Alleanza terapeutica: il ruolo del consenso informato e gli effetti della sua violazione
La relazione tra medico e paziente ha subìto, nel tempo, una significativa evoluzione, tanto da trasformare il ruolo del paziente da originario oggetto dell’ars medica, nel soggetto attivo del rapporto e del percorso terapeutico.
Può dirsi ormai da tempo superato il principio del c.d. paternalismo medico -per il quale “il potere di curare” veniva riconosciuto al medico, unico soggetto in grado di decidere per il bene del paziente[1]– per dare spazio a quella che oggi viene in dottrina definita “alleanza terapeutica”, vale a dire una dimensione in cui l’interazione, il dialogo e la condivisione delle decisioni rappresentano le fondamenta.
È in questo modo che il paziente viene attivamente coinvolto nel suo percorso terapeutico, seppur costantemente assistito dal medico curante, con il quale condivide le scelte più opportune per il suo personale tragitto verso la guarigione.
Una forma di espressione di questo nuovo principio pacificamente accolto nel nostro ordinamento giuridico è la previsione, in ambito medico, del consenso informato.
Il fondamento del consenso informato risiede nel combinato disposto di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost.[2], nonché negli artt. 1,2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[3], i quali esprimono diritti ed interessi per lungo tempo concepiti come contrapposti; in particolare, il diritto alla salute, espresso come pretesa per ricevere l’assistenza sanitaria necessaria per migliorare lo stato psico-fisico del paziente, ed il diritto all’autodeterminazione, inteso come libertà positiva del soggetto di determinarsi secondo la propria legge personale.
Ebbene, nonostante il suo riconoscimento a livello nazionale e sovranazionale, il consenso informato ha trovato esplicita codificazione grazie al recente intervento normativo sul Biotestamento, formalizzatosi nella Legge 22 dicembre 2017, n. 219, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la quale, rappresentando l’epilogo di un lungo e tortuoso iter dibattimentale, ha dato per la prima volta riconoscimento a quei principi già presenti in giurisprudenza, dettando una disciplina organica del consenso al trattamento sanitario, ispirata all’assioma secondo cui “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne nei casi espressamente previsti dalla legge” [4].
Oltre a rappresentare la sintesi perfetta tra diritto alla salute e diritto all’autodeterminazione, il consenso informato descrive quella forma di autorizzazione resa dal paziente, come espressione del suo diritto di autodeterminazione in ambito sanitario, manifestato all’esito di un processo informativo fornito dal medico, circa le diverse ipotesi terapeutiche perseguibili. Il consenso informato rappresenta, quindi, al contempo una forma di rispetto della libertà di ciascun individuo ed uno strumento per il perseguimento dei suoi interessi. Il paziente, infatti, non ha solo la facoltà di scegliere tra le diverse opzioni terapeutiche prospettategli dal medico, ma ha altresì il diritto di rifiutare la terapia ovvero di decidere consapevolmente di interromperla. Affinché lo stesso sia valido è necessario che sia conforme allo stato dell’ars medica, che sia manifestato dal soggetto legittimato (nella persona del titolare del diritto ovvero del suo rappresentante legale o volontario), che sia libero, attuale, personale, informato, esplicito, specifico e consapevole.
Esso rappresenta una forma di “esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione proprio della persona fisica”[5], che occorre, tuttavia, tenere ben distinto dal diritto alla salute, quale diritto dell’individuo alla propria integrità psicofisica.
Ecco perché ciascun soggetto bisognoso di cure ha il diritto di ricevere le opportune informazioni in merito alla natura del trattamento e ai potenziali sviluppi del percorso terapeutico cui dovrà sottoporsi, nonché alle ipotetiche terapie alternative – se esistenti. Tali informazioni devono essere esplicitate dal medico (o dall’equipe medica), il quale deve renderle comprensibili, in modo che possano essere utili al paziente per manifestare la propria volontà in maniera autonoma[6], in conformità dell’art. 32, co.2, Cost.
Non a caso, l’esigenza di un’adeguata informazione del paziente ritrova la sua ratio non solo nell’incidenza delle scelte terapeutiche su beni fondamentali della persona, ma anche nella complessità tecnico-scientifica della materia[7], che per sua stessa natura esige chiare delucidazioni.
Il paziente deve, quindi, essere edotto circa la natura dell’intervento medico, la sua realizzazione, i rischi ad esso connessi, ma soprattutto gli effetti positivi e negativi che potrebbero verificarsi all’esito del trattamento, il tutto attraverso informazioni dettagliate ed accessibili alla persona cui il sanitario si rivolge.
La violazione da parte del medico del dovere di informare il suo paziente, ovvero la mancata richiesta del consenso informato prima dell’inizio di qualsivoglia terapia medica, costituisce un autonoma fonte di responsabilità per il sanitario, nelle ipotesi in cui il trattamento intrapreso provochi esiti negativi al paziente.
Ciò perché, essendo il consenso informato il presupposto giuridico di liceità dell’ars medica, in caso di difetto di tale essenziale requisito, l’intervento terapeutico verrebbe a raffigurare un vero e proprio illecito, per il quale il sanitario andrebbe a rispondere quale diretto responsabile. L’essenzialità del consenso dell’avente diritto risulta essere oltremodo indispensabile anche sotto il profilo della responsabilità penale del medico curante; un intervento chirurgico, infatti, potrebbe integrare gli estremi del reato di lesioni personali ex art. 582 c.p., che risulterà essere “giustificato” in presenza del consenso espresso dal paziente. La causa di giustificazione di cui all’art. 50 c.p., secondo cui “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne”, elimina, di fatto, l’antigiuridicità della condotta lesiva proprio attraverso la manifestazione di assenso del soggetto al trattamento sanitario.
Da tale principio generale si può, allora, validamente dedurre che il medico rispettoso della volontà del paziente non può incorrere in alcuna forma di responsabilità, così come chiarito dallo stesso art. 1, co.6, L. 219/2017 a mente del quale “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.
Pertanto, considerando l’ipotesi in cui un trattamento medico viene praticato in assenza del consenso del paziente – quale violazione da parte del medico del dovere di informazione sullo stesso ricadente per effetto della normativa vigente – potrebbero verificarsi ben due tipi di scenari differenti:
– il paziente può subire una lesione psico-fisica, c.d. danno alla salute, la quale avrebbe potuto essere evitata con un adeguata informazione sanitaria, sempreché si dimostri che il paziente, se fosse stato adeguatamente e correttamente informato ab origine, avrebbe certamente manifestato il suo rifiuto al trattamento sanitario;
– il deficit informativo del medico può causare al paziente un pregiudizio patrimoniale e/o non patrimoniale diverso dalla lesione alla salute, c.d. danno da lesione del diritto di autodeterminazione.
Ebbene, nelle cornici delineate da tali forme di danno, riconosciute anche dagli Ermellini in una recente pronuncia[8], qualora un medico manchi di adempiere ai propri doveri di informazione, ovvero in caso di omesso consenso informato, si inseriscono differenti ipotesi di responsabilità sanitaria, con contestuali differenti esiti in punto di risarcimento del danno in favore del paziente leso.
Operando una distinzione preliminare tra i casi in cui, per effetto della condotta colposa del medico -configurabile nella omessa o insufficiente informazione terapeutica-, il paziente avrebbe ugualmente scelto di sottoporsi al trattamento sanitario cui in concreto si è sottoposto (nonostante l’esito negativo dello stesso), da quelli nei quali il paziente, alle stesse condizioni, avrebbe deciso di non accettare il percorso terapeutico seguito, emergono sensibili divergenze in ragione del tipo di imputazione che può essergli avanzata, oltre che del concreto diritto risarcitorio configurabile in capo al paziente.
Più nel dettaglio, mentre nel primo caso ad essere leso è unicamente il diritto alla salute, nella forma di lesione psico-fisica del paziente, per cui la giurisprudenza penale riconosce una ipotesi di responsabilità penale da lesioni personali colpose ovvero da omicidio colposo (Cass. Sez. IV, 26 maggio 2010, n.34521; Cass. Sez. IV, 9 marzo 2001, n.28132), per effetto della quale il paziente potrebbe avanzare pretese risarcitorie proprio per la lesione subita, nel secondo caso, essendo la intrinseca volontà del paziente diversa da quella erroneamente presupposta dal medico, ad essere lesi sono entrambi i diritti alla salute e all’autodeterminazione, ambedue potenziale oggetto di risarcimento.
Diverso è, poi, il caso in cui, in presenza di una omessa e/o insufficiente informazione sanitaria da parte del medico, il trattamento terapeutico non abbia provocato alcun esito sfavorevole nella persona del paziente bisognoso di cure sanitarie. Tale è l’ipotesi che le Sezioni Unite della Suprema Corte definiscono ‹‹esito fausto›› che andrebbe ad escludere la configurabilità di reati, e con essa, la responsabilità penale del medico[9].
In tale prospettiva, infatti, non venendo pregiudicata la salute del paziente, la sola ipotesi lesiva che potrebbe in concreto presentarsi sarebbe quella relativa al diritto all’autodeterminazione, se fosse dimostrabile che il paziente adeguatamente informato avrebbe manifestato una “volontà negativa” riguardo il percorso terapeutico scelto dal medico.
La questione, però, non si esaurisce unicamente con riguardo alla natura della responsabilità di colui che somministra il trattamento terapeutico al soggetto curato, poiché la stessa rileva anche sotto il profilo processuale, sub specie di forza probatoria.
Affinché il paziente disinformato -ovvero colui al quale non sono stati garantiti quegli standards di sicurezza e informazione che il medico ha il dovere di assicurare- possa esperire l’azione risarcitoria, è essenziale che questi soddisfi l’onere probatorio su di lui ricadente, rappresentato dalla dimostrazione oggettiva del nesso di causalità tra l’evento lesivo – rappresentato dalla condotta omissiva integrante la trasgressione dell’obbligo informativo preventivo – e le conseguenze pregiudizievoli dallo stesso derivanti, nel rispetto delle regole della cd. causalità giuridica ex art. 1223 c.c.
Ricadrà, quindi, sulla persona lesa dall’inadempimento informativo del sanitario la prova del suo rifiuto al trattamento terapeutico; in altre parole, il paziente intenzionato ad agire in giudizio per far valere i propri diritti lesi dalla disinformazione medica dovrà provare il dissenso che avrebbe opposto al medico curante, se solo avesse ricevuto fin dall’inizio le dettagliate e doverose informazioni terapeutiche.
[1] S. Spinsanti, Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente, 2010, Treccani.
[2] Art. 2, Cost.:”La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Art. 13, Cost.: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
Art. 32, Cost.: “ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
[3] Art. 1, CDFUE: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.
Art. 2, CDFUE: “Ogni individuo ha diritto alla vita. Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato”.
Art. 3, CDFUE: “Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; d9 il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani.
[4] Legge 22 dicembre 2017, n. 219, art. 1, co.1.
[5] Corte Costituzionale 15-23 dicembre 2008, n.438.
[6] Legge 22 dicembre 2017, n. 219, art 1.
[7] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale – parte generale.
[8] Cass. Sez. Civ. 11 novembre 2019, n.28985.
[9] Cass. Sez. Un. 18 dicembre 2008, n.2437.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Valentina Carella
Nata a Napoli nel 1990, laureata nel 2014 in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, ha conseguito un Master di II livello presso la Luiss School of Law, in collaborazione con il Ministero dell'Interno, in "Politiche di contrasto alla corruzione ed alla criminalità organizzata". Subito dopo la laurea ha svolto la pratica forense presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli e, contestualmente, ha terminato positivamente lo stage ex art. 73 D.L. 96/2013 presso gli Uffici Giudiziari del Tribunale di Napoli, Ufficio Gip. Abilitata alla professione forense.