Adozione: conoscere le proprie origini prevale sull’anonimato della madre
Il diritto dell’adottato – nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ex art. 30, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 – ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica di cui all’ art. 93, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 196 del 2003, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti di terzi dei dati personali conosciuti.
SOMMARIO: 1. Il fatto – 2. I motivi della decisione – 3. L’art. 28 comma 7 Legge n. 184/1983: l’intervento della Corte Costituzionale – 4. La portata innovativa della sentenza 22838/2016 – 5. Conclusioni
1. La sentenza in epigrafe ha accolto il ricorso di una figlia adottiva che aveva attivato il procedimento per conoscere le proprie origini, procedimento che non era andato a buon fine a causa della morte naturale della madre sopravvenuta nel corso dell’istruttoria.
Questi in breve i fatti di causa. Con decreto 2/3/2015 il Tribunale per i minorenni di Torino ha rigettato la domanda di una figlia, diretta ad ottenere l’accesso alle informazioni relative alle generalità della propria madre naturale la quale, al momento della nascita della ricorrente, aveva esercitato il diritto a rimanere nell’anonimato e, nel corso dell’istruttoria, era morta. Secondo il Tribunale torinese, in mancanza di una disciplina legislativa, il decesso non può essere considerato come revoca implicita della volontà di mantenere l’anonimato, tenuto anche conto dell’eventuale interesse che la madre può avere di tenere nascosta la notizia dell’abbandono di un figlio alla nascita ai familiari superstiti.
La Corte d’Appello di Torino, sezione speciale per i minorenni, investita del reclamo avverso il decreto 2/3/2015, confermava la sentenza di primo grado. I Giudici d’appello, a sostegno del rigetto della domanda, confermavano, innanzitutto, che non si poteva equiparare il decesso con la revoca dell’anonimato in assenza di una espressa previsione di legge e, inoltre, affidavano al legislatore il compito di tutelare il diritto all’anonimato con scelte procedimentali che limitassero adeguatamente e rigorosamente le modalità di accesso ai dati. La Corte d’Appello affermava che equiparare il decesso con la revoca dell’anonimato è una scelta meramente legislativa e, dunque, come tale, non la si poteva desumere nè dalla sentenza n. 278/2013 della Corte Costituzionale[1] nè dalla sentenza della Corte Europea dei diritti umani (caso Godelli contro Italia)[2].
2. Avverso questa pronuncia, la figlia proponeva ricorso in Cassazione. A sostegno delle proprie ragioni, la ricorrente rilevava diverse censure di legittimità .
Innanzitutto, veniva rilevata la violazione dell’art. 28, comma 7, della Legge n. 184 del 1983, alla luce, in particolare, della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, in quanto, nel rigettare la domanda, non si era proceduto al bilanciamento degli interessi tra il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e quello della madre a rimanere ignota, ma si era esclusa radicalmente la possibilità di revocare il diniego espresso al momento del parto in caso di morte della madre.
In secondo luogo si faceva rilevare che, secondo la giurisprudenza amministrativa[3], la morte affievolisce il diritto alla riservatezza rispetto ai diritti concorrenti dei vivi. Sul punto è intervenuto il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 3459 del 2012[4], ha espressamente stabilito che il diritto alla riservatezza si estingue con la morte del titolare e, nel compiere il bilanciamento dei due diritti, come previsto dall’art. 9 del D. Lgs n. 196 del 2003, ha ritenuto di garantire il diritto di accesso ai dati sensibili di soggetti defunti, se la richiesta ha lo scopo di tutelare interessi dei vivi.
Infine, la ricorrente faceva rilevare l’ingiustificata disparità di trattamento tra i figli adottati che, al compimento del venticinquesimo anno di età, possono automaticamente conoscere le proprie origini e quelli che, trovandosi nella sua situazione, si vedono negato lo stesso diritto.
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso.
Secondo la Suprema Corte, infatti, interpretare la norma considerando l’intervenuta morte della madre come un ostacolo assoluto a conoscere le proprie origini da parte dell’adottato, causerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i figli adottati, nati da donne che possono essere interpellate sulla reversibilità della scelta di anonimato fatta alla nascita e figli adottati nati da donne che hanno scelto l’anonimato ma non possono più essere interpellate su questa scelta poiché morte[5].
La Corte, però, precisa che in questi casi bisogna sempre tenere conto di eventuali diritti di terzi soggetti coinvolti nella vicenda.
Gli ermellini, infatti, hanno stabilito che il decesso non fa venir meno la protezione dell’identità sociale che la madre biologica aveva costruito durante la sua vita: ciò con riferimento all’eventuale nucleo familiare e relazionale dalla stessa costruito dopo l’esercizio del diritto all’anonimato.
La Corte di Cassazione, pertanto, riconosce sì il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini anche in caso di morte della madre che, all’atto della nascita, aveva esercitato il diritto all’anonimato, ma ne individua il limite di fronte ai possibili danni che eventuali terzi interessati (discendenti e/o familiari) potrebbero subire.
3. La versione originaria dell’art. 28 della Legge n. 184 del 1983 non consentiva all’adottato di conoscere l’identità dei genitori naturali, poiché, con l’adozione, il minore sostituiva il proprio status di figlio naturale con quello di figlio adottivo. L’adozione voleva essere per il minore un vera “rinascita” alla luce della quale tutto il passato perdeva rilevanza. Mantenere il segreto sulle origini biologiche era necessario, da un lato, per evitare il rischio di una doppia genitorialità per il minore e, dall’altro, per garantire la cesura di ogni tipo di rapporto tra genitori naturali, genitori adottivi e minore[6].
La legge n. 149 del 2001, però, sulla scia di numerose Convenzioni internazionali (Convenzione europea di Strasburgo sull’adozione dei minori, Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale e la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo), cambia completamente orientamento e stabilisce che l’adottato può conoscere l’identità dei propri genitori naturali. Così come novellato, l’art. 28 comma 5, infatti, riconosce un diritto incondizionato all’adottato a conoscere le proprie origini biologiche solo al compimento dei venticinque anni, età ritenuta dal legislatore idonea a garantire che la conoscenza non rappresenti per lui un trauma. Dunque, con il compimento dei venticinque anni, cade la segretezza sul rapporto genitoriale biologico e l’unica situazione giuridica rilevante per l’ordinamento diventa il diritto all’informazione dell’adottato.
Al minore di venticinque anni, invece, spetta solo il diritto a sapere di essere stato adottato (art. 28, comma 1), mentre la conoscenza delle generalità dei genitori è un diritto strumentale per la tutela di distinte situazioni giuridiche. Il comma 4, per i minori, ed il comma 5, per i maggiorenni intraventicinquenni, consentono l’accesso a tali informazioni solo in presenza, rispettivamente, di «gravi e comprovati motivi» e «gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psico-fisica», subordinando tale richiesta all’autorizzazione del Tribunale per i minorenni, a meno che i genitori adottivi siano morti o irreperibili (art. 28 comma 8).
Oggetto di recenti interventi giurisprudenziali è stato, in particolare, il comma 7 dell’articolo in esame. Tale comma, infatti, è stato interessato da una recente sentenza della Corte costituzionale, la quale ne ha dichiarato l’incostituzionalità nella parte in cui non ammetteva la possibilità per il Giudice di interpellare, su richiesta del figlio, la madre che avesse dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30 comma 1 del D.P.R. 396/200 all’atto di nascita, ai fini di un’eventuale revoca della dichiarazione. Con questa sentenza la Corte costituzionale, sulla scia di una precedente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, che aveva ammonito l’Italia di riconoscere una tutela maggiore alla madre a discapito del figlio (sentenza Godelli c. Italia del 25.09.2012), ha riconosciuto il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini, affermando che l’obiettivo della legge era quello di bilanciare gli interessi di tutti i soggetti coinvolti. Secondo la Corte europea, dunque, la legge italiana, nell’impedire all’adottato di conoscere le proprie origini, violava i principi enunciati nella Convenzione europea (art. 8)[7] e la sua rigidità al riguardo non teneva conto dell’eventuale e possibile cambiamento di volontà della madre di tener celata la propria identità.
4. Con la sentenza n. 278/2013, la Corte Costituzionale aveva individuato la reversibilità dell’anonimato della madre come possibilità per il figlio di avviare la procedura di verifica della persistenza o meno della volontà di anonimato.
Si trattava, certamente, di un enorme passo avanti al quale però mancava un ultimo tassello, quello cioè di individuare delle garanzie nell’ipotesi in cui la madre naturale fosse deceduta prima di pronunciare la propria volontà di mantenere o meno celate le proprie generalità.
E’ proprio in ciò che sta la grande portata innovativa della sentenza n. 22838/2016: la svolta di questa pronuncia, in un’ottica di bilanciamento degli interessi, sta nel considerare il decesso della madre come l’evento che fa venir meno le ragioni di protezione della donna.
Se, infatti, riconoscere il diritto all’anonimato è basato sulla necessità di salvaguardare madre e figlio da un contesto personale, sociale e culturale che può nuocere alla loro salute psico-fisica, con la morte della madre vengono meno tutte le ragioni di protezione considerate dal nostro ordinamento meritevoli di tutela, ad eccezione di eventuali diritti di terzi coinvolti nella vicenda (discendenti e/o familiari della madre).
Per la Suprema Corte, è necessario interpretare il decesso della madre come presunta volontà della stessa di far venir meno il segreto sulla propria identità poiché, se così non si interpretasse, il figlio, con la morte della madre, perderebbe in modo definitivo il suo diritto a conoscere le proprie origini e, di conseguenza, a formare la propria identità sociale.
5. In conclusione, si deve riconoscere alla Corte di Cassazione il merito di aver adeguato il diritto alla naturale evoluzione sociale: ciò che in passato era considerato uno stigma sociale, lesivo della reputazione e della onorabilità della madre, come l’abbandono di un figlio, non trova corrispondenza nell’attuale comune sentire.
L’abbandono di un figlio, infatti, è percepito in maniera diversa rispetto al passato ed è un fenomeno che è andato in progressiva diminuzione. Ciò ha permesso, quindi, di poter porre maggior attenzione sul diritto all’identità personale del figlio, superando così il diritto all’oblio della donna, non più considerato come un limite invalicabile ed infinito nel tempo.
[1] Corte Cost., sentenza in data 18.11.2013, n. 278, in www.cortecostituzionale.it, secondo cui la Corte: “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza la possibilità per il giudice di interpellare la madre “che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) “su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.
[2] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza in data 25.09.2012, ricorso n. 33783/2009, in www.giustizia.it per cui “la Corte ricorda che, se l’articolo 8 tende fondamentalmente a difendere l’individuo da ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da ingerenze di questo tipo: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata. Essi possono implicare l’adozione di misure volte al rispetto della vita privata fino alle relazioni degli individui tra loro (X e Y c. Paesi Bassi, sentenza del 26 marzo 1985, § 23, serie A n. 91). La linea di separazione tra gli obblighi positivi e negativi dello Stato a titolo dell’articolo 8 non si presta ad essere definita con precisione; i principi applicabili sono comunque assimilabili. In particolare, in entrambi i casi, si deve avere riguardo al giusto equilibrio da mantenere tra gli interessi concorrenti; parimenti, in entrambe le ipotesi lo Stato gode di un certo margine di discrezionalità (Mikulik sopra citata, § 58). La Corte osserva che, a differenza del sistema francese esaminato nella sentenza Odievre, la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa. In assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto della ricorrente a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l’anonimato, viene inevitabilmente data una preferenza incondizionata a questi ultimi. Peraltro, nella sentenza Odievre la Corte osserva che la nuova legge del 22 gennaio 2002 aumenta la possibilità di revocare il segreto dell’identità e agevola la ricerca delle origini biologiche grazie alla creazione di un Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali. Di immediata applicazione, essa permette ormai alle persone interessate di chiedere la reversibilità del segreto dell’identità della madre, a condizione che quest’ultima vi acconsenta (§ 49), nonché di avere accesso a informazioni non identificative. In Italia, il progetto di legge di riforma della legge n. 184/1983 a tutt’oggi all’esame del Parlamento dal 2008 (§ 27 supra). Nel caso di specie la Corte osserva che, se la madre biologica ha deciso di mantenere l’anonimato, la normativa italiana non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini o la reversibilità del segreto. In queste condizioni, la Corte ritiene che l’Italia non abbia cercato di stabilire un equilibrio e una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa e abbia dunque oltrepassato il margine di discrezionalità che le è stato accordato. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
[3] Nella giurisprudenza amministrativa si veda in particolare: Cons. Stato, sentenza n. 2866/2008; T.a.r. Lombardia – Brescia, Sez. II, sentenza n. 1761/2011, entrambe in www.leggiditalia.it.
[4] Cons. Stato, sentenza in data 12.06.2012, n. 3459, in www.leggiditalia.it, che ha espresso il seguente principio di diritto: “In materia di diritto di accesso ai dati personali concernenti persone decedute deve farsi riferimento alle disposizioni dell’art. 9, comma 3, del d.lgs. n. 196/2003 (Codice della privacy), che prevedono che tale diritto possa essere esercitato da chi ha un interesse proprio o agisce a tutela dell’interessato o per motivi familiari meritevoli di tutela. Tale disciplina regola anche l’accesso alle cartelle cliniche, dal momento che non può trovare applicazione la disciplina specificamente prevista in materia dall’art. 92 del medesimo codice, la quale consente l’accesso alle cartelle cliniche solo a persone diverse dall’interessato che possono far valere un diritto della personalità o altro diritto di pari rango. Se dovesse applicarsi questa disposizione anche dopo la morte, neppure i più stretti congiunti potrebbero accedere ai dati personali del defunto in assenza dei presupposti richiesti dalla norma, con conseguenze paradossali. Non è neppure utile il richiamo per analogia all’art. 82 del medesimo codice, che regola la diversa situazione della prestazione del consenso al trattamento dei dati personali in caso di impossibilità fisica o giuridica dell’interessato e che prevede che il consenso possa essere fornito, in assenza di chi esercita la potestà legale, da un prossimo congiunto, da un familiare, da un convivente o, in loro assenza, dal responsabile della struttura presso cui dimora l’interessato”.
[5] L’art. 3 Cost. esprime il principio di equità formale e sostanziale, nella cui interpretazione la Corte Costituzionale ha ritenuto di individuare quale corollario il più generale principio di ragionevolezza alla luce del quale la Legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera diversa situazioni diverse, con la conseguenza che la disparità di trattamento trova giustificazione nella diversità delle situazioni disciplinate.
[6] In dottrina si vedano, al riguardo, in particolare: V. CARBONE, Con la morte della madre al figlio non è più opponibile l’anonimato: i giudici di merito e la Cassazione a confronto, in Corriere Giur., 2017, 1, 24; E. ANDREOLA, Accesso alle informazioni sulla nascita e morte della madre anonima, Famiglia e Diritto, 2017, 1, 15.
[7] L’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) dispone: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
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