Alle Sezioni Unite la nullità o inefficacia del licenziamento in costanza del periodo di malattia
Con ordinanza interlocutoria n. 24766 del 19.10.2017 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, da tempo oggetto di contrasto giurisprudenziale, della riconducibilità del licenziamento intimato durante la malattia del lavoratore ad un’ipotesi di nullità ovvero di temporanea inefficacia.
La problematica in esame ed il contrasto giurisprudenziale
La problematica posta all’attenzione della Suprema Corte concerne il regime sanzionatorio applicabile all’atto di licenziamento irrogato al lavoratore nel periodo di garanzia della conservazione del posto di cui all’art. 2110, secondo comma, cod. civ.
Come noto, l’art. 2110 cod. civ. riconosce al dipendente malato il diritto al mantenimento del posto di lavoro per un periodo di tempo la cui durata è stabilita dalla legge, dalla contrattazione collettiva, dagli usi, o secondo equità (c.d. periodo di comporto, secco o per sommatoria).
Prima del superamento del predetto periodo è fatto divieto al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto, salvo che non ricorra un’ipotesi di licenziamento per giusta causa.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, infatti, lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l’esercizio del potere di recesso solo quando si tratta di licenziamento per giustificato motivo; esso non impedisce, invece, l’intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d’essere la conservazione del posto di lavoro in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione neppure in via temporanea del rapporto[1].
La questione del regime giuridico applicabile all’atto di recesso datoriale si pone, allora, per le sole ipotesi di licenziamento, diverso da quello per giusta causa, intimato prima che il periodo di comporto sia completamente decorso.
Al riguardo, nulla dispone la normativa sui licenziamenti individuali e collettivi, neppure a seguito dei recenti interventi di riforma.
Tale circostanza ha dato origine ad una copiosa e non univoca giurisprudenza di legittimità, della quale la Suprema Corte ha preso atto nell’ordinanza interlocutoria in esame.
Ed invero, secondo un primo e maggioritario orientamento giurisprudenziale il licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto non è nullo, e neppure ingiustificato, ma solo temporaneamente inefficace ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro, con conseguente prosecuzione dello stesso fino al venir meno della situazione ostativa[2].
Il fondamento normativo di tale assunto è stato ravvisato nel principio di conservazione degli atti giuridici desumibile dall’art. 1367 cod. civ., applicabile al recesso datoriale in virtù dell’espresso rinvio agli atti unilaterali operato dall’art. 1324 cod. civ.
Alla stregua di tale orientamento, non costituirebbe argomento favorevole alla tesi della nullità dell’atto di recesso datoriale la garanzia di stabilità del rapporto di lavoro di cui all’art. 2 della legge n. 1204/1971, la quale sarebbe dettata esclusivamente a tutela della donna lavoratrice durante il periodo di maternità e non sarebbe estensibile all’ipotesi di malattia.
Più precisamente, la pronuncia della Corte Costituzionale n. 61/1991 – con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 2 della legge n. 1204/1971 nella parte in cui prevede la temporanea inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio – avrebbe limitata portata dispositiva, essendo la sua motivazione correlata alle particolari esigenze di tutela della lavoratrice in maternità[3].
Dalla tesi in esame – la quale, in definitiva, fa leva sulla necessità di preservare l’efficacia giuridica degli atti compiuti – deriverebbe, pertanto, che il datore di lavoro durante il periodo di comporto e salvo il differimento dei suoi effetti, possa esercitare il potere di recesso dal contratto per come riconosciuto dall’art. 2118 cod. civ.
In senso contrario, un secondo orientamento giurisprudenziale ha sostenuto la nullità e non la inefficacia del recesso datoriale intervenuto nel periodo di malattia del dipendente.
In particolare, è stato affermato che, in caso di licenziamento intimato anteriormente alla scadenza del periodo di comporto l’atto di recesso è nullo, per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 cod. civ., e non già temporaneamente inefficace[4].
Il superamento del comporto costituirebbe, infatti, ai sensi del citato art. 2110 cod. civ., una situazione autonomamente giustificatrice dell’atto di licenziamento che, di per sé sola fa insorgere il diritto di recesso datoriale, senza che sia necessaria l’allegazione degli elementi integranti un giustificato motivo di cui all’art. 3 della legge n. 604/1966[5].
In tale prospettiva, l’integrale decorso del comporto dovrebbe esistere già anteriormente alla comunicazione dell’atto di licenziamento, ove ne costituisca il solo motivo, non essendo logicamente configurabile un diritto datoriale di recesso anteriormente alla realizzazione della situazione giustificativa.
L’orientamento in esame ha ritenuto, inoltre, la disciplina di stabilità del rapporto di lavoro dettata dall’art. 2 della legge n. 1204/1971, a favore della donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio, una ulteriore puntualizzazione della normativa legale sul comporto per malattia, nel senso della nullità dell’atto di recesso datoriale intervenuto in tale periodo[6].
Ne deriverebbe l’integrale nullità dell’atto di licenziamento e la conseguente applicazione della tutela reintegratoria prevista dalla legge (art. 18 Stat. Lav.).
La rilevanza pratica della questione e l’eventuale intervento delle Sezioni Unite
La questione in esame è di evidente rilevanza pratica, in considerazione delle diverse tutele riconoscibili al lavoratore a fronte di un licenziamento nullo, ovvero, valido e solo temporaneamente inefficace.
Le conseguenze giuridiche connesse all’intimazione del licenziamento durante il comporto non sono, tuttavia, oggetto di disciplina legislativa, neppure a seguito degli interventi di riforma del sistema sanzionatorio dei licenziamenti individuali e collettivi, intervenuti, dapprima, con la legge n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero) e, successivamente, con il decreto legislativo n. 23/2015 (attuativo della Legge Delega sul Jobs Act).
Ne è derivato il rilevato contrasto giurisprudenziale, in relazione al quale è auspicabile un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite. Adesso, spetterà al Primo Presidente valutare l’opportunità di rimettere la questione in esame alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ.
[1] Cass. civ., sez. lav., 1.6.2005, n. 11674. In senso conforme, Cass. civ., sez. lav., 6.8.2001, n. 10881.
[2] Cass. civ., sez. lav., 10.10.2013, n. 23063; Cass. civ., sez. lav., 4.7.2001, n. 9037; Cass. civ., sez. lav., 10.2.1993, n. 1657; Cass. civ., sez. lav., 6.7.1990, n. 7098.
[3] Cass. civ., sez. lav., 26.5.2005, n. 11087.
[4] Cass. civ., sez. lav., 18.11.2014, n. 24525; Cass. civ., sez. lav., 26.10.1999, n. 12031; Cass. civ., 21.9.1991, n. 9869.
[5] Cass. civ., sez. lav., 19.1.1988, n. 382; Cass. civ., sez. lav., 10.4.1981, n. 2090.
[6] Cass. civ., sez. lav., 21.9.1991, n. 9869
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Maria Amelio
Abilitata all'esercizio della professione forense dal 2015.
Formazione teorico-pratica presso Tribunale Ordinario - settore controversie di lavoro e previdenza sociale.
Laureata con lode in Giurisprudenza, con una tesi, in diritto del lavoro, dal titolo: "buona fede e correttezza del datore di lavoro pubblico".