Accordi di ristrutturazione dei debiti: peculiarità, deroghe ed ambiguità
La “rivoluzione normativa” avvenuta attraverso la riforma organica delle società di capitali e quella delle procedure concorsuali – avvenuta nel 2005 e nel 2006 – appare ispirata al fine di adeguarne la disciplina di una moderna economia di mercato. Il nuovo diritto societario, infatti, “marcia” e “vuole marciare” dietro la bandiera dell’autonomia privata. L’ampia apertura della struttura societaria all’autonomia privata si è tradotta in una considerazione del contratto associativo non più in termini di contratto-fattispecie (quale capacità del contratto di dar vita ad un’alterità soggettiva da cui discende la limitazione della responsabilità) ma in termini di atto di regolamentazione di privati interessi. Il che avviene all’interno di un’ampia lettura dell’art. 41 della Costituzione. Ma il limite di questa libertà di auto-organizzazione dell’impresa esercitata in forma collettiva è da rinvenirsi nell’art. 47 Cost., che si occupa della tutela del risparmio. Marcati e decisi appaiono i “nuovi assetti privatistici” nella riforma delle procedure concorsuali. La legge fallimentare del 1942 evidenziava la propria natura nel presentarsi come lo strumento normativo che garantisce e disciplina la tutela esecutiva dei creditori, in una situazione di crisi dell’impresa, nella forma capace di assicurare nel maggior grado ritenuto possibile, la tutela della par condicio. Accanto alla tutela privatistica, ben si poteva individuare, nella legge, la sua matrice di carattere pubblicistico: la considerazione di un interesse “superiore”, ma avvertito come coincidente con quello della tutela giurisdizionale del credito, perché veniva a consistere nella soppressione ed espulsione dal mercato dell’impresa “inefficiente”, che non crea, ma distrugge ricchezza. Tale convergenza tra pubblico e privato è venuta meno a partire dagli anni ’70, in presenza di una grave crisi della nostra economia. E così, a partire dalla c.d. Legge Prodi del 1979, la gerarchia degli interessi è ribaltata non già per mano della giurisprudenza, bensì dal legislatore stesso e quindi con una valenza generale ed astratta. Da qui la ricerca, attraverso il susseguirsi di interventi normativi, delle condizioni che possono legittimare il perseguimento del “salvataggio” dell’impresa: di quelle, cioè, in presenza delle quali, l’impotenza patrimoniale dell’imprenditore a far fronte delle proprie obbligazioni non coincide con l’impotenza dell’impresa a permanere nel circuito economico. Infatti, non necessariamente la crisi d’impresa deve passare attraverso una procedura d’insolvenza, essendo riconosciuta dalla legge e sottoposta ad un regime di favore la soluzione privatistica della crisi, che vede l’intervento del giudice limitato alla sola omologazione. Spetta a quest’ultimo, infatti, il compito di riconoscere all’accordo concluso tra soggetti privati la conformità al modello legale, ed a conferire, così, a quell’accordo la stabilità che da solo esso non avrebbe.
La composizione negoziale dell’insolvenza ha trovato il suo punto di emersione e di autonoma disciplina normativa nell’art. 182 bis l. fall. rubricato “accordo di ristrutturazione dei debiti”. Esso stabilisce che l’accordo debba intervenire tra l’imprenditore in stato di crisi ed i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti. Prima di tale articolo, gli accordi stragiudiziali, in caso di successivo fallimento, erano sottoposti a gravi rischi: sul piano civile per le azioni revocatorie e per quella di abusiva concessione di credito; sul piano penale per la sottoposizione a incriminazione per bancarotta preferenziale. Si trattava, dunque, di accordi in bilico tra esito di risanamento e rischio di aver concorso ad aggravare il dissesto, con conseguenze sanzionatorie verso i creditori aderenti. Quindi, lo scopo della norma è l’eliminazione della revocatoria fallimentare. Il piano di ristrutturazione non necessariamente mira alla prosecuzione dell’impresa, al ripristino della sua incapacità di restare sul mercato, potendo, anche, la soluzione privatistica della crisi, risolversi in una completa liquidazione dell’impresa. Si avrà quindi una ristrutturazione del passivo attraverso rinunce da parte dei creditori all’esigibilità immediata, agli interessi o a parte del capitale: ma l’obiettivo è quello di rendere concretamente realizzabile il pagamento dei creditori estranei all’accordo. Ecco, dunque, che la gestione privatistica della crisi scarica, sul negoziato fra una parte dei creditori e il debitore, la ricerca della migliore composizione del dissesto, affidando così allo strumento civilistico del contratto il buon governo della crisi.
Ciononostante, la natura contrattuale di tali accordi è discussa, in ragione dei rapporti tra il novello istituto e il concordato preventivo. Secondo una corrente minoritaria, infatti, gli accordi di ristrutturazione sarebbero da qualificare come species del genus concordato preventivo (la tesi fa leva sulla collocazione sistematica dell’art. 182 bis l. fall. nonchè sull’analisi esegetica del comma primo). Una teoria contraria afferma, invece, la natura negoziale degli stessi, in quanto autonomi e diversi rispetto al modello concordatario. Tale orientamento ritiene, altresì, che la tesi minoritaria integrerebbe una violazione del principio della relatività degli effetti del contratto (art. 1372 c.c.) oltre che dei principi costituzionali di cui agli artt. 42 e 24 Cost. Ma quel che è certo, a prescindere da simili qualificazioni, è che trattasi di figura nominata, riconosciuta dall’ordinamento che ne ha comunque fornito una, foss’anche scarna, disciplina.
Anche dopo l’emanazione della legge, non sono mancate autorevoli critiche al “fondamentalismo contrattualista” che è fra le linee ispiratrici della riforma e che sembrerebbe favorire, fra i creditori, quelli muniti di maggiore forza contrattuale. A tal proposito è opportuno precisare che gli effetti degli accordi di ristrutturazione dei debiti si riverberano verso i “creditori esterni”. Il nostro ordinamento riconosce alle parti di un contratto la possibilità di incidere in senso esclusivamente vantaggioso nella sfera giuridica del terzo e giammai in senso sfavorevole. Tuttavia, in deroga all’art. 1372 c.c., negli accordi di ristrutturazione dei debiti, i creditori estranei subiscono un effetto svantaggioso: essi, infatti, devono attendere, prima di ottenere il pagamento del credito, centoventi giorni decorrenti dall’omologazione (in caso di crediti già scaduti a quella data) o, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione, dalla scadenza. Altro aspetto svantaggioso di tali accordi per i creditori esterni è dato dal fatto che, dalla data della pubblicazione dell’omologazione dell’accordo e per sessanta giorni, i creditori per titolo e causa anteriore a tale data non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, né acquisire titoli di prelazione se non concordati.
Ma, il problema più delicato e dagli effetti più destabilizzanti è quello di assicurare all’impresa insolvente i flussi finanziari per la prosecuzione dell’attività: il problema della c.d. nuova finanza. Il rischio – altrimenti difficile da accettare – del finanziamento del debitore in crisi può essere, con l’accordo contrattuale, in gran parte neutralizzato dalla concessione di garanzie reali. Il regime di stabilizzazione assicurato dalla legge, con l’immunità da revocatoria, produce una conseguenza pratica – di postergazione dei vecchi crediti rispetto a quello nuovo garantito – assimilabile al risultato della prededuzione. Pertanto, verificatosi il fallimento, per i creditori estranei rimane del tutto astratto il mantenimento del diritto ad essere pagati per intero alle scadenza pattuite.
Inoltre, ai sensi dell’art. 182 quinquies l. fall., il debitore che presenta una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti può chiedere al tribunale di essere autorizzato a pagare i crediti anche anteriori per prestazioni di beni o servizi. In tal caso i pagamenti effettuati non sono soggetti all’azione revocatoria fallimentare. Ciò significa che, in caso di fallimento dell’imprenditore, il creditore estraneo non può esercitare l’azione revocatoria nei confronti di quei pagamenti che sono stati effettuati in esecuzione dell’accordo. Questi, infatti, restano a favore dei creditori che li hanno ricevuti.
Infine, l’ultimo effetto negativo è dato dalla convenzione di moratoria. Ai sensi dell’art. 182 septies l.fall., quando fra l’impresa debitrice e una o più banche o intermediari finanziari viene stipulata una convenzione diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi attraverso una moratoria temporanea dei crediti nei confronti di una o più banche o intermediari finanziari e sia raggiunta la maggioranza del settantacinque per cento dei crediti della categoria, la convenzione di moratoria, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile, produce effetti anche nei confronti delle banche e degli intermediari finanziari non aderenti se questi siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede.
Delineato, dunque, lo scenario in cui l’incidenza dell’accordo di ristrutturazione dei debiti produce effetti, non già favorevoli, bensì sfavorevoli rispetto ai creditori non sottoscrittori dell’accordo, appare opportuno precisare che in nessun caso, per effetto dell’accordo, è possibile imporre ai creditori non aderenti l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti.
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