Antigiuridicità e colpevolezza: tra scriminanti e scusanti

L’antigiuridicità di un fatto consta nel suo contrasto con l’ordinamento giuridico. Si esprime in sostanza il disaccordo tra il fatto di rilevanza penale e l’intero ordinamento. Questa contraddizione viene meno se sussistono delle cause di giustificazione –scriminanti- le quali fanno venire meno l’antigiuridicità del reato rendendo, pertanto, un fatto illecito ab origine lecito.  Il fatto rimane tipico ma non antigiuridico. Nel codice le ritroviamo dall’art. 50 c.p al 54 c.p. e sono: il consenso dell’avente diritto, l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere, la legittima difesa, l’uso legittimo delle armi e lo stato di necessità. Analizzandoli più puntualmente L’art. 50 c.p. ritroviamo il consenso dell’avente diritto ove l’interesse punitivo dello Stato viene meno in virtù del consenso del titolare del diritto. Tale diritto deve essere un diritto disponibile. Il problema è che non esiste una definizione codicistica di diritto disponibile, pertanto, essa va ricostruita tramite le elaborazioni dottrinali. Si dice che siano sicuramente disponibili i diritti patrimoniali, così come alcuni diritti attinenti alla sfera morale del soggetto quale l’onore. Si discute se l’integrità fisica possa essere disponibile e a tal proposito ci può essere d’aiuto l’art. 5 c.c. ove si sostiene che sono ammessi gli atti di disposizione del proprio corpo purché non comportino una menomazione permanente dell’integrità fisica e non siano contrari alla legge all’ordine pubblico e al buoncostume. Ulteriori elementi che rendono operativa tale causa di giustificazione sono le modalità di espressione del consenso. La giurisprudenza e la dottrina ritengono che esso debba essere prestato liberamente (non viziato da errore o violenza o minaccia); che debba essere attuale, quindi permanere nel momento lesivo; che debba essere lecito – non in contrasto con la legge; e che possa essere sempre revocabile. Il consenso può essere prestato solo dal titolare del diritto leso. Proprio a causa di queste sue caratteristiche ci possono essere delle situazioni in limine. Una di queste si configura nel consenso putativo: il soggetto agente crede che ci sia il consenso dell’avente diritto, il quale tuttavia o non lo ha mai prestato o lo ha revocato come gli è permesso. Tale tipologia di consenso non è idonea a fungere come scriminante, pertanto, il fatto rimane illecito. Però, in mancanza di dolo del soggetto agente egli non sarà comunque punibile in virtù dell’art. 59 c.p. ove si sostiene che in caso di errore sull’esistenza di circostanze di esclusione della pena queste sono valutate a favore del colpevole. Salvo che l’errore non sia determinato da colpa, in tal caso il reato gli sarà ascrivibile a titolo di colpa e la punibilità sarà ancora una volta esclusa se tale reato non è annoverato tra quelli colposi. Sappiamo infatti che il criterio soggettivo di ascrivibilità di un reato è generalmente il dolo, la colpa rileva ove espressamente previsto dalla legge. Infine, appare d’uopo analizzare il consenso presunto il quale non è mai stato prestato ma il soggetto agente si determina ugualmente ad agire perché ritiene di farlo nell’esclusivo interesse del titolare del diritto. Tale situazione presta facilmente il fianco a critiche e perplessità non potendosi ricostruire con certezza i pensieri e le intenzioni del titolare.

La seconda scriminante esaminata dal codice all’art. 51 c.p. è l’adempimento di un dovere. Tale causa di giustificazione opera solo se imposti da una norma giuridica o dall’ordine legittimo della Pubblica Autorità. La ratio di questa norma risiede sicuramente nel principio di non contraddizione che sarebbe inevitabilmente compromesso se una norma permettesse una determinata azione e poi comminasse una pena per la medesima. Questione relativamente più complessa riguarda gli ordini impartiti da una autorità. Nello specifico, bisogna sottolineare che siamo nell’ambito dei rapporti di subordinazione di diritto pubblico che per lo più si ritrovano tra i componenti delle Forze Armate. Lo stesso art. 51 specifica che, se un reato è commesso in virtù dell’ordine impartito, dello stesso risponde l’ufficiale che lo ha imposto. Allo stesso modo risponde anche chi lo ha eseguito a meno che non ritenesse di obbedire ad un ordine legittimo. Si può parlare di legittimità se l’ufficiale che lo ha impartito era autorizzato a farlo, se chi lo riceve è autorizzato e capace ad eseguirlo e se eventuali modalità formali di estrinsecazione dell’ordine sono state rispettate. All’ultimo comma dell’art. 51 c.p. si precisa che la punibilità è, altresì, esclusa se a chi esegue l’ordine non è consentito alcun sindacato di legittimità. Dottrina e giurisprudenza hanno mitigato in via interpretativa quest’ultimo assunto. Infatti, viene affermato che al sottoposto cui venga impartito un ordine manifestamente folle se pur legittimo formalmente, spetti un obbligo di verifica di legittimità e di astensione quando l’esecuzione di tale ordina sia palesemente dissennata.

La terza causa di giustificazione elencata all’art. 52 parla della legittima difesa che si concretizza nella necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta, purché la difesa sia proporzionata all’offesa.  Questa scriminante richiede il presentarsi di alcuni elementi quali un’offesa ingiusta che è tale ogni volta che vi è un’aggressione ingiustificata ad un proprio o altrui diritto. Viene richiesta l’attualità del pericolo ossia l’imminenza dello stesso. La necessità di difendere sé o altri che ricorre quando la difesa è indefettibile e unico mezzo idoneo a respingere l’aggressione. Maggiori criticità presenta l’interpretazione del requisito della proporzionalità. Infatti, si è a lungo discusso se si trattasse di proporzione di mezzi o di offesa. La prevalente dottrina propende per la seconda ipotesi. Infatti, i mezzi a disposizione dell’aggressore e dell’aggredito non devono necessariamente essere paritariamente lesivi ma il danno effettivamente cagionato deve essere proporzionato. La legge 36/2019 ha innovato alla c.d. legittima difesa domiciliare inserita nel quarto e ultimo comma dell’art. 52 dal quale si evince che non è punibile chi reagisce, anche con armi legittimamente detenute, all’intrusione indebita nel proprio domicilio o nel luogo ove si svolge la propria attività professionale. Non pochi dubbi interpretativi sorgono in relazione a quest’ultima ipotesi di legittima difesa. Un’interpretazione letterale sembra affermare che la reazione all’intrusione indebita di soggetti non autorizzati possa essere sempre respinta con ogni mezzo senza che al soggetto aggredito possa essere imputabile l’eccesso colposo di legittima difesa. La Cassazione ha, tuttavia, specificato che l’avverbio sempre presente nel quarto comma non può privare il giudice dell’onere di accertamento che gli è proprio in virtù del ruolo garantistico che riveste. Non possiamo trovarci di fronte ad una presunzione assoluta di legittimità della reazione ma il giudice valuterà la proporzione della difesa avvalendosi di ogni elemento di fatto e di diritto che ricorrerà nella fattispecie sottopostagli.

Una quarta causa di giustificazione è rappresentata dall’uso legittimo delle armi analizzata dall’art 53 c.p. Questa scriminante riguarda espressamente i pubblici ufficiale che nell’adempiere ad un proprio dovere d’ufficio, facciano uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica per respingere una violenza o vincere una resistenza o per evitare la commissione di determinati gravi delitti. Anche il privato cittadine che richiesto dall’ufficiale, gli presti aiuto, non sarà punibile purché tale richiesta di coinvolgimento sia preventiva all’utilizzo dell’arma.

L’ultima causa di giustificazione è riportata all’art. 54 c.p. – lo stato di necessità-. Lo stato di necessità si riscontra quando sorge la necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo non da sé volontariamente causato né altrimenti evitabile, purché il fatto sia proporzionato al pericolo. Una differenza che spicca rispetto alla legittima difesa pur nella somiglianza della formulazione risiede nel fatto che si possa coinvolgere un terzo estraneo che non si qualifica come aggressore ma i cui diritti verranno ugualmente legittimamente lesi in virtù del pericolo imminente e non evitabile con altre modalità che si verifichi un danno grave sia alla propria persona sia ad un’altra persona (c.d. soccorso di necessità). Il pericolo può provenire da qualsiasi fonte: naturale, animale, umana ma non deve essere stato volontariamente cagionato dal soggetto che invoca la scriminante in questione. Inoltre, ulteriore limitazione all’operatività dell’art. 54 c.p. si riscontra nell’impossibilità di invocarla da chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.

Un reato per essere punito non deve soltanto sostanziarsi in un fatto antigiuridico ma deve essere anche colpevole. Le cause di esclusione della colpevolezza, dette scusanti, sono delle situazioni che incidono sul processo di formazione e manifestazione della volontà di un soggetto escludendo che lo stesso possa venire punito pur in presenza di un fatto che rimane penalmente illecito. Attengono all’elemento soggettivo del reato e sono condizioni in presenza delle quali l’ordinamento ritiene di non poter esigere un comportamento diverso dal soggetto agente. Tra queste cause ritroviamo: l’errore inevitabile sulla legge penale. L’art. 5 c.p. afferma che nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale. L’errore determinato dalla mancata conoscenza della legge o da una sua errata interpretazione non può essere invocato quale causa di esclusione della colpevolezza. Questo il principio generale ben riassunto dalla locuzione latina ignorantia legis non excusat. Tuttavia, se questo errore è determinato da una mancata conoscenza inevitabile della legge secondo una parte della dottrina dovrebbe rilevare quale scusante, poiché l’ordinamento non potrebbe esigere un comportamento differente da parte del soggetto agente. Un orientamento giurisprudenziale sostiene che tale scusante potrebbe essere invocata anche dagli operatori del diritto ogni volta che il dettato normativo appaia particolarmente dubbio e/o fumoso.

Rilevano come scusanti il caso fortuito e la forza maggiore. Il caso fortuito ricorre quando si verifica un evento esterno imprevisto e imprevedibile. Mentre la forza maggiore può definirsi come una forza esterna al soggetto invincibile dallo stesso il quale non può che esserne travolto.

Anche il costringimento fisico di cui all’art. 46 c.p. elimina il potere di agire del soggetto il quale si qualifica esclusivamente quale longa manus di chi lo costringe. Risponderà, pertanto, del reato solo quest’ultimo con esclusione della colpevolezza dell’autore materiale in quanto costretto mediante violenza fisica.

Da ultimo, costituisce causa di esclusione della colpevolezza l’errore sul fatto. Gli elementi del fatto che devono essere a conoscenza di un soggetto perché un reato gli sia ascritto a titolo di dolo o, in specifiche ipotesi di legge, a titolo di colpa, sono sia quelli sensibili sia quelli normativi. L’errore è una falsa rappresentazione della realtà che può discendere sia da un’errata percezione della realtà sensibile sia da un’errata interpretazione di una norma giuridica. Se l’errore è determinato da colpa il reato gli verrà ascritto a titolo di colpa se è previsto come colposo dalle norme penali. L’art 47 c.p. parla del c.d. errore motivo che attiene alla fase formativa della volontà del soggetto agente.

In conclusione, le cause di giustificazione escludono l’antigiuridicità del fatto recidendo il contrasto tra lo stesso e l’ordinamento giuridico. Le scusanti incidono sull’elemento soggettivo del reato ed escludono la colpevolezza ma il fatto viene comunque considerato illecito. In entrambi in casi si giunge ad un risultato comune: non assoggettare ad una pena chi tiene una determinata condotta.


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