Alle origini dell’avvocatura
Sommario: 1. Professione avvocato – 2. L’avvocato nella vita quotidiana di Roma antica – 3. Il tribunale: il centro della vita giudiziale – 4. La donna e la carriera di avvocato
1. Professione avvocato
Alle origini (Roma, nel 509 a.C.) l’avvocatura era una professione non remunerata. Il motivo principale di ciò si può riscontrare nel fatto che la maggior parte di coloro che svolgevano questa professione provenivano da famiglie benestanti. Coloro che svolgevano tale professione inoltre erano interessati a ricoprire cariche politiche e, utilizzando l’eloquenza forense, auspicavano di raggiungere quelle cariche tanto ambite. Dicevamo quindi, che la professione era in sé gratuita, ma poteva essere veramente in questo modo? In parte si ed in parte no. La professione di per se era gratuita nel senso che l’avvocato non poteva chiedere al suo cliente del denaro per il lavoro che stava svolgendo nei suoi confronti. Non era però vietato all’avvocato ricevere doni o denaro da parte dei loro assistiti. Ciò veniva concesso in quanto volontariamente elargito verso il difensore. Le cose iniziarono però a mutare intorno al I,II secolo a.C. Agli avvocati non bastava più ricevere del denaro in modo volontario, pretendevano essere pagati con somme da loro stabilite. Era inevitabile che tale manovra avrebbe portato a Roma notevole scompiglio. Da una parte vi era chi credeva fermamente che tale professione dovesse essere remunerata, dall’altra vi era la maggioranza di tutti coloro che rimanevano fermi sul fatto che l’attività svolta dai difensori in giudizio dovesse rimanere gratuita, o comunque con elargizioni non pretese. Iniziò quindi una stagione di leggi ed atti volti a screditare questa nuova modalità di svolgere l’avvocatura. Bisogna dire che alla base della non retribuzione vi stava l’idea che l’avvocatura rientrava tra le “ars liberalis” e quindi non doveva percepire niente chi svolgeva attività che rientrasse in questo raggruppamento. La prima legge che cercò di porre un freno a tutto ciò fu la “Lex Cincia de donis et muneribus”, la quale voleva impedire intanto, di ricevere per gli avvocati, un compenso in anticipo per la difesa di una causa che addirittura ancora non era neppure ufficialmente iniziata. Rimaneva tuttavia la possibilità al termine della causa di avere un compenso, che però doveva rimanere spontaneo, quindi non vi doveva essere l’esplicita richiesta da parte dell’avvocato. La legge c’era, ma quel che mancava erano le persone che la rispettassero. Gli avvocati continuarono a chiedere compensi, anche perché la legge stessa non sanciva pene per i trasgressori, per cui vi era il divieto ma non la pena e ciò comportava di fatto che i trasgressori non venendo puniti continuassero liberamente ad agire, sicuri che non avrebbero avuto ripercussioni. Dovremo aspettare un senatoconsulto di Augusto del 17 a.C., in cui venne stabilito che gli avvocati che avessero percepito un compenso per la loro attività, avrebbero avuto una pena pari al quadruplo di ciò che avevano ricevuto. Si procederà man mano sempre di più a cercare di prevenire un arricchimento smisurato di coloro che svolgevano tale professione, con sanzioni sempre più dure; tuttavia si era ancora lontani dal riaffermare la natura gratuita dell’avvocatura. A questo punto quindi non c’era nient’altro da fare. Se non si poteva più ricorrere al principio secondo cui l’avvocatura doveva essere svolta in modo gratuito, almeno si poteva cercare di contenere il guadagno degli avvocati. E su ciò furono incentrate le successive leggi. Il fatto però di richiedere somme elevate continuò a perdurare. Tra il 98 ed il 117 a.C., il tema degli onorari forensi continuava ad essere al centro dei dibattiti, sotto l’attenzione del Senato e dell’opinione pubblica. E tutto ciò continuerà in una sorta di tiro alla fune, fino a quando, con Giustiniano, non si arriverà ad un dunque. Venne decretato ufficialmente che gli avvocati dovevano avere una retribuzione per la loro attività svolta. Il cliente era tenuto a pagare il servizio che richiedeva per essere difeso in giudizio all’interno di una causa. Se la parte difesa non fosse in grado di compensare le spese richieste, l’avvocato sarebbe comunque stato pagato. Lo Stato, tramite una procedura esecutiva, avrebbe costretto il soggetto al pagamento. Possiamo dire che, in questo ambito, siamo ancora lontani da elementi, oggi molto conosciuti, come ammissione al gratuito patrocinio. Rimane comunque da considerare l’importanza che l’introduzione del salario ha comportato in campo forense. All’inizio della trattazione siamo partiti dalla considerazione secondo cui solamente i patrizi, o comunque le persone più agiate potevano svolgere tale ruolo. Adesso “chiunque” ne avesse ambizione poteva svolgere tale professione, in quanto dava una forma di finanziamento che avrebbe permesso di condurre una vita più o meno agiata all’interno di Roma.
2. L’avvocato nella vita quotidiana di Roma antica
L’avvocato era un libero professionista che svolgeva innanzitutto, un compito di assistenza e consulenza verso il proprio cliente. La maggior parte delle cause cui avevano a che fare erano di stampo civilistico. Di norma, l’avvocato era un amico influente di persone legate all’ambito politico, oppure amico dei familiari del soggetto che doveva assistere. Chi ricopriva tale ruolo doveva possedere una buona versatilità e sapersi adattare ai vari contesti cui si trovava; questo in base alle esigenze del settore cui andava a formularsi la causa. Capitava che egli dovesse viaggiare per affrontare le proprie cause. In merito a ciò, rimando al processo a Verre, dove Cicerone dovette lasciare Roma al fine di poter svolgere il proprio lavoro di difesa. Quindi, l’avvocato poteva spostarsi in città diverse dalla propria per incontrare i soggetti che doveva difendere, per trovare prove o per interrogare possibili testimoni. Gran parte della giornata, la passava a studiare le cause per far si che una volta in tribunale, potesse svolgere al meglio la difesa del suo assistito. Ovviamente ogni cosa che diceva, che mostrava, o confronti che portava al fine di mostrare la sua tesi, erano frutto di studio. Arte che doveva ben padroneggiare era l’arte oratoria. Grazie all’utilizzo dell’oratoria egli dava sfoggio della sua capacità persuasiva. Gli appuntamenti con i suoi assistiti, gli impiegavano gran parte della giornata. Spesso erano le persone che andavano direttamente nella casa dell’avvocato. Altre volte poteva capitare che fosse l’avvocato a dover andare dai suoi clienti. Comunque, era qui, da questi incontri che iniziava a crearsi, quello che oggi potremmo chiamare, il rapporto avvocato – cliente. L’avvocato doveva creare un ambiente di lavoro che indicasse la sua professionalità ed anche però la sua competenza. Era poi l’avvocato che avrebbe dovuto spiegare al cliente il modo in cui la situazione doveva essere portata a termine. Avvocato e cliente avrebbero insieme cercato come portare avanti la causa, sempre sotto, ovviamente, l’attenta competenza della figura forense. La possibilità dell’avvocato di abbracciare più cause con ambiti differenti tra loro era possibile grazie alla formazione del medesimo. Questo perché la formazione degli avvocati non era quasi mai incentrata solamente in un unico ambito (come spesso accade oggi), ma era particolarmente versatile. Era grazie a questa versatilità che egli era in grado di affrontare ogni causa. La figura dell’avvocato con il tempo diventerà necessaria all’interno dell’ambito processuale, visto anche che senza di essa vi sarebbe stata l’impossibilità per la parte di stare in giudizio. Ben comprendiamo allora che senza la sua presenza la causa non avrebbe potuto avere luogo. Diventa quindi figura di estrema importanza nel panorama forense e processuale. Con il passare del tempo, ed in particolare poi nel principato, la dialettica utilizzata dall’avvocato, anche se tenderà a perdere parte della bellezza stilistica delle orazioni, avrà un maggiore tecnicismo e quindi un linguaggio che tenderà di volta in volta ad allontanarsi dal comune parlare, per dare spazio a termini sempre più specifici nell’ambito giuridico, creando così un contesto legale che si specializza sempre maggiormente.
3. Il tribunale: il centro della vita giudiziale
Facendo riferimento alla figura dell’avvocato, è doveroso delineare il luogo in cui principalmente l’attività giuridica si svolgeva: il tribunale. Il tribunale al tempo dell’antica Roma, era totalmente diverso dall’immagine comune che oggi possediamo. Tale diversità si poteva riscontrare non solo per quel che riguarda il modo in cui le cause venivano trattate, ma tale differenza la possiamo già notare anche nell’impianto strutturale del tribunale stesso. Il termine “tribunal” indicava un luogo rialzato; con il passare del tempo invece verrà ad indicare la pedana in cui gli organi giudicanti erano posti. Inizialmente questo spazio ora descritto si trovava all’interno del Foro. Diverrà poi la Basilica il centro della vita processuale. Inizialmente il processo assume le sembianze di uno “spettacolo teatrale”. Innanzitutto vennero posti spalti per il pubblico, in quanto per i romani era un “divertimento” andare ad assistere a tali attività, ed in particolare ad ascoltare le orazioni che all’interno vi si tenevano. La costruzione del tribunale era infatti di per sé simile ad un teatro, e dobbiamo dire che somigliava non solo per quel che poteva riguardare la parte edilizia ma anche per come le cause venivano trattate. Le udienze erano dei veri e propri spettacoli in cui l’avvocato oratore era il protagonista. Accadeva con frequenza che più di una causa venisse trattata nel medesimo luogo e in concomitanza ad altri processi. La confusione all’interno della Basilica era enorme, e per tale motivo si cercò più volte di porre dei rimedi. Con l’avvento del principato, 27 a.C.-285 d.C., viene a delinearsi una nuova forma di repressione criminale. I processi verranno a perdere la spettacolarità cui godevano nel periodo repubblicano. Con il passaggio dalla Repubblica al principato, tuttavia, il tribunale è sempre rimasto quel luogo dove non solo si discutevano le cause, ma dove gran parte della vita politica dell’intera città veniva decisa. Oltre tutto ciò, di rilevante importanza è sottolineare che in un processo ciò che era importante non era solo condannare o assolvere, ma era anche da parte dell’avvocato, cogliere il momento e le cause giuste per mettersi in luce e per poter continuare, tramite le vittorie riportate in quel teatro che era stato il tribunale, un’ascesa nella carriera socio politica. Ogni parte che vi si presentava aveva degli interessi, e sia l’accusa che la difesa dovevano far di tutto per portare a casa una vittoria processuale e quindi convincere della propria innocenza o dell’altrui colpevolezza. Non sempre quel che veniva detto corrispondeva a verità. Stava nell’abilità dell’avvocato padroneggiare le parole che diceva e far sembrare ogni cosa veritiera al fine di convincere chi stava giudicando.
4. La donna e la carriera di avvocato
Nel corso dei secoli il ruolo della donna all’interno delle famiglie, ed in più ampio spettro, all’interno della società, è cambiato notevolmente. Oggi siamo abituati per lo più a vedere donne che lavorano, che prendono decisioni importanti per loro e per la famiglia. Purtroppo non è stato sempre così. Questo processo di emancipazione femminile è stato un percorso lungo e lento, che se vogliamo, come vedremo, è iniziato proprio nella Roma antica. Rimangono tuttavia ancora luoghi in cui questo sviluppo relativo alla figura della donna non è avvenuto, ma possiamo dire che, anche statisticamente parlando, la condizione generale delle donne è notevolmente migliorata, e laddove questo ancora non è avvenuto, ci sono persone ed associazioni che cercano di portare protezione alle donne e cercare di farle sentire migliori, importanti, con diritti che nessuno gli può togliere. Nella Roma antica, la condizione delle donne non era per niente semplice. Già da piccole erano sotto il controllo del padre, per poi una volta sposate, essere sotto il dominio del proprio marito. Il sistema era totalmente patriarcale. La donna doveva sottostare ad un ideale femminile ben preciso, la cui mansione principale era quella di generare figli e figlie e dare loro un’educazione basata sui valori tradizionali. Le donne inoltre, anche sotto un punto di vista legale avevano molte restrizioni. Non avevano diritto di fare testamento e per qualsiasi atto di valore legale erano sottoposte alle decisioni del padre, del fratello o del marito. Non potevano neppure ambire ad una carica politica, e neppure avevano diritto di voto. Non potevano amministrare il loro denaro in modo libero. Stessa cosa valeva in ambito giudiziario. Esse non potevano sperare in una carriera né in magistratura e neppure di ambire all’avvocatura. E tutto questo era condiviso da tutti (gli uomini) semplicemente perché la donna era vista come colei che doveva ubbidire. La donna veniva identificata come inferiore e con scarsa capacità di giudizio. Non aveva diritto di parola nelle questioni che riguardavano la sua natura o la vita quotidiana della città. Nel 195 a.C. si avrà una delle prime ribellioni, in cui le donne cercano di allargare i loro diritti verso una maggiore emancipazione. Infatti, scesero nelle piazze di Roma per chiedere l’abrogazione della “lex Oppia”, una legge che vietava alle donne di avere in proprietà, o comunque di possedere gran quantitativo di oro, e di indossare abiti con colori troppo sgargianti. Non potevano andare in carrozza o spostarsi in un altro luogo, se non per motivi religiosi. Per le donne tutto ciò non era accettabile. Non potevano permettere di togliere loro il lusso (a chi se lo poteva permettere ovviamente) di abbellire il proprio corpo con vestiti colorati, o con gioielli. Non potevano costringerle a non uscire fuori dai confini della città. La domanda che sorgeva spontanea e con le quali esse andavano in piazza era: “perché agli uomini è concesso tutto ciò, ed a noi no?” Una domanda che per molti secoli è rimasta, ma che ha permesso, lotta dopo lotta, l’emancipazione del genere femminile. Non è possibile non citare, or ora che si parla di potere delle donne ed emancipazione, due donne che furono al centro del potere. Fulvia e Agrippina. Precisamente, la prima nel periodo della Roma repubblicana, la seconda dell’età imperiale. La descrizione che rende merito a Fulvia, si può trovare nelle parole di Plutarco, dalle quali possiamo comprendere che oltre ad essere stata una donna passionale, era anche una grande stratega, la quale è riuscita a raggiungere quel potere e quel rispetto che molte donne non erano riuscite a raggiungere. Stesso discorso può essere fatto valere per Agrippina, cui fonti e testimonianze ci riportano che gli eserciti crearono statue negli accampamenti raffiguranti tale donna, e per di più arrivarono a definirla come la vera imperatrice di Roma.
Per le donne non solo non era possibile svolgere l’attività forense, ma tanto meno era possibile avvicinarsi agli studi giuridici e retorici. Una donna che praticava l’arte oratoria, poteva essere molto pericolosa, soprattutto se tale arte era ben padroneggiata. Tuttavia, per il fascino di queste materie e per la necessità di saperne usufruire, hanno fatto si che anche loro potessero mostrare il loro valore nel Foro. In merito a ciò, è necessario soffermarsi su quelle donne, che in ambito giudiziario, hanno lasciato un segno, ed hanno anche loro iniziato questo processo di riconoscimento della capacità della donna, anche in quei mestieri che erano considerati preclusione dei soli uomini. In un ambiente con così tante restrizioni, alcune figure femminili, iniziarono a far sentire la propria voce. Tra queste spiccano i nomi di Ortensia e Gaia Afrania. Partiamo innanzitutto dal presupposto che la carica di avvocato era interdetta per le donne. Mai avrebbero pensato, i romani, anche nel momento di massima espansione dei diritti, di vedere una donna nel Foro a perorare una causa con un’orazione, una buona orazione. Le vicende che hanno condotto queste due donne ad indossare le vesti di avvocato le hanno portate ad essere viste come dei mostri, come delle reiette. Era quindi difficile per una donna intraprendere l’attività forense, tuttavia come dimostrano molti storici, le orazioni delle due avvocatesse (in particolare quelle di Ortensia, di cui ci sono più testi a noi pervenuti) sono rimaste indelebili nella storia, tanto da colpire alcuni uomini della loro epoca. Il che poté far pensare che anche le donne al pari degli uomini potevano ricoprire quella carica e con anche notevole successo. Tuttavia. la figura della donna continuò per molto tempo a non essere presa in considerazione e ad essere vista come incapace di ambire all’avvocatura. Una cosa è certa però: anche se quasi sempre e quasi da tutti la figura femminile veniva screditata come tale e nella professione di avvocato, le donne che hanno fatto sentire la loro voce nei tribunali e tra il popolo hanno lasciato il loro segno, un segno di cui tutt’oggi abbiamo testimonianza.
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Samuele Vaggelli
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