Ah!… Calamandrei!

Signor… chiunque lei sia…

Sa, mi piacerebbe essere un pittore per disvelare con pennellate larghe i colori di una tavolozza su una tela bianca.

Ritroverei la vista su quella trama, lì giusto di fronte ad un canuto vecchietto dal volto ignoto, assorto nei suoi pensieri, deposto su una sedia che magari scricchiola, discretamente, nella stanza piccola dell’avvocato.

Il punto è che non si può capire se non lo si vive.

Accusato per i già visti motivi, intende liberare il grido che non riesce ad esprimere.

“Lei conosce Tizio?”

“L’ho incontrato qualche volta. Quindi quali sono i suoi riferimenti?”

Incede l’abitudine di porre continue domande per necessità, per curiosità, per vincere la reticenza, per cercare l’illuminazione, per alzare quella maschera sociale che sottende una funzione o una finzione fatta di cortesia che svuota di qualsiasi sottinteso quelle parole che a volte, non poche volte, arrivano allo spirito.

Chiudere o sgranare gli occhi, compulsare freneticamente lo smartphone, seguire lo sguardo del nostro interlocutore e andare oltre, fino alla parete alle sue spalle, con la mimica di un volto inespressivo.

I fatti? Un’accozzaglia di vetri rotti che irradiano dolore, grossi dispiaceri.

Poi la difesa si studia, si progetta, si tenta.

E bene impresse nella mente, riecheggiano vivide le parole di Calamandrei: “Bisognerebbe che ogni avvocato, per due mesi all’anno, facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all’anno, facesse l’avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi e reciprocamente si stimerebbero di più”.