Alle origini del sindacato di costituzionalità delle leggi negli U.S.: la sentenza Marbury vs. Madison (1803)
Di indiscussa attualità in questi giorni è l’esercizio del potere di nomina presidenziale di un nuovo Associate Justice da parte del Presidente degli Stati Uniti, a seguito del decesso della giudice Ruth Bader Ginsburg, che ha servito la Corte e gli Stati Uniti dall’anno di nomina ad opera del Presidente Clinton (1993) sino alla fine, onorando pienamente quel “mandato a vita” che la Costituzione prescrive per rafforzare l’imparzialità dell’operato dei giudici supremi statunitensi.
L’incompletezza del consesso è, da sempre, terreno di scontro politico: in primis, a causa della perpetuità del mandato nell’organo costituzionale. In secondo luogo, a causa dell’ampiezza dei poteri attribuiti dall’architettura giuridica statunitense alla Corte Suprema: tali poteri sono individuabili nell’original jurisdiction (casi in cui la Corte Suprema è organo giurisdizionale di prima e ultima istanza), nell’appellate jurisdiction (ossia nei casi in cui decide avverso decisioni di corti gerarchicamente inferiori) e nella judicial review (il sindacato di costituzionalità delle leggi). Quest’ultima, riconosciuta pienamente nell’ordinamento costituzionale statunitense a seguito della sentenza sul caso Marbury vs. Madison (1803).
Il sindacato di legittimità costituzionale delle leggi statunitensi nasce, in realtà, da un incidente politico definito delle “nomine di mezzanotte”. Il Presidente John Adams, nell’ultimo giorno (per la verità: nelle ultime ore) del suo mandato presidenziale procede all’esercizio del potere di nomina presidenziali di ben sedici giudici, tra i quali figuravano John Marshall (nominato Chief Justice della Corte Suprema degli Stati Uniti) e William Marbury, nominato giudice di pace della Contea di Washington (Distretto di Columbia). Per poter godere pienamente dell’immissione nelle funzioni, il decreto presidenziale di nomina di William Marbury necessitava della notifica al soggetto interessato: notifica che nel brevissimo lasso temporale a disposizione del Presidente uscente Adams non venne mai effettuata. Con la conseguenza che il giorno successivo prese pieno possesso delle funzioni il neoeletto presidente, Thomas Jefferson, risoluto a bloccare la nomina di Marbury, impedendogli di esercitare concretamente il potere lui attribuito dal decreto di Adams.
Il potere di bloccare la nomina effettuata dal suo predecessore era ritenuto dal nuovo esecutivo come pienamente rientrante nelle competenze del Presidente Jefferson, il quale ordinò al nuovo Segretario di Stato James Madison di non trasmettere al nuovo giudice Marbury il decreto di nomina effettuato poche ore prima dal Presidente uscente. Così facendo, Jefferson intendeva bloccare la nomina “di mezzanotte” di Marbury.
La mancata notifica del decreto indusse pertanto Marbury, dopo mesi di vani sforzi nei confronti del Segretario Madison, a ricorrere alla Corte Suprema degli Stati Uniti perché questa ordinasse al Segretario di Stato la notifica del proprio decreto di nomina. Tecnicamente, lo strumento utilizzato da Marbury per incardinare la competenza della Corte Suprema sul caso era il cosiddetto writ of mandamus. Il “mandamus” – tecnicamente “ordiniamo” da mando, -as, -avi, -atum, -are – è un ordine che una Corte impartisce ad un determinato soggetto, avente ad oggetto una prestazione specifica. Nel caso della posizione soggettiva di Marbury, l’ordine era quello di notificare il decreto, nella misura in cui la notifica – sebbene permettesse a Marbury di iniziare ad esercitare pienamente i poteri da magistrato – costituiva all’inverso una mera regolarizzazione formale della nomina effettuata da Adams.
In base al Judiciary Act del 1793 (sect. 13), la Suprema Corte disponeva del potere di emettere tali “writs of mandamus”: tale potere, però, non era contemplato in alcun modo dalla Costituzione statunitense. È proprio in base a tale contrasto normativo che il Chief Justice Marshall comprese il problema sotteso alla nomina di Marbury.
La Corte impostò il caso in esame secondo tre quesiti principali:
È configurabile un diritto alla notifica del decreto di nomina da parte del Marbury?
Se tale diritto è configurabile ed è stato violato, quale rimedio appronta la legge?
Può il writ of mandamus costituire il rimedio più appropriato nel caso in esame?
Al primo quesito la Corte risponde affermativamente, ritenendo configurabile un diritto alla notifica del decreto di nomina: ciò in quanto il decreto di nomina regolarmente adottato dal Presidente, recante il sigillo del Segretario di Stato, determina da solo il conferimento dell’incarico al giudice Marbury. La Corte precisa difatti di come l’apposizione del sigillo da parte del Segretario di Stato valga come definitiva certificazione della “veridicità della firma e della completezza della nomina”. Ad ulteriore sostegno di tale posizione, la Corte osserva di come la legge regolatrice della materia espressamente indichi tali incarichi come “irrevocabili” nel termine di cinque anni, a prescindere dal mutamento dell’esecutivo: ossia, il meccanismo a conforto della posizione della Corte era quello della disapplicazione, per espressa previsione legislativa, dello spoil system.
Se il diritto alla notifica del decreto di nomina è configurabile rispondendo affermativamente al primo quesito, nel caso in esame la Corte ha rinvenuto una violazione di tale diritto. La seconda problematica affrontata dalla Corte Suprema è pertanto relativa all’individuazione del rimedio azionabile nel caso concreto. L’ammissibilità del mandamus è subordinata ad un ulteriore nodo giuridico da risolvere, in base al quale il rimedio concretamente applicabile da parte della Corte dipenderebbe dai poteri della Corte stessa.
Ed è qui che il giudice Marshall affronta il principale problema del caso giudiziario. La Costituzione degli Stati Uniti, con riferimento alle competenze della Corte Suprema, è tutt’altro che fuorviante laddove stabilisce i casi in cui la Corte può intervenire – ossia ha giurisdizione: la Corte ha giurisdizione di primo e ultimo grado (cioè è tribunale di unica istanza) soltanto laddove la controversia riguardi “ambasciatori, altri pubblici ministri e consoli”, oltre ai casi in cui uno Stato sia parte in causa. Tale tassatività delle competenze attribuite dai Costituenti alla Corte Suprema si contrappone alla previsione del Judiciary Act 1793, laddove invece il legislatore ordinario ha abilitato la Corte ad “emettere ordinanza, nei casi garantiti dai principi e dagli usi delle leggi, contro qualsiasi corte istituita o persona che detenga un incarico, sotto l’autorità degli Stati Uniti”.
Astrattamente, quindi, il writ richiesto dal giudice Marbury avrebbe costituito il rimedio consentito per rimediare alla violazione del diritto configuratasi a seguito della mancata notifica del decreto di nomina. Astrattamente, perché in realtà la norma del Judiciary Act richiamata si poneva in contrasto con la norma costituzionale richiamata dai giudici[1]. In tal senso, qualora il legislatore ordinario avesse avuto il potere di plasmare liberamente le competenze della Corte Suprema, il dato costituzionale sarebbe stato privato di senso (il giudice Marshall parla espressamente di “forma senza sostanza” riferendosi all’ipotesi di libera modificabilità della norma costituzionale da parte del Judiciary Act).
Pertanto, “anche se una corte può emettere un’ordinanza [n.b.: il “writ of mandamus”], emettere un’ordinanza nei confronti di un funzionario pubblico [il Segretario di Stato Madison], per fargli consegnare un documento [il decreto di nomina], equivale in effetti ad esercitare un’azione in primo grado per quel documento, e sembra appartenente non alla giurisdizione di appello, bensì a quella di primo grado”. Giurisdizione di primo grado in cui, per dettato costituzionale, non è ricompreso per l’appunto il writ richiesto dal giudice Marbury.
Ciò comporta, nel ragionamento della Corte, che accogliere la richiesta di emissione del writ of mandamus richiesto dal giudice Marbury comporterebbe determinare un ampliamento dei poteri della Corte – per legge ordinaria – contrastante con i poteri che invece la Costituzione degli Stati Uniti riserva alla stessa. Il che, in ossequio al principio di gerarchia nei sistemi a Costituzione rigida – ossia modificabile con procedure rafforzate rispetto a quelle richieste per l’approvazione di una legge ordinaria – significa esercitare un potere in contrasto con la Costituzione.
“Perciò, la particolare fraseologia della Costituzione degli Stati Uniti conferma e rafforza il principio, che si suppone essenziale a ogni costituzione scritta, che una legge contraria alla Costituzione è nulla, e che le corti, così come gli altri dipartimento, sono vincolati da tale strumento”.
È sulla base di tale ultima argomentazione che il collegio presieduto dal giudice Marshall rigetta la richiesta di writ del giudice Marbury, pur non contestando la legittimità della sua nomina: in quanto, a livello procedurale, la legge introduttiva del diritto di ricorrere alla Corte mediante un writ of mandamus si configurava come contraria a Costituzione.
Per la prima volta difatti la Corte Suprema, in una delle sue più celebri e studiate sentenze a cui ancora oggi si fa riferimento in virtù della regola dello stare decisis, afferma il potere di denunciare l’illegittimità costituzionale di una legge ordinaria in ossequio al criterio informatore dell’ordinamento giuridico – ossia il criterio gerarchico. La sentenza sul caso Marbury vs. Madison dà origine, pertanto, al sistema di controllo della legittimità degli atti di legge nel sistema giuridico statunitense, che ad oggi si atteggia come un meccanismo di controllo “diffuso”, ferma restando la regola del precedente vincolante.
[1] La Corte Suprema […] avrà il potere di emettere […] writs of mandamus , nei casi giustificati dai principi e gli usi di legge, a qualsiasi corte nominati, o persone in carica, sotto l’autorità degli Stati Uniti. (Judiciary Act 1793, sez. 13).
Per il testo della sentenza: http://www.giurcost.org/casi_scelti/marbury.pdf
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Onofrio De Tullio
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