Ammissibilità o inammissibilità dell’organismo di diritto pubblico in parte qua?

Ammissibilità o inammissibilità dell’organismo di diritto pubblico in parte qua?

Come noto, è “organismo di diritto pubblico”, ai sensi della definizione elaborata in ambito comunitario a partire dalle direttive comunitarie n. 89/440/CEE e n.93/37/CEE, qualsiasi organismo che presenti i requisiti imprescindibili ed indici di riconoscibilità, oggi contenuti nella direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004, ossia: 1. che risulti istituito per soddisfare esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; 2. che sia un Ente dotato di personalità giuridica; 3. che sia caratterizzato dalla c.d. “influenza pubblica dominante”, per la quale è sufficiente che ricorra uno di tali elementi: il finanziamento maggioritario da parte dello Stato o di altri enti pubblici, la soggezione al controllo di gestione oppure la presenza qualificata di rappresentanti pubblici nell’organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza. Quindi, solo una volta acclarata la sussistenza di tutti tali requisiti (questione che non poche volte ha determinato controversie) ci si trova di fronte ad un organismo di diritto pubblico, e ciò indipendentemente dalla forma formale che tale organismo abbia assunto e con tutte le conseguenze derivanti dal suo inquadramento in un contesto pubblicistico.

Tuttavia, non di rado accade che tali organismi, pur perseguendo un interesse pubblico e rispettando il primo requisito richiesto, agiscano anche come soggetti di diritto privato, ponendo diverse problematiche sulla natura dell’organismo e sulla disciplina, pubblicistica o privata, da applicare. Infatti, anche quando è innegabile l’interesse generale e il carattere pubblicistico dell’attività principale svolta da tale Ente, questo potrebbe svolgere altre attività non attinenti all’interesse pubblico perseguito. Un esempio è rappresentato dalle attività svolte dalle Casse Nazionali di Previdenza e Assistenza, per le quali infatti sono nati contrasti giurisprudenziali sulla natura loro e delle singole attività da svolte: se infatti è innegabile l’interesse generale e il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di previdenza ed assistenza svolta dall’Ente in esame, ciò non sembra invece rinvenibile in altre attività, nelle quali l’Ente agisce invece come soggetto di diritto privato, e tra tali attività  rientrerebbe per esempio l’attività di dismissione  dei patrimoni immobiliari che essa può svolgere.

Tale possibilità di svolgere attività di carattere industriale o commerciale ha posto quindi inevitabilmente la problematica della qualificazione di tali Enti quali organismi di diritto pubblico, cosa che dovrebbe determinare l’applicazione della disciplina comunitaria pubblicistica. Sul punto si sono contrapposte due opposte teorie dottrinali e giurisprudenziali: una teoria afferma che l’Ente debba essere inquadrato come organismo di diritto pubblico solo nell’esercizio dell’attività pubblica svolta e per il quale è istituito; nei casi in cui invece svolga un’attività come soggetto privato, la disciplina applicabile non potrebbe che essere quella propria di qualsiasi soggetto privato. Dovrebbero quindi ammettersi i c.d. “organismi parzialmente di diritto pubblico”, cioè Enti che si qualificano come organismi di diritto pubblico solo in relazione a quello specifico segmento di attività per la quale presentino i parametri comunitari richiesti e che quindi impongono all’organismo l’osservanza della disciplina comunitaria. In tal senso si possono richiamare alcune pronunce del giudice amministrativo, tra cui la sentenza del Consiglio di Stato n. 4882/2014, che proprio in relazione alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza, ha affermato, in seguito alla privatizzazione operata dal legislatore, la configurabilità della sua natura pubblicistica solo in relazione all’attività di interesse generale svolta. Diversa teoria, oggi prevalente soprattutto in ambito comunitario, afferma che i soggetti che presentano i tre requisiti richiesti dalla disciplina comunitaria siano organismi di diritto pubblico in toto: tale concezione, di origine giurisprudenziale e comunitaria, è quella dell’inammissibilità dell’“organismo di diritto pubblico in parte qua”, secondo cui, in forza del canone del “ semel organismo semper organismo”, l’Ente che viene qualificato come organismo di diritto pubblico richiede la soggezione al diritto comunitario, e dunque al diritto pubblico, anche se svolge attività promiscue e molteplici, vale a dire sia attività volte a soddisfare un bisogno di interesse generale di carattere non commerciale o industriale, sia attività con tale carattere. Tale teoria trova la sua principale ratio nella necessità di non turbare la certezza del diritto, e quindi si pone a tutela dei soggetti privati.

Tale concezione trova la propria origine, come detto, nella giurisprudenza della Corte Europea, a partire dal caso Mannesmann (Corte di Giustizia, 15 gennaio 1998, C. 44/96, Mannesmann Anlagenbau Austria ), nel quale la Corte, ai punti 25 e 26, ha affermato che “lo status di organismo di diritto pubblico non dipende dall’importanza relativa, nell’attività dell’organismo medesimo, del soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale”, che quindi se comunque “l’organismo dev’essere stato istituito per soddisfare “specificatamente” bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale”, ciò “ non implica che esso sia incaricato unicamente di soddisfare bisogni del genere”, e che dunque l’ente è da qualificare organismo di diritto pubblico anche se “la soddisfazione dei bisogni di interesse generale costituisce solo una parte relativamente poco rilevante delle attività effettivamente svolte” dall’Ente. Quindi, secondo la Corte di Giustizia, vi sarebbe una sorta di vis atractiva della disciplina dell’interesse generale su quella commerciale. Tale teoria è stata anche seguita dalla successiva giurisprudenza italiana, che sembra quindi orientata principalmente verso tale concezione: ciò viene affermato sia dalla giurisprudenza amministrativa, di cui si può citare ex multis  la sentenza del Consiglio di Stato n. 4711/2002, secondo cui “deve anche essere precisata l’irrilevanza dello svolgimento da parte dell’organismo di altre attività; la Corte di Giustizia CE ha, infatti, chiarito che il requisito del fine del soddisfacimento di bisogni di interesse generale, non aventi carattere industriale o commerciale, non implica che il soggetto sia incaricato unicamente di soddisfare bisogni del genere, ed anzi consente l’esercizio di altre attività (cfr., Corte Giust., 15-1-98, C – 44/96, Mannesmann, punti 26 e 31 – 35). Deve quindi concludersi che Enel s.p.a. è comunque qualificabile come organismo di diritto pubblico”,  e la sentenza sempre del Consiglio di Stato,  del 24 novembre 2011, n.6211, secondo cui “la giurisprudenza, in proposito (es. Cons. Stato, VI, 30 giugno 2011, n. 3892) è univoca nel richiamare la giurisprudenza comunitaria che applica il canone semel organismo semper organismo, e ripudia la tesi dell’ “organismo di diritto pubblico in parte qua”; sia dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione delle Sezioni Unite, che con la sentenza 7 ottobre 2008 n. 24722, ha affermato che “a questo proposito, la Corte di Giustizia ha precisato che un organismo può avere sostanza di diritto pubblico pur rivestendo una forma di diritto privato (sent. 15/5/2003, in causa C- 214/2000), perchè non è tanto la veste giuridica che conta, quanto l’effettiva realtà interna dell’ente e la sua preordinazione al soddisfacimento di un certo tipo di bisogni, cui anche le imprese a struttura societaria sono in grado di provvedere, senza che venga in rilievo al riguardo la maggiore o minore quantità di spazio ad essi dedicato, visto che per la qualificazione di un ente come organismo di diritto pubblico non è necessario che il perseguimento di finalità generali assurga a scopo esclusivo, potendo coesistere con lo svolgimento, anche prevalente, di attività industriali o commerciali (sentt. 10/11/1998 in C-360/1996 e 22/5/2003 in C- 18/2001); che tornando adesso al caso di specie, occorre considerare che per sua stessa ammissione, la spa Viareggio Porto è una società per azioni interamente controllata dal Comune di Viareggio”.

Dunque, se pur non univoca, la tesi oggi prevalente in giurisprudenza sembra essere quella di matrice comunitaria, anche se non possono non rilevarsi diverse criticità, autorevolmente avanzate dalla dottrina.

Una tale estensione generalizzata della normativa comunitaria, da applicarsi prescindendo dall’accertamento del connotato pubblicistico proprio della singola attività svolta dall’organismo di diritto pubblico, può appare esagerata ed irrazionale: in primis, appare in contrasto con quella libertà di impresa riconosciuta e tutelata dall’art. 41 della Costituzione come fonte di benessere e di sviluppo del singolo individuo e quindi della collettività, ma anche con la stessa ratio della disciplina comunitaria, la quale mira solo ad evitare che un ente operante nel sistema economico europeo alteri la concorrenza nel mercato, lasciandosi guidare da considerazioni non economiche nella scelta dei soggetti con cui contrarre.

Inoltre, anche dal punto di vista del contesto normativo nazionale, si possono evidenziare criticità dal punto di vista logico e sistematico: se infatti il legislatore ha previsto esplicitamente la possibilità per gli Enti pubblici di utilizzare gli strumenti privatistici per il perseguimento degli interessi di cui sono portatori, in alternativa alla gestione diretta o all’utilizzo di strumenti più marcatamente pubblicistici, come l’azienda speciale o l’ente pubblico economico, ciò evidentemente risponde allo scopo di far penetrare nel pubblico strumenti e mentalità privatistiche, in quanto non avrebbe alcun senso riconoscere tale possibilità e poi annullare ogni differenza pretendendo l’applicazione sostanzialmente senza limiti della disciplina pubblicistica; ed ancora, se il legislatore ha sentito la necessità di estendere in modo esplicito ai soggetti in esame alcune specifiche norme indirizzate agli Enti pubblici, per esempio in materia di accesso agli atti o di dichiarazioni sostitutive, non può che trarsi la conseguenza che negli altri casi l’estensione della disciplina pubblicistica non dovrebbe così facilmente avvenire, se non privando di ogni significato queste previsioni legislative.

Infine, non trova adeguato fondamento argomentativo anche la necessità di tutelare la certezza del diritto, in quanto, per un verso ciò non appare sufficiente a giustificare la compromissione indiscriminata delle garanzie costituzionali della libertà di impresa già richiamata, incisa dall’imposizione dell’obbligo di osservare la disciplina pubblicistica anche in caso di attività essenzialmente di diritto privato; per altro verso, si rivela non pertinente in tutti quei casi in cui, per il tipo di attività considerata e per il complessivo regime cui la complessiva attività del soggetto è sottoposta, il dubbio sulla natura non industriale o commerciale e dunque i rischi di incertezza del diritto siano inesistenti.

In conclusione, dal punto di vista teorico la dottrina sembra più propensa verso l’ammissibilità almeno in linea teorica della nozione di organismo di diritto pubblico in parte qua, a differenza della giurisprudenza nazionale, la quale, seguendo la giurisprudenza comunitaria, sembra essere più orientata nel senso opposto.

Tuttavia proprio in ragione delle criticità suesposte il giudice nazionale e quello comunitario dovrebbero esser portati a riflettere sull’ ammissibilità dell’organismo di diritto pubblico in parte qua (e in tal senso una prima riflessione può ravvisarsi nella sentenza del T.A.R. Firenze, (Toscana), 5 maggio 2014,  n. 731), mentre le ragioni di certezza del diritto dovrebbero portare alla predisposizione normativa di un rigoroso sistema di separazione contabile, ma anche economico e finanziario, tra i diversi ambiti dell’attività esercitata, allo scopo di evitare una pericolosa confusione di risorse economiche tra settori nei quali l’Ente agisce in vesti  differenti.


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