Abuso d’ufficio, lo “stato dell’arte”

Abuso d’ufficio, lo “stato dell’arte”

Premessa. Il reato di “abuso d’ufficio” fin dalla sua introduzione nel 1990[1], ha destato enormi perplessità e preoccupazioni circa la sua applicabilità de plano a condotte del P.U. ispirate il più delle volte al perseguimento dell’interesse pubblico, permeate talvolta da anomalie più o meno marcate, e rilevate dall’A.G. con un livello di apprezzamento e qualificazione del reato di dubbia compatibilità costituzionale.

Questo illecito ha gradualmente creato un “alone” giuridico ma soprattutto culturale per certi versi “drammatico” per qualunque funzionario della Pubblica Amministrazione, che inevitabilmente ispirava ed articolava la propria attività istituzionale a canoni prudenziali parossistici, motivati dal terrore di “incappare” in un procedimento penale. Tale timore veniva sintetizzato dalla dottrina con la c.d. “paura della firma” o “burocrazia difensiva”, immobilizzante e deleteria al corretto svolgimento dell’attività amministrativa. Ciò ha stimolato un dibattito continuo e proficuo tra legislatore, dottrina e giurisprudenza, che ha ispirato “fortunatamente” alcune modifiche significative al dettato normativo con riflessi importanti sulla portata “operativa” della norma incriminatrice.

Evoluzione normativa. Omettendo volutamente riferimenti anacronistici al reato omologo previsto dal Codice Rocco e vigente fino al 1990, l’art. 323 del C.P. come introdotto dalla Legge 26 aprile 1990, n. 86[2] trovava la ratio nella necessità in un periodo storico particolare, di colpire in via residuale le condotte penalmente rilevanti non riconducibili a fattispecie già enucleate nel Libro Secondo Titolo II Capo I del Codice Penale, evidentemente a carattere corruttivo. La finalità era fin da allora quella di “pungolare” il Pubblico Funzionario a ispirare la propria attività a quel corollario di principi e valori di matrice costituzionale, riconducibili al genus del “buon andamento e imparzialità della P.A.”[3] Fin da allora qualificava condotte ben diversificate, caratterizzate da un “abuso” del “Pubblico Ufficiale o incaricato di Pubblico Servizio” connesse funzionalmente alla finalità di procurare a se o ad altri un “ingiusto vantaggio patrimoniale o arrecare un danno ingiusto”. La formulazione per la sua ampiezza operativa, si prestava ad applicazioni illimitate attribuendo all’A.G. una discrezionalità che poteva invadere ambiti appannaggio della giustizia amministrativa[4] ed erariale[5], e comunque attinenti a scelte discrezionali di natura amministrativa e/o tecnica che pur caratterizzate da “criticità”, non necessariamente dovevano essere “emblema” di fattispecie penali ma semplicemente fenomeni di “mala gestio”.

Proprio questo tipo di problematiche hanno posto la necessità di una modifica nella norma in questione, che andasse a porre degli argini ad una applicazione esorbitante ed eccessiva della stessa, nel 1997 con la Legge 16 luglio, n. 234[6], arriva la prima novella che perfeziona la norma prevedendo più presupposti per la qualificazione del reato, circoscrivendo l’operatività a fatti avvenuti durante lo “svolgimento delle funzioni o servizio” prevedendo all’uopo la “violazione di norme di legge o regolamento” o “omissione del dovere di astensione  in presenza  di  un  interesse proprio  o  di un  prossimo congiunto o  negli altri casi prescritti” e nello specifico “l’intenzionalità nel procurare a sé o  ad altri un  ingiusto vantaggio patrimoniale o nell’arrecare ad altri un danno ingiusto”. Tale impostazione normativa pur rappresentando indubbiamente un miglioramento qualitativo del precetto normativo, poneva questioni ulteriori a titolo esemplificativo, un profilo critico riguardava la natura e la portata del termine “regolamento”[7] che in un ordinamento costituzionale fortemente autonomistico[8] caratterizzato dall’autonomia regolamentare degli Enti Locali, poneva enormi perplessità sulla indeterminatezza di disposizioni contenute in tali fonti.

Questo dettato normativo di applicazione più complessa, è restato “tale e quale” fino al 2020, eccettuata la modifica del 2012 che disponeva semplicemente l’inasprimento della cornice edittale, avvenuta con Legge 6 novembre 2012, n. 190[9] varata nell’ambito delle misure preventive e deterrenti contro i fenomeni corruttivi.

Nel 2020 sulla scorta di riflessioni inerenti la necessità di “velocizzare e snellire” le procedure amministrative connesse alla c.d. “ripartenza”[10], con Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120[11] il Legislatore interviene pesantemente sostituendo nell’articolo in questione “norme di legge o di regolamento” con “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non  residuino margini  di discrezionalità’. Questa novella sovverte l’architettura del reato in questione, depurando nella prima ipotesi della fattispecie la rilevanza delle “fonti regolamentari” e limitando l’applicabilità alla attività amministrativa “vincolata”[12].

Inquadramento attuale. Attualmente l’art. 323 dopo aver esordito con la classica clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato…” finalizzata ad evitare un deleterio assorbimento all’interno di questo reato di forme più gravi di illecito, delimita al Pubblico Ufficiale[13] e all’Incaricato di Pubblico Servizio[14] nello svolgimento di funzioni o del servizio[15] il reato. Il nucleo della norma attiene alla violazione di “specifiche regole di condotta” espressamente previste fonti legislative o aventi forza di legge, dove non residuino margini di discrezionalità o l’omessa astensione in presenza di un “interesse” proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti[16]. La c.d. “doppia ingiustizia” presuppone un vantaggio patrimoniale a se o ad altri, e un danno ingiusto.

Dal punto di vista sostanziale e teorico, l’abuso d’ufficio si presenta quindi come un reato proprio, plurioffensivo, di evento a forma vincolata ed a dolo intenzionale.

La cornice edittale prevede la reclusione da uno a quattro anni, e una circostanza aggravante comune in caso vantaggio o danno sia carattere di rilevante gravità[17].

L’attuale assetto giurisprudenziale. La prima pronuncia 1146/2020 Cass. Pen. Sez. 6 non è tardata ad arrivare anche sull’allarmismo generato dall’idea di abolitio criminis massiva. Nella sentenza in questione si conferma l’irrilevanza penale di provvedimenti emanati nell’esercizio di “discrezionalità tecnica o amministrativa”, intesa come “autonoma scelta di merito effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e privati, e dell’interesse pubblico primario da perseguire in concreto”. Nella medesima sentenza vengono affrontate questioni diritto intertemporale, non ci sono dubbi infatti che le fattispecie “espulse” dal perimetro della norma, nei processi in corso debbano conclamarsi con il proscioglimento con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.

Nelle sentenze 30127/2021 Cass. Pen. Sez. 6  e  33240/2021 Cass. Pen. Sez. 6, oltre a rimarcare l’irrilevanza del “tipo di fonte” per la seconda fattispecie del 323 c.d. “obbligo di astensione”, si affronta la tematica dell’eterointegrazione della fonte primaria, da parte di norme regolamentari di natura tecnica. Il collegio afferma che la “specificazione tecnica di un precetto comportamentale, già compiutamente definito nella norma primaria” costituisce violazione del precetto penale anche dopo la novella de quo.

L’ultima pronuncia della Corte Costituzionale, ha invece approfondito tra l’altro il tema dell’utilizzo della decretazione d’urgenza in materia penale, potenzialmente in contrasto con il principio di legalità. Nella sentenza 18 Gennaio 2022 n. 8 viene confermata la validità della novella convertita peraltro integralmente in Legge, considerando tali modifiche in linea con la convinzione ispiratrice della riforma della norma, cioè limitare il rischio penale fonte della “burocrazia difensiva” e fonte dell’inefficienza della P.A., in un periodo storico caratterizzato dall’emergenza COVID-19, e dove emergeva come impellente l’esigenza di “ripartire”.

Profili evolutivi. Da un punto di vista evolutivo, l’auspicio è quello di una sostituzione integrale di questa norma incriminatrice con strumenti preventivi[18], che operino preliminarmente e ben prima di attivare eventualmente gli strumenti di tutela giurisdizionale amministrativa. Tale impostazione permetterebbe di salvaguardare il pubblico funzionario da una “esposizione” inconciliabile con un “sereno” esercizio dell’autonomia organizzativa, gestionale ed amministrativa, che a fortiori nell’attuale epoca storica richiede un “dinamismo burocratico”, che non può essere “ostaggio” di un timore di “fare” nell’interesse della collettività. Contestualmente andrebbe “blindato” lo stesso funzionario pubblico da eventuali pressioni e/o influenze di natura politica non riconducibili a “direttive ed indirizzi”, e non in linea con il perseguimento dell’interesse pubblico.


[1] “Art. 323 – “Il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti le sue funzioni, commette, per recare ad altri danno o procurarli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto dalla legge come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire cinquecento a diecimila euro”
[2]  “Art.  323 – “Il  pubblico  ufficiale  o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a se’ o  ad  altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo  ufficio,  è  punito,  se  il fatto  non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se  il  fatto  è commesso per procurare a se’ o ad altri in ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena e’ della reclusione da due  a  cinque anni“.
[3] Art. 97 Costituzione “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.”
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
[4] Le fattispecie patologiche riconducibili all’eccesso di potere a titolo esemplificativo lo “sviamento di potere”.
[5] Riconducibile all’universo di casistiche inerenti il c.d. “danno erariale”.
[6] Art. 323 –Salvo che il  fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che,  nello svolgimento  delle funzioni  o del  servizio, in violazione di  norme di legge  o di regolamento, ovvero  omettendo di astenersi  in presenza  di  un  interesse proprio  o  di un  prossimo congiunto o  negli altri casi prescritti,  intenzionalmente procura a se’ o  ad altri un  ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero  arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità’“.
[7] La definizione di “Regolamento” non si esaurisce nell’inquadramento come “fonte secondaria del diritto” e al rinvio alla Legge 23 Agosto 1988, n. 400, ma richiede riflessioni importanti sulla natura e collocazione dei “regolamenti degli Enti Locali”.
[8] In particolare dopo la L. Cost. 3/2001 “Riforma del Titolo V della Costituzione”.
[9] Art. 1 c. 75 lett. p) all’articolo 323, primo comma, le parole: «da sei mesi  a  tre anni» sono sostituite dalle seguenti: «da uno a quattro anni».
[10] Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
[11] Art. 23 All’articolo 323, primo comma, del codice penale, le parole  «di norme di legge o di regolamento,» sono sostituite dalle seguenti: «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali  non  residuino  margini  di discrezionalità’».
[12] Per definizione l’attività amministrativa vincolata presuppone l’assenza di operatività discrezionale, e quindi “imbriglia” il modus operandi della P.A., contrapponendosi all’attività discrezionale (ndr amministrativa o tecnica) oggetto di valutazione gestionali, politiche e comunque frutto di un bilanciamento di interessi.
[13] Art. 357 C.P. “Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.
[14] Art. 358 C.P. “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.
[15] La dottrina prevalente individua con tale espressione un collegamento funzionale tra condotta ascritta e le funzioni svolte, non rilevando come requisito essenziale la contestualità temporale dell’attività istituzionale.
[16] Il riferimento è al novero di obblighi previsti dal Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici contenuto nel D.P.R. 16 Aprile 2013 n. 62 e dai relativi codici di cui si dotano le Amministrazioni.
[17] Il danno o vantaggio patrimoniale deve essere contestualizzato, secondo un criterio oggettivo che tenga conto del “valore intrinseco della cosa”, qualunque criterio soggettivo opera in via sussidiaria ed eventuale.
[18] Ideale sarebbe un organo di controllo su atti e provvedimenti emanati da organi della P.A. costituzionalmente compatibile, a metà strada tra i “vetusti e aboliti” “Co.Re.Co. e l’attuale A.N.A.C.

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