Analisi giurisprudenziale e dottrinale sulle maggiori problematiche attinenti al nesso causale nei reati commissivi ed omissivi

Analisi giurisprudenziale e dottrinale sulle maggiori problematiche attinenti al nesso causale nei reati commissivi ed omissivi

Il rapporto di causalità nel diritto penale è espressamente previsto negli artt. 40 e 41 c.p. Tali norme, per quanto determinino L’essenzialità di tale valutazione al fine di poter applicare la fattispecie incriminatrice al caso concreto nei reati di evento (in quanto nei reati di mera condotta non sussiste il problema, giacchè sarebbe punibile la sola integrazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice) non riescono a fornire indicazioni esaustive che permettano di orientare l’interprete nella ricostruzione della nozione stessa di causalità oltre alla individuazione precisa del criterio di accertamento causale. Pertanto, dottrina e giurisprudenza sono dovute intervenire al fine di risolvere i problemi interpretativi che incidono sulla applicazione stessa dell’istituto in esame. In primo luogo, ci si è chiesti: a quale evento si riferisce la valutazione del nesso causale?

Secondo l’opinione prevalente, per poter rispondere a tale interrogativo, appare necessario partire dalla considerazione secondo cui il modello di causalità accolto nel nostro ordinamento giuridico appartiene alla teoria condizionalistica “condicio sine qua non”. Secondo tale tesi per causa deve intendersi ogni singola condizione dell’evento senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato, pretendendo un giudizio contro fattuale di eliminazione mentale ex post ed in concreto. Tale giudizio comporta che il Giudice è tenuto a chiedersi se, in assenza di quella condotta, l’evento si sarebbe comunque verificato. Se la risposta è affermativa allora non sussiste nesso causale, se la risposta è negativa sussiste in concreto rapporto di causalità. È in questa fase che entra in considerazione quale tipologia di evento bisogna tener conto nel giudizio di accertamento del nesso causale, ossia se l’evento astratto previsto dalla norma incriminatrice o l’evento concretamente verificatosi. Il problema sorge poiché, se si accogliesse la teoria condizionalistica in toto, potrebbero verificarsi almeno tre possibili problemi:

– Il problema del regresso all’infinito, ossia, tale tesi arriverebbe all’assurdo di considerare tutte le condizioni che concorrono alla produzione dell’evento lesivo, anche gli antecedenti più remoti. Si pensi al caso di un soggetto che uccida con una pistola un altro soggetto. Se i genitori non avessero messo al mondo l’omicida, questi non avrebbe sparato ed ucciso alcuno, divenendo questa una condizione indispensabile dell’evento.

– Il problema della causalità ipotetica, ossia nell’ipotesi in cui un medico pratichi un’iniezione mortale ad un malato terminale al fine di alleviare le sue sofferenze, provocandogli la morte, che comunque sarebbe avvenuta successivamente. Se si accogliesse la teoria condizionalistica puramente, in tal caso si dovrebbe escludere il nesso di causalità in quanto l’evento si sarebbe verificato anche in assenza della condotta dell’agente.

– Il problema della causalità addizionale cumulativa, ossia trattasi dell’ipotesi in cui ad un soggetto viene dapprima somministrata una dose di veleno, già di per sé mortale, ed in un secondo momento viene somministrata un’altra dose di veleno da parte di un altro soggetto, anch’essa da sola sufficiente a causare la morte. Anche in tal caso si arriverebbe al paradosso secondo cui la morte del soggetto avvelenato non sarebbe stata causata né della condotta del primo né dalla condotta del secondo agente. (GAROFOLI, Manuale di diritto penale parte generale, cit).

Al fine di risolvere tali problematiche che comporta la teoria condizionalistica, gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali prevalenti hanno sostenuto che l’evento a cui deve riferirsi il giudice è l’evento concreto “hic et nunc” ossia l’evento che realmente si è verificato nel caso di specie. Come tale, nell’ipotesi del regresso all’infinito, non basta la logica della tesi condizionalistica, giacché non è possibile prescindere dalla valutazione dell’elemento soggettivo, infatti è stato riconosciuto in giurisprudenza che ogni elemento significativo del fatto deve essere sorretto almeno dalla colpa per individuare le condotte causalmente legate all’evento lesivo. (MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale, cit.). Quindi, dovendo l’interprete tener conto del decorso causale effettivo e non quello ipotetico, nell’ipotesi della causalità ipotetica, la morte del paziente malato terminale è stata causata dal medico che ha posto in essere l’iniezione; ancora, nella causalità addizionale non si guarda all’evento ipotetico, ossia il fatto che la morte sarebbe stata provocata anche con una sola dose di veleno, ma ciò che deve prendere in considerazione il giudice è l’evento in concreto, ossia la morte causata dalla quantità effettiva di veleno ritrovata nel corpo della vittima.

Il secondo interrogativo che è stato sottoposto ad analisi della dottrina e della giurisprudenza si concentra sull’articolo 41 c.p.: il concorso di cause interrompe il nesso causale? Ed in conseguenza della risposta a tale quesito, ci si è chiesto quali siano i fattori interruttivi del nesso causale. Al primo quesito risponde il comma 1 dell’articolo 41 c.p., il quale prevede che l’evento si possa verificare non solo per effetto della condotta del soggetto agente, ma possono contribuire anche altri fattori naturalistici o umani. In tali circostanze il concorso di cause non esclude la causalità quando la condotta tenuta dall’agente è comunque una condotta necessaria per la verificazione dell’evento, nonostante non sia l’unica causa che ha realizzato l’evento, ed anche nell’ipotesi in cui non sia la causa prevalente che ha portato all’evento lesivo. In conseguenza di tale risposta, dottrina e giurisprudenza hanno dovuto individuare quali siano i fattori causali che possano interrompere il rapporto di causalità. In tale contesto bisogna partire dall’analisi del secondo comma dell’art. 41 c.p., Il quale dispone che i fattori sopravvenuti da soli in grado di realizzare l’evento interrompono il nesso causale. Ancor più nello specifico, un orientamento ha sostenuto che tale secondo comma si riferisse alle sole serie causali autonome, ossia quei fattori totalmente avulsi dalla condotta dell’imputato. Tali fattori possono essere umani o naturalistici, come nell’ipotesi di somministrazione del veleno da parte di Caio nei confronti di tizio, ove successivamente Mevio uccida tizio con un’arma da fuoco (Fattore umano); oppure nell’ipotesi in cui Caio somministra del veleno a tizio ma successivamente tizio viene colpito da un fulmine che ne causa la morte (fattore naturalistico). Diverso è invece il discorso nell’ipotesi in cui, ad esempio, Tizio ferisce Caio che va in ospedale. Caio muore a causa della eventuale negligenza o imperizia dei sanitari nella prestazione delle cure mediche. In tali circostanze si è in presenza di una serie causale non autonoma, essendo che l’errore dei sanitari non si sarebbe verificato in assenza della condotta lesiva di Tizio e, secondo questo primo orientamento, essendo la serie causale non autonoma, l’errore non è da solo sufficiente ad interrompere il nesso causale (Cass., Sez. IV, n. 25560\2017). Ma allora ci si chiede: tutte le serie causali non autonome non possono avere l’effetto di interrompere il nesso causale? Secondo la tesi fin qui in analisi, in questi casi la causalità vi sarebbe sempre, in quanto l’articolo 41 c.p. Letteralmente si riferisce alle sole serie causali autonome, inoltre ammettendo il contrario si incrinerebbe il giudizio di causalità, in quanto si anticiperebbero valutazioni che dovrebbero essere poste in essere al momento dell’analisi dell’elemento soggettivo. Ma secondo la tesi prevalente non è possibile escludere a priori le serie causali non autonome, pertanto si deve apportare un correttivo alla teoria condizionalistica, e bisogna interpretare diversamente l’art. 41 comma due c.p.. Invero, sono stati sostenute tre tipologie di correttivi in merito:

– La prima tesi viene definita della c.d. Causalità adeguata, ossia, l’interprete deve porre un giudizio di prognosi postuma, articolato in due momenti: un giudizio ex ante, ossia deve chiedersi quali siano i decorsi causali, in base alle conoscenze fornite dalle leggi scientifiche e dai dati di fatto disponibili, prevedibili in base all’azione compiuta dall’agente. Successivamente dovrà compiere un giudizio ex post paragonando l’evento concretamente verificatosi rispetto ai possibili eventi prevedibili, verificando se tale evento concreto rientri tra tali fattori prevedibili. Se non rientra tra i fattori prevedibili, allora non può essere considerato conseguenza prevedibile dell’azione, pertanto il fattore causale successivo è idoneo ad interrompere il nesso causale. Tale tesi è stata poco seguita dalla dottrina e dalla giurisprudenza in quanto prende in considerazione valutazioni che attengono alla sfera della colpevolezza, realizzando un giudizio, tra l’altro, soggetto ad applicazioni incerte.

– La seconda tesi è considerata prevalente secondo una parte degli orientamenti giurisprudenziali, ossia la c.d. Tesi della causalità umana. Tale tesi prevede che i fattori successivi non autonomi interrompano il nesso causale solo se vanno oltre gli sviluppi causali dominabili dall’uomo. Ciò significa che, a differenza della precedente tesi, il nesso causale è interrotto non per la mera imprevedibilità del fattore successivo, ma si pretende un quid pluris, ossia l’assoluta imprevedibilità del fattore causale successivo. Il problema principale che è stato sollevato nell’accoglimento di tale tesi consiste nel riconoscere che quest’ultima finisce con l’essere una sorta di travisamento della teoria dell’adeguatezza, essendo connotata da maggiore rigidità rispetto a quest’ultima, ma tendendo, allo stesso tempo, ad attenuare il rigore della teoria condizionalistica.

– Altra fazione di magistrati, invero, sostengono che la tesi oggi prevalente sia la c.d. Tesi dell’imputazione obiettiva dell’evento. Ciò che bisogna valutare non è il dato statistico della prevedibilità o meno dell’evento, quanto il dato qualitativo, quindi confrontare il rischio originario realizzato dalla condotta del reo rispetto al rischio che si verifica con la concausa, ossia con il  fattore sopravvenuto non autonomo. Se il rischio successivo è considerabile semplice aumento del rischio originario, vi sarà omogeneità dei rischi, e pertanto non si considererà interrotto il nesso causale. Se invece il fattore sopravvenuto non autonomo realizza un rischio nuovo e incongruo rispetto al rischio originario, vi sarà eterogeneità dei rischi, quindi interruzione del nesso causale. Si pensi all’ipotesi in cui tizio cagiona delle lesioni a Caio, e quest’ultimo muore in ospedale a causa dell’infezione della ferita. In tale circostanza, il fattore successivo non autonomo, non interrompe il nesso causale, considerato che è semplicemente aumentato uno dei rischi configurabili nel reato di lesioni personali. Se invece il soggetto che ha subito lesioni personali, va successivamente in ospedale e muore a causa di un incendio all’ospedale, tale evento è stato causato da un rischio nuovo e diverso rispetto a quelli che possono verificarsi rispetto al reato di lesioni personali, pertanto l’incendio è fattore interruttivo del nesso causale. (GAROFOLI, Manuale di diritto penale parte generale, Nel diritto editore; BLAIOTTA, Causalità e colpa nella professione medica tra probabilità e certezza, in Cass. Pen).

II terzo interrogativo su cui è possibile soffermare l’attenzione riguarda la possibilità o meno di estendere il discorso sui fattori sopravvenuti ai fattori antecedenti e concomitanti. E’ stato sostenuto che se si tratta di serie causali autonome, nulla questio, giacchè non vi sarà nesso di causalità. Il problema sorge con riguardo alle serie causali non autonome. Due tesi hanno sostenuto che il discorso riguardante i fattori sopravvenuti non possa che estendersi anche ai fattori concomitanti ed antecedenti, secondo un orientamento, ai sensi di una interpretazione analogica in bonam partem dell’art. 41 comma secondo c.p., secondo, invece, altro orientamento, in applicazione dell’articolo 45 c.p.. Tali orientamenti sono stati altamente criticati dalla tesi oggi prevalente, giacché nella prima ipotesi, si ritiene non concepibile l’estensione analogica dell’art. 41 comma 2 c.p. In quanto si andrebbe oltre il dato letterale della norma che si riferisce espressamente ai “ fattori sopravvenuti”, mentre nella seconda ipotesi è stato sostenuto che se il legislatore avesse voluto fare riferimento ai fattori concomitanti ed antecedenti, lo avrebbe fatto espressamente, pertanto non è concepibile ricondurre tali fattori al caso fortuito di cui all’art. 45 c.p.. In conseguenza di ciò, la tesi prevalente non ritiene estendibile la logica fin qui analizzata per i fattori sopravvenuti ai fattori antecedenti e concomitanti, anche considerando il fatto che, se così non fosse, l’interruzione del nesso causale, in tali ipotesi, comporterebbe l’impunità di soggetti che dovrebbero essere puniti sotto il profilo dell’elemento oggettivo del reato.

La quarta problematica oggetto di analisi attiene ai criteri di accertamento del nesso causale. In una prima fase, veniva adoperato il c.d. Metodo individualizzante, ossia ci si basava su un giudizio causale basato sulla mera enunciazione dei fatti, evocando un modello a serie continua (STELLA, Leggi scientifiche; Commento agli artt. 40 e 41 c.p. Cit). Detta altrimenti, ci si basava su una valutazione che atteneva al buon senso del giudice. Successivamente la giurisprudenza ha ritenuto opportuno porre l’attenzione su un sistema di accertamento del nesso causale più preciso e rigoroso, nello specifico, sostenendo che fosse necessario per tale accertamento la sussunzione del caso concreto nella legge di spiegazione causale. Tale legge di spiegazione causale poteva rinvenire o nelle leggi di esperienza, facendo leva su ciò che normalmente accade, o nelle leggi scientifiche c.d. Di copertura, che a loro volta si dividono in leggi universali, in grado di affermare che la verificazione di un evento è necessariamente accompagnata alla verificazione di un altro evento; e in leggi statistiche, le quali attestano che il verificarsi di un evento è accompagnato dalla realizzazione di un altro evento, ma in una certa percentuale di casi. Si tratta di una valutazione che attiene alla probabilità statistica che il più delle volte da sola non risulta sufficiente per un adeguato accertamento del nesso causale, data anche l’applicazione della clausola c.d. Coeteris paribus, secondo cui la spiegazione che deve il giudice in motivazione circa il nesso causale, non pretende una precisione tale per cui si debbano spiegare nel dettaglio tutti gli eventi fisici che hanno portato all’evento rilevante penalmente, in quanto non può esser pretesa  una logica esaustiva al cento per cento. Proprio per tali ragioni, alla verifica della probabilità statistica, si accompagna una verifica ulteriore, detta della probabilità logica. Questo secondo momento di accertamento del nesso causale guarda ai c.d. Fattori causali alternativi, valutando se,nel caso concreto, possono essere intervenuti altri fattori causali che, in alternativa alla condotta del reo, potrebbero aver causato l’evento. Si pensi all’ipotesi in cui dei lavoratori in una fabbrica di amianto siano deceduti per malattie tumorali. Secondo le leggi scientifiche, i tumori possono essere stati provocati, con un’altissima percentuale, dalla sostanza prodotta in azienda. Mentre con una probabilità più bassa le morti possono essere causate da altri fattori, quali ad esempio l’utilizzo delle sigarette. Pertanto, secondo un giudizio di probabilità statistica, la condotta sarebbe riferibile al proprietario della fabbrica, ma, come è stato detto, il giudice non può fermarsi alla sola probabilità statistica, ma deve analizzare il fattore causale alternativo che può portare nel caso concreto a risultati diversi, ad esempio, alcuni dei lavoratori potrebbero aver ecceduto nell’utilizzo delle sigarette, aumentando la probabilità di avere delle malattie tumorali. In tali circostanze prevale il principio “in dubio pro reo”, pertanto non è concepibile una sentenza di condanna (Cass., SS.UU. “Franzese” n. 30328\2002). Ancora ci si è chiesti se il dato epidemiologico possa rientrare tra le leggi scientifiche di copertura (GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit). Secondo l’orientamento minoritario, può essere adoperato il dato epidemiologico, sulla considerazione secondo cui, riprendendo l’esempio appena esposto, la condotta dell’imprenditore che ha lavorato una sostanza tossica, è causalmente riconducibile alle morti dei lavoratori, giacché la norma incriminatrice non darebbe rilevanza alla quantità dei soggetti deceduti a causa della condotta dell’imprenditore, ma l’accertamento si soffermerebbe sul solo dato che risulta certo che la condotta dell’imprenditore abbia comportato alcuni dei decessi. La giurisprudenza assolutamente prevalente, invero, ha sostenuto la necessità di dare preminenza alla causalità individuale, ossia la specifica condotta tenuta dall’imprenditore deve essere causalmente legata agli specifici eventi, quindi agli specifici decessi, pertanto rileverebbe tanto il dato quantitativo quanto il dato qualitativo. Come tale, le rilevazioni epidemiologiche non darebbero quel grado di certezza necessario per l’accertamento del nesso causale ( Cfr. LUCA MASERA, Evidenza epidemiologica di un aumento di mortalità e responsabilità penale, in Diritto penale contemporaneo).

L’analisi del nesso causale non riguarda i soli reati commissivi,  bensì attiene anche le ipotesi di reati omissivi. Alcuni orientamenti tendenzialmente minoritari sono arrivati a sostenere che non sia necessario l’accertamento del rapporto causale nei reati omissivi, giacchè ciò che deve esser accertato  al fine di integrare la fattispecie sarebbero la posizione di garanzia e la verificazione dell’evento, mentre il giudizio riguardante la condotta che non vi è stata ma sarebbe dovuta esserci attiene alla valutazione dell’elemento soggettivo. Tuttavia, la tesi prevalente sostiene che non basti la posizione di garanzia e la verificazione in concreto dell’evento lesivo per la configurazione del reato ma deve essere accertato anche il nesso causale. Tale disciplina è stata analizzata soprattutto con riferimento alla responsabilità professionale medico-chirurgica, ma l’analisi può ben essere presa in considerazione in via generale. Invero, in una prima fase l’orientamento tradizionale si soffermava sul solo accertamento riguardante la c.d. Probabilità statistica, ossia l’interprete con un giudizio ipotetico doveva accertare che l’azione doverosa omessa, con una certo grado di probabilità, avrebbe potuto impedire il verificarsi dell’evento. Tale giudizio è stato sottoposto al vaglio delle c.d. Sentenze Battisti del 2000, le quali hanno aspramente criticato questo giudizio sostenendo che, se bastasse tale tipo di accertamento del nesso causale nei reati omissivi, questi sarebbe connotato di un alto grado di aleatorietà, aumentando il rischio di punire un soggetto anche in presenza dell’azione doverosa omessa. Pertanto, veniva preteso un giudizio di probabilità quanto più vicino possibile al grado di certezza che si aveva nel giudizio riguardante i reati commissivi. Tale contrasto giurisprudenziale è culminato con la Sentenza a SS.UU. Franzese nel 2002, la quale ha posto l’attenzione sul fatto che non fosse tollerabile un diverso grado di certezza nell’accertamento delle due forme di causalità omissiva e commissiva, è che pertanto fosse necessario aggiungere al giudizio di accertamento nelle forme della probabilità statistica una verifica ulteriore, riguardante la probabilità logica, al fine di garantire un grado di certezza c.d. Processuale. Più nello specifico, la sentenza “ThyssenKrupp” (SS.UU. N. 38343\2014), riprendendo i risultati raggiunti grazie alla sentenza “Franzese”, ha posto l’attenzione sul fatto che ciò che differenzia i due tipi di accertamento nei reati commissivi e nei reati omissivi riguarda la struttura del giudizio controfattuale. Invero, per comprendere se l’evento si sarebbe verificato comunque, invece di rimuovere idealmente l’azione compiuta, nei reati omissivi è necessario aggiungere mentalmente l’azione omessa. Infatti, in caso di comportamento commissivo, il giudizio è fondato su dati che attengono alla realtà, costruiti in termini di processo di eliminazione mentale della condotta effettivamente realizzata, al fine di accertare se l’evento si sarebbe comunque verificato. Mentre nell’ipotesi di comportamento omissivo, si tratta di un giudizio ipotetico, poichè riguardante un giudizio di aggiunta mentale, come tale, il giudice deve simulare che la condotta doverosa omessa si sia verificata affinché si possa accertare l’impatto che questa avrebbe avuto sull’evento lesivo. Chiarita tale differenza strutturale tra le due fattispecie, sostiene la giurisprudenza prevalente, che il giudizio di accertamento causale ha medesima identità e segue le medesime logiche tanto nei reati omissivi quanti nei reati commissivi. ( Cass., 5800\2021; GAROFOLI, Manuale di diritto penale parte generale, cit.)


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Claudia Valente

Dott.ssa in Giurisprudenza con indirizzo economico conseguita con votazione 110 cum laude; Giurista di impresa presso la No.Do. e Servizi s.r.l.; stage ex art. 73 D.L. 69/2013 concluso con esito positivo con magistrato affidatario la Presidente della I Sez. Penale della Corte d'appello di Catanzaro; praticante avvocato.

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