Analogie e differenze tra regolamenti e atti amministrativi generali
Al fine di procedere ad un quanto più possibile attento lavoro di analisi circa la natura, nonchè il regime di impugnazione degli atti emanati da Pubbliche Amministrazioni, non si può prescindere dall’evidenziare ciò che distingue due categorie di fonti dell’ordinamento nazionale che si presentano molto simili da un punto di vista formale, ma non sono del tutto identiche nei loro contenuti, ossia i regolamenti e gli atti amministrativi generali.
Mentre i primi, ai sensi dell’art. 1 delle Preleggi, assurgono al rango di fonti secondarie dell’ordinamento, e quindi da un punto di vista sostanziale presentano i contenuti tipici degli atti normativi, gli atti amministrativi generali, nelle more di essere anch’essi dei provvedimenti emanati dalla Pubblica Amministrazione, da un punto di vista sostanziale non figurano quali atti capaci di normare, e dunque di produrre degli effetti normativi nell’ordinamento.
Alla luce di questa prima distinzione, è necessario precisare che l’atto amministrativo generale si contrappone all’atto normativo in base ad un criterio non formale o nominalistico, ma sostanziale.
Non possono essere requisiti formali, quali il nomen iuris o il procedimento di formazione, a stabilire la natura dell’atto. Il discrimine che consente di distinguere tra fonti secondarie e atti amministrativi generali è sostanziale.
In primo luogo, solo per le fonti secondarie valgono i principi “iura novit curia”, ed “ignorantia legis non excusat”, da cui si può dedurre che solo e soltanto il Giudice è ammesso alla conoscenza, anche incidentale, e all’applicazione della Legge, la quale è perentoria e non ammette ignoranza. Ciò consente la disapplicazione del regolamento nel giudizio davanti al Giudice Amministrativo.
Ciò imprime un’ulteriore e fondamentale differenza che opera in virtù del principio gerarchico delle fonti: esso stabilisce che l’atto normativo, a differenza dell’atto amministrativo generale, può essere disapplicato dal Giudice Amministrativo e dalla stessa Pubblica Amministrazione.
Infatti, il Consiglio di Stato negli anni ’90 riconosceva tale potere in capo al Giudice Amministrativo, sulla base del fatto che, così come sussiste la possibilità in capo al giudice di disapplicare la legge in contrasto con il diritto comunitario, per il principio del primato, allo stesso modo deve essere prevista la possibilità che il giudice disapplichi il regolamento nei casi in cui sia in contrasto con la legge, per la posizione di primazia della legge.
In terzo luogo, mentre la violazione di una fonte secondaria, e quindi di un regolamento, da parte di un provvedimento della Pubblica Amministrazione importa l’illegittimità dello stesso per violazione di legge, la mancata osservanza di un atto generale costituisce una mera figura di eccesso di potere.
Infatti, solo la violazione di una fonte secondaria del diritto da parte del giudice è motivo di ricorso per Cassazione ex art. 360, n. 3, c.p.c.
Come già detto in premessa, il principale criterio distintivo utilizzato dalla Giurisprudenza in relazione alle due categorie di atti è di natura sostanziale e fa leva sull’astrattezza delle prescrizioni contenute nell’atto normativo, anche nella misura in cui si fa riferimento ai suoi destinatari.
Sarebbe, quindi, pacifico affermare, secondo una Giurisprudenza ormai consolidata, che mentre i destinatari degli atti amministrativi generali, ad esempio un bando di gara ovvero un concorso, non sono determinabili a priori, i destinatari degli atti normativi, ad esempio un regolamento, non sono determinati né determinabili in nessun caso, sia ex ante rispetto alla loro partecipazione sia ex post.
Infatti, se l’atto normativo è suscettibile di essere applicato infinite volte a fattispecie concrete, gli atti non normativi non disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici, ma curano in concreto una determinata fattispecie.
Pertanto, i destinatari di un bando di gara non sono determinabili al momento della pubblicazione del bando, ma lo diventano successivamente, quando scadono i termini di presentazione delle domande e la fattispecie da quel momento si concretizza.
Ciò che più di ogni altro elemento distingue i destinatari di un regolamento rispetto ai destinatari di un bando di gara, è il fatto che mentre quest’ultimo disciplina un episodio di consuetudine amministrativa che rappresenta un “unicum”, ossia quella gara e soltanto quella gara, il regolamento detta, per l’appunto, la disciplina valida per tutte le gare che l’Amministrazione bandirà durante la sua vigenza, in un’ottica pro-futuro.
Un ulteriore requisito che alimenta il distinguo tra le due tipologie di atti, nonché corollario del carattere dell’astrattezza, è quello dell’innovatività. Esso sussiste quando l’atto ha l’attitudine di apportare modifiche stabili e definitive all’ordinamento giuridico. In un atto amministrativo generale, come nel caso di un bando di concorso, infatti, tale requisito è assente, dal momento che conclusasi la procedura concorsuale le regole previste da quell’atto non hanno più validità.
Le considerazioni fin qui svolte sui rapporti tra le due categorie di atti amministrativi che, se non altro, rappresentano un substrato ormai consolidato della Giurisprudenza maggioritaria, hanno anche ricevuto l’avallo del Consiglio di Stato che, con la sentenza n.9 del 4 maggio 2012[1], si è pronunciato sulla materia dei destinatari degli atti, semplicemente confermando quanto già asserito dalla Giurisprudenza e quindi rafforzando l’inciso sulla loro diversità.
Fra le questioni che rivestono sicuramente un maggior spazio nella disciplina degli atti amministrativi, vi è quella della loro impugnabilità.
Abbiamo già fatto riferimento alla diversa natura dei regolamenti che, essendo fonti di diritto secondarie, e dunque atti normativi, possono essere disapplicate all’occorrenza dal G.A. o dalla stessa P.A.
Seguendo questo fil rouge, si deve tenere presente che la disciplina dei bandi di gara richiede, invece, l’impugnabilità della parte interessata, qualora questa ritenesse di doverlo fare per difetto di legittimità di una prescrizione del bando o per altro grave motivo. In quel caso, dunque, il partecipante alla gara ha l’onere di impugnarla entro il termine di decadenza.
Una questione che fa da corollario a quella preliminarmente introdotta è, a questo punto, quella relativa alla decorrenza del termine per l’impugnazione ossia quando la dottrina ritiene opportuno fissare l’inderogabile dies a quo da cui poter sollevare la questione di legittimità.
Dottrina e giurisprudenza si sono contestualmente interrogate sul punto, pervenendo ad alcuni quesiti: se fosse, dunque, più opportuno fissare il dies a quo dell’impugnazione dalla data di pubblicazione del bando e quindi prim’ancora che fossero identificati i destinatari da essi in concreto lesi, oppure contestualmente all’atto che attualizza la lesione.
La questione diventa dirimente nella misura in cui sono gli atti concretamente posti in essere dall’Autorità a provocare la lesione della singola situazione giuridica soggettiva e, pertanto, la risposta è in re ipsa. La regola invalsa in Giurisprudenza, poi confermata dalla pronuncia del Consiglio di Stato riunito in Adunanza Plenaria, segnatamente la n. 4 del 26 aprile 2018[2], è che i bandi di gara e di concorso vanno impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione.
Con riguardo, poi, alle clausole che detengono il primato dell’impugnabilità, si ritengono immediatamente lesive le clausole cd. escludenti. Esse fanno sorgere l’onere di immediata impugnazione in quanto, ove l’impugnazione non avvenisse o avvenisse tardivamente, rappresenterebbero un impedimento per l’interessato ad essere ammesso alla procedura di selezione.
Il Consiglio di Stato, pronunciandosi sul punto con due arresti, ha evidenziato che la clausola del bando, precludendo la partecipazione alla procedura concorsuale, appare idonea a generare una lesione immediata, diretta ed attuale, nella situazione soggettiva dell’interessato e a suscitare, di conseguenza, un interesse immediato all’impugnazione.
E’ stato osservato, in tale prospettiva, che le clausole del bando che devono essere immediatamente impugnate sono, di norma, quelle che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alle gare per l’aggiudicazione dal momento che la loro lesività non si manifesta al momento dell’aggiudicazione, ma nel momento, decisamente anteriore, in cui tali clausole sono state assunte quali requisiti per l’amministrazione.
La Giurisprudenza ha stilato un elenco delle clausole che costituiscono il genus delle “clausole immediatamente escludenti”, facendovene rientrare alcune in maniera tassativa, come le clausole impositive di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, le regole che rendano la partecipazione difficoltosa o impossibile, le disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano difficoltoso il calcolo ai fini della partecipazione alla gara, le clausole contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta, e ancora le condizioni negoziali che rendono il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso ed obiettivamente non conveniente.
Inoltre, si può escludere un onere di impugnazione anche quando le clausole siano ambigue o polisense, suscettibili cioè di una pluralità di interpretazioni, fra le quali vi è quella corrispondente all’interesse del partecipante. Avviene, in questo caso, che il partecipante può fare affidamento sul fatto che fra le varie interpretazioni possibili la Pubblica Amministrazione scelga quella non lesiva e può, quindi, non impugnare immediatamente.
Peraltro, come in precedenza accennato, il principio secondo il quale le clausole del bando diverse da quelle escludenti devono essere impugnate solo contestualmente all’atto che attualizza la lesione, è stata confermata dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 2018. L’organo amministrativo, oltre a confermare quanto già affermato dalla Giurisprudenza, ha aggiunto alcune considerazioni fondate sull’esigenza di evitare alcuni inconvenienti cui darebbe vita l’onere di immediata impugnazione di qualsiasi clausola dei bandi. Infatti, è pacifico come tutte le offerenti che ritengano di potere prospettare critiche avverso prescrizioni del bando pur non rivestenti, quest’ultime, portata escludente, sarebbero incentivate a proporre immediatamente l’impugnazione. Vieppiù che, in vista del conseguimento dell’obiettivo primario, ossia l’aggiudicazione, esse sarebbero tentate di dilatare la tempistica processuale potendo così rinunciare al ricorso proposto avverso il bando laddove si rendessero aggiudicatarie.
Soltanto qualora non si rendessero aggiudicatarie, coltiverebbero l’interesse strumentale alla riedizione della procedura di gara incentrato sul ricorso proposto avverso il bando.
[1] Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 9 del 4 maggio 2012 [2] Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 4 del 26 aprile 2018
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