelta dell’individuo, donna o uomo che sia,  in uno Stato democratico dove il patriarcato non dovrebbe più essere lo schema di base delle famiglie, dove gli articoli 7 e 8 della Carta costituzionale esplicitano il principio di laicità dello Stato, si ritiene che solo una riqualificazione della stessa formula “diritto all’aborto” potrebbe (finalmente) garantire la formazione di un nuovo modello giuridico e culturale nel quale la donna possa disporre in autonomia del proprio corpo e possa, dunque, autodeterminarsi, nonché accedere “effettivamente” alle pratiche relative all’interruzione della gravidanza.

 

 

 

 

 


[1] Baraggia A., Il complesso bilanciamento nelle leggi sull’aborto: una prospettiva comparata, 2019
[2] Iacarella A., Breve ricostruzione storica dell’approvazione della legge n.194 del 1978. Dall’avvio del dibattito culturale ai referendum del 1981
[3] Acronimo con il quale ci si riferisce all’ Interruzione Volontaria della Gravidanza
[4] L’espressione “thick description”, ossia descrizione densa, è un’espressione coniata da G.H. Mead, sociologo americano, impiegata successivamente da L. Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosemberg&Sellier, 1991
[5] D’Elia C., L’aborto e la responsabilità. Le donne la legge e il contrattacco maschile, Roma, Ediesse, 2008; Perini L., Quando l’aborto era un crimine. La costruzione del discorso in Italia e negli Stati Uniti (1965- 1973), Storicamente, 6 (2010)
[6] Si ricordi a tal punto la rivista italiana “Effe”, nata nel 1973 quale rivista mensile, sotto la direzione di Adele Cambria; ex multis un accento deve essere posto su “Noi donne”, nata come foglio nel 1973 e qualche anno dopo, nel 1944, divenuta una vera e propria rivista mensile
[7] V. N. Giorda, Fare la differenza. L’esperienza dell’Intercategoriale donne di Torino, 1975-1986, Torino, Angolo Manzoni Editore, 2007.
[8] Cfr. J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Milano, Feltrinelli, 1996
[9] I gruppi di attivisti erano sia “pro choice” che “pro life”. Per approfondire cfr. When Abortion Was a Crime: Woman, Medicine, and law in the United States, 1867-1973, California University Press, s.d.
[10] Una puntuale analisi è stata effettuata dallo studioso R. Nossiff, il quale evidenziava che le diverse posizioni tra Stato e Stato in America in tema di aborto non scaturivano da una mera distribuzione politica del governo tra democratici e repubblicani, né era afferente ad una forte o meno presenza dei cattolici o dalle diverse condizioni economiche. La linea di pensiero era dettata da un insieme di elementi che toccavano il campo politico, economico, sociale e religioso. Sul punto cfr. R. Nossif, Discourse, Party, and Politicy: The case of Abortion, 1965-1972, “Politicy Studies Journal”, Vol. 26 (1998) II, 244-256.
[11] Il periodo storico di riferimento è quello che va dal 1965 al 1972
[12]Galeotti G., Storia dell’aborto, Bologna il Mulino, 2003,106
[13] Tra i gruppi che nascono in questo periodo storico si richiama il NARAL (National Association of Repeal of Abortion Law)
[14] Cfr. Roe v. Wade, 410 US, 113 (1973)
[15] Bognetti G., Aborto (voce), in Enciclopedia Treccani, 1991, p.7
[16] “Targeted Regulation of Abortion Providers” sulle quali si veda Siegel S., Greenhouse L., Casey and Clinic Closings: When ‘Protecting Health’ Obstructs Choice, in Yale Law Journal, 2016, vol. 125, 1150
[17] 41 Stati richiedono che l’IVG sia eseguito da personale medico; 19 Stati richiedono che, passato un determinato limite temporale di gravidanza l’aborto sia eseguito in una struttura ospedaliera; 19 Stati prevedono il coinvolgimento di un secondo medico oltre un certo termine di gravidanza.
[18] 20 sono gli stati che hanno bandito la pratica del Partial Birth Abortion
[19] L’esempio americano non viene seguito dal Canada che esclude del tutto le donne dalle decisioni affidando ai medici ogni atto. Più precisamente la legge canadese permette l’aborto, ma rimette la decisione al medico. Sul punto per approfondire si rimanda a Brodie J., Gavigan S.M., Jenson J., The politics of abortion, Toronto, Oxford University Press, 1992
[20] Negli anni che vanno dal 1970 al 1974
[21] Nel 1975
[22] V. Corte Costituzionale della Repubblica Italiana, sentenza n.27/1975
[23] Cfr. Art. 546, Aborto di donna consenziente, Codice Penale Italiano, Libro II, Titolo X, Dei delitti contro la integrità e la sanità di stirpe, 1930
[24] Cfr. Kingstone J., Whelan A., Bacik I., Abortion and the law, Round Hall Sweet & Maxwell, Dublin, 1997
[25] Cfr. Rossanda R., Considerazioni sull’aborto, “Il manifesto”, 23 gennaio 1975
[26] I primi commentatori della legge 194/1978 hanno indicato che l’aborto non si potesse collocare sullo stesso piano della maternità, espressamente tutelata dalla Carta costituzionale all’art. 31 comma 2. Sul punto cfr. Bianca C.M., Sub art. 1, I, in Bianca C.M. – Busnelli F.D. (a cura di) Commentario alla l. 22 maggio 1978, n.194, in Nuove L. civ. Comm., 1978, p. 1593 “la legge non è volta a tutelare l’interruzione della gravidanza come esercizio di libertà civile e come espressione di un valore positivo della persona (…). L’aborto non è considerato in termini equivalenti alla maternità”.
[27] Sul punto cfr. Pitch T., Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità, il Saggiatore, Milano, 1998.
[28] V. Art. 4 legge 194/1978
[29] V. Art. 6 legge 194/1978
[30] Cfr. D’amico M., Donna e aborto nella Germania riunificata, Giuffrè, Milano, 1994.
[31] V. Di Masi M., Obiezione di coscienza e interruzione volontaria di gravidanza: il Consiglio d’Europa Ammonisce l’Italia
[32] Nel 2020 sono state poco più di 66mila, il 9,3% in meno rispetto al 2019 e circa un quarto rispetto al picco massimo di 234mila registrato nel 1983. V. Aprati P., Alt all’aborto, la Corte Suprema come una scure sui diritti delle donne. Proteste in tutta l’America. Una decisione che ha spaccato gli Stati Uniti e che ha rinnegato oltre 50 anni di lavoro della Corte che in alcuni casi è stata artefice di grandi progressi nel campo dei diritti in www.rainews.it. In cinque regioni e nella provincia autonoma di Bolzano la percentuale di obiettori di coscienza arriva o supera l’80 per cento, fino ad arrivare al 92,3 per cento di ginecologi obiettori del Molise. Sono inoltre obiettori anche il 46,3 per cento degli anestesisti e il 42,2 per cento del personale sanitario non medico. Cfr. https://www.ilpost.it/2021/03/29/aborto-obiezione-coscienza-italia/
[33] Sul punto si ricorda il caso R. R. v. Poland (ricorso no. 27617/04) con il quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la normativa polacca in tema di aborto poiché viola gli artt. 3 (trattamento inumano e degradante) e (mancato rispetto della vita privata e familiare) della CEDU.
[34] Cfr. Dworkin R., Il dominio della vita. Aborto, Eutanasia e libertà individuale, Milano, Edizioni di Comunità, 1994; Bimbi F., Madri sole e un po’ padri. Declinazioni inattese nei rapporti tra genere e generazione, in Madri Sole e nuove famiglie, a cura di Bimbi F. Trifiletti R., Roma, Edizioni Lavoro, 2006; Mori M., Aborto e morale. Capire un nuovo diritto, Torino, Einaudi, 2008

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Alessia Albanese

Laureata in giurisprudenza con votazione di 110/110 e lode presso l’Università del Salento e attualmente specializzanda presso la scuola di specializzazione per le professioni legali “Vittorio Aymone” in Lecce. Già collaboratrice presso le riviste giuridiche Studio Cataldi, Diritto del Risparmio, Filodiritto, Diritto.it e vincitrice del Premio "Miglior lavoro di squadra cliente-avvocato" 7CIM - Competizione Italiana di mediazione MILANO, nonché seconda classifica alla Mav- Edizione Master "Mediazione a Verona" con premio - tirocinio formativo presso l'Organismo di mediazione della Camera di Commercio Verona.

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