“Amor ch’a nullo amato amar perdona”. Riflessi penalistici di una positività sottaciuta

“Amor ch’a nullo amato amar perdona”. Riflessi penalistici di una positività sottaciuta

Nota a Cass., sez. I, 30 ottobre 2019 (dep. 26 novembre 2019), n. 48014, Pres. Di Tomassi, est. Santalucia, imp. V.T.

“L’untore di Roma”, così battezzato, al tramonto di una complessa vicenda giudiziaria che lo ha visto protagonista: un giovane uomo, condannato dalla Corte di Assise di Appello di Roma alla pena di 24 anni di reclusione per aver volontariamente infettato con HIV più di trenta persone con le quali aveva intrattenuto rapporti sessuali non protetti, nella piena consapevolezza della propria sieropositività.

La decisione che ha rideterminato la pena in peius, è stata il frutto di un nuovo giudizio che gli Ermellini avevano concluso circa un anno fa quando, dopo aver confermato la penale responsabilità dell’imputato, avevano disposto la restituzione degli atti ad altra sezione della Corte di Assise di Appello, in modo che riesaminasse quattro dei casi di contagio dai quali il prevenuto era stato assolto.

In buona sostanza, nonostante un dispositivo di annullamento parziale, i Giudici di legittimità confermavano da un lato l’assoluzione dell’imputato dal delitto di epidemia e, dall’altro, la sua responsabilità penale a titolo di lesioni volontarie gravissime ai danni delle contagiate.

Diventa, così, irrevocabile ed eseguibile la condanna a ben 22 anni di reclusione inflitta dall’Assise di Appello di Roma.

La vicenda giudiziaria in questione ha costituito sicuramente un succulento argomento di riflessione per i cultori del diritto, componendo un argomento assai discusso rispetto alla tematica, sempre più attuale, nell’era della globalizzazione e della mercificazione, dell’incontrollabile diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili, peraltro, con spiccato riferimento al caso di scuola dell’ “untore”, figura accademica dai contorni estremamente evanescenti, seppur destinata, nella pronuncia in commento, a trovar “carne ed ossa”.

In effetti, se non manca giurisprudenza in tema di responsabilità penale da trasmissione di HIV e, se la fattispecie è diventata, nel tempo, uno dei punti fermi attorno ai quali ruotare il dibattito sulla linea di discrimen tra dolo eventuale e colpa cosciente, il caso di specie presenta, pur tuttavia, connotati di una certa eccezionalità, a parere di chi scrive.

Tali peculiarità si riflettono, inevitabilmente, all’interno dell’iter logico-argomentativo della Cassazione all’atto della motivazione, dedicatasi prevalentemente all’affrontare problemi attinenti già al profilo della tipicità dei delitti in esame.

Dal tema più tradizionale, della sussistenza del nesso di causalità individuale tra i rapporti sessuali non protetti con l’imputato e la contrazione dell’infezione, a quello relativo ai confini della condotta e dell’evento nel delitto di epidemia – ex art. 438 c.p., soprattutto quanto alla loro applicabilità alle ipotesi di contagio avvenuto tramite contatto fisico tra l’autore e le vittime.

Merita poi, quantomeno, un cenno il riferimento che la pronuncia del 2019 fa, quanto al capo della rubrica relativo al reato di falso materiale contestato all’imputato, al problematico principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite “Marcis” in tema di copia di atto pubblico inesistente (falso materiale in atto pubblico, di cui l’imputato era chiamato a rispondere per aver inviato, via telefono, a una partner, la foto di un certificato medico attestante falsamente il suo stato di sieronegatività).

Ebbene, la vicenda storica al vaglio della Corte ebbe inizio nel novembre 2014: in seguito alla scoperta della sieropositività, prima di quel momento del tutto disconosciuta, di un uomo col quale aveva intrattenuto rapporti sessuali non protetti, una donna si sottoponeva al test HIV, scoprendo di aver contratto l’Aids.

Per tale ragione sporgeva denuncia.

Dalle indagini emergeva che il V.T., già dall’agosto 2006, era a conoscenza della sua condizione patologica, ragion per cui il suo caso era stato preso in carico da una struttura assistenziale specializzata sin dallo stesso anno, mentre la terapia antiretrovirale era stata cominciata solo nel 2015.

Senonché, in tutto questo arco temporale, il V.T. aveva comunque liberamente frequentato un numero elevato di donne, omettendo di informarle in ordine al proprio stato, intrattenendo con le stesse rapporti sessuali non protetti, addirittura, talora dietro sua specifica richiesta o persuasione.

Gli accertamenti tecnici espletati portavano all’individuazione di ben 37 persone infette, contagiate in via diretta o indiretta (come avvenuto per 8 uomini e anche un bambino, nato da madre sieropositiva, dopo essersi congiunta all’imputato) dallo stesso V.T.

Per questi episodi la Corte di Assise di Appello romana confermava la condanna di primo grado emessa a seguito dell’accertamento, oltre ogni ragionevole dubbio, del reato di lesioni personali gravissime, mentre, solo rispetto a tre casi la statuizione d’appello veniva riformata, sulla scorta dell’incompatibilità tra il periodo della relazione con l’imputato e la data del verosimile contagio.

In entrambi i gradi di merito, invece, si è esclusa pacificamente la sussistenza del delitto di epidemia, pur sulla scorta di argomentazioni giuridiche di segno diverso.

Orbene, dopo una accurata disamina del tema della prova del nesso di causa, sub specie di condicio sine qua non dell’evento lesioni, sgombrato il campo dalla tesi, sostenuta dalla difesa del V.T., per cui la viremia sarebbe stata tanto bassa da rendere impossibile il rischio di trasmissione del virus a terzi, la Corte ha, al fine di accertare l’efficacia causale della condotta dell’imputato rispetto ai singoli episodi di infezione, analizzato: l’esistenza dei rapporti sessuali; l’identità del virus contratto dalle parti; la direzionalità del contagio.

Sicché, se è vero che i primi due punti restano comunque suscettibili di riscontri diretti o di pratica accertabilità, maggiori problemi si pongono con riguardo al fatto che proprio l’imputato abbia contagiato quel partner, mancando, all’evidenza, una certezza scientifica che può solo essere sopperita dalla presenza di altri e sicuri indici che conducano ad una conclusione di tal fatta quantomeno con alta probabilità logica.

Passando, però, funditus, all’analisi del cuore della sentenza, ovvero al tema della configurabilità del delitto di epidemia, non può non notarsi come i due gradi di merito abbiamo motivato diversamente e, sulla scorta di argomentazioni apoditticamente differenti, seppur non incompatibili, l’assoluzione dell’imputato.

Ed invero, la Corte di Assise ha sviluppato il proprio iter argomentativo a partire dalla tesi per cui la nozione di epidemia, ex art. 438 c.p., sia più ristretta in termini giuridici rispetto a quella propria della scienza medica, che ravvisa il cluster epidemico in ogni gruppo di casi di infezione all’interno di uno stesso spazio-temporale, senza una particolare consistenza quantitativa del fenomeno.

Diversamente, i Giudici di appello hanno valorizzato i profili di tipicità propri della condotta, sostenendo che il concetto di “diffusione” presuppone la separazione del germe patogeno rispetto all’agente, quale condizione per attingere ad una pluralità di soggetti, per tale ragione non integrato nei casi di contagio umano, che si realizza attraverso il contatto fisico tra la persona dell’autore e la presunta vittima.

Intervenuta la Cassazione, pur condividendo l’assoluzione dell’imputato, ha apportato dei correttivi alle motivazioni sino a quel momento rassegnate.

Ed infatti, gli Ermellini hanno fornito una diversa interpretazione della fattispecie prevista dall’art. 438 c.p., che disciplina l’epidemia dolosa, ritenendo che quest’ultima non selezioni le condotte diffusive. In particolare, perché la diffusione sia tale da determinare una epidemia, a poco rilevano le modalità con cui questa si realizza, non essendovi alcun motivo per postulare, ai fini della tipicità, un rapporto di alterità fisica e spaziale tra l’oggetto – ciò che viene diffuso – e il soggetto – chi diffonde.

Quindi, ciò che mancherebbe, nel caso di specie, a detta della Cassazione, sarebbe proprio “l’evento tipico dell’epidemia, che si connota, come precisato dalle sezioni unite civili della cassazione, per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo per un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente limitata” (SS.UU., n. 576, dell’11.1.2018).

Ebbene, l’imputato infettò un grosso numero di persone ma non ingente a tal punto da causare una vera e propria epidemia per come poc’anzi descritta, considerato pure che i rapporti sessuali non protetti erano avvenuti in un ampio arco temporale, durato quasi nove anni.

Pertanto, l’ampiezza del lasso temporale in cui avvennero i contagi, in uno alla circostanza che non tutte le donne che si fossero carnalmente congiunte con lui ebbero a contrarre il virus, hanno deposto nel senso dell’inconfigurabilità del reato di epidemia dolosa, rispetto al quale difetterebbero proprio gli elementi costitutivi sia sotto il profilo della materialità che del necessario dolo di fattispecie, richiesto dalla norma.

In virtù di ciò, il V.T. veniva ritenuto penalmente responsabile del reato di lesioni personali gravissime, essendo, nella specie, derivata dal fatto una malattia che, come la norma richiede, sia certamente o probabilmente insanabile.

Altro rilievo di non poco momento, che la Cassazione muove nel tracciare la linea di demarcazione tra le fattispecie in esame, ruota attorno al bene giuridico leso da ambedue i reati: mentre, infatti, il reato di epidemia dolosa tutela la salute pubblica come benessere psico-fisico della collettività, ratio delle lesioni personali gravissime è, indubbiamente, la tutela dell’incolumità individuale del consociato, effettivamente pregiudicata.

Pur tuttavia rimanendo nel terreno di una contestazione per lesioni personali gravissime, v’è, poi, da chiedersi se vada riconosciuto, nella condotta dell’imputato, l’elemento psicologico del dolo eventuale, riflessione questa che, seppur di non primaria incidenza all’interno della sentenza in commento, cionondimeno è destinata a creare non pochi problemi laddove trasposta sul piano concreto, soprattutto, se analizzata in parallelo alla colpa cosciente.

Al tema non vanno tolti i sigilli, affondando le radici in numerosi precedenti arresti giurisprudenziali  e riflessioni della migliore dottrina che, proprio in rema di responsabilità per trasmissione di HIV, si sono cimentati nell’individuare una linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente a proposito della definizione del regime penale cui assoggettare il soggetto che, consapevolmente affetto da Aids, intrattenga rapporti sessuali non protetti con un partner sano.

Dirimente sul punto e memento per noi non può che essere la sentenza Thyssen del 2014, a mezzo ed esito della quale le SS.UU. hanno ritenuto di poter ravvisare la fisionomia del dolo eventuale in quel contegno, serbato dal soggetto attivo che, sulla base di una rappresentazione e previsione dell’evento finale più intensa e precisa di quella che connoterebbe la colpa cosciente, “dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare”, si sia ciononostante determinato ad agire, maturando una consapevole adesione all’evento.

Ciò posto, beninteso, nella pronuncia di legittimità del caso V.T. non vi sono né passi avanti né indietro quanto al profilo dell’elemento psicologico del reato di lesioni personali gravissime contestato all’imputato: il ragionamento riportato in sentenza, difatti, resta ancorato unicamente alla dimostrazione della consapevolezza, da parte dell’agente, del proprio stato di sieropositività e del conseguente rischio di contagio, senza alcun neppur blando cenno all’esigenza di dimostrare una volontaristicamente più forte adesione all’evento.

Evidentemente, corresponsabile del deficit motivazionale scontato dalla sentenza sul punto può essere la scarsa specificità in tema di elemento soggettivo dei motivi di ricorso dell’imputato. Parimenti, non si può che dare atto del fatto che anche i principi di diritto enunciati dalla sentenza Thyssenkrupp appaiono, ancor oggi, di difficile assimilazione.

Certo è che, sulla questione, ci si sarebbe aspettati un particolare sforzo motivazionale dei Giudici di Piazza Cavour, risultando, allo stato, la diatriba dolo eventuale/colpa cosciente ancora aperta ed irrisolta.


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Avv. Giorgia di Savino

Laureata in Giurisprudenza nel 2015 presso l'Università degli Studi di Bari con il massimo dei voti, la lode e il plauso. Ha frequentato con eccellenti risultati il Tirocinio formativo presso la Procura della Repubblica di Trani. Ha conseguito l'abilitazione alla professione forense, nel settembre 2018, con la votazione di 300/300. Collabora con lo Studio legale FPS di Bari, occupandosi di diritto penale e di white collar crime.

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