Antonino Meli, vita di un giurista siciliano di “provincia” del XVIII secolo
A San Marco d’Alunzio, terra d’origine
Sommario: 1. Introduzione – 2. La vita di un giurista feudale settecentesco siciliano – 3. Considerazioni conclusive
1. Introduzione
La volontà dello scrivente di intraprendere la presente stesura ad esito di approfondite ricerche sulla figura di Antonino Meli, è strettamente intrecciata ad interessi personali relativi a studi genealogici e storici condotti negli ultimi anni. La vita del Meli come giurista di “provincia”[1], di una Sicilia remota e lontana dai centri del potere ha da sempre esercitato in me un particolare fascino; senza ombra di dubbio ha giocato un ruolo determinante nell’indagare sulla sua vita, la comune origine familiare che ricade nel borgo collinare di San Marco d’Alunzio[2].
Spinto da un insaziabile sapere sulle “cose antiche”, Istoria antica e moderna della città di S. Marco[3], l’opera più importante del Meli è per lo scrivente fonte di inestimabile valore e approfondimento di studi, in quanto l’autore ripercorre tutta la storia del centro collinare nebrodense. Il manoscritto è costituito da due tomi, con una rilegatura moderna in mezza pergamena ed è attualmente conservato presso la biblioteca dell’Assemblea regionale siciliana; in origine l’autore prevedeva una stampa del proprio lavoro che per diverse motivazioni non vedrà mai la luce. Venne custodito dal figlio, l’arciprete di San Marco, Saverio e rimase nelle disponibilità dei suoi successori ecclesiastici sino al 1835. Nell’aprile del 1880 l’archeologo Antonino Salinas, giunto a San Marco per delle ricerche su alcune iscrizioni latine, annota che il manoscritto è di proprietà di un sacerdote Ignazio Meli probabile discendente dell’autore. In seguito dell’importante opera si perderanno le tracce, subisce uno smembramento in più parti ma nonostante ciò all’indomani del termine del secondo conflitto mondiale la stessa si ritrova ed essere tra le mani di un antiquario palermitano di nome Denaro ed in parte nell’archivio privato della famiglia Ciuppa – Bianco di S. Agata di Militello. Infine il manoscritto verrà ricomposto nella sua interezza e successivamente sottoposto ad un restauro, per poi essere donato dall’On. Annibale Bianco alla biblioteca dell’Assemblea regionale siciliana e lì ancora oggi custodito nella sua forma originale. Si deve ad Oscar Bruno nel 1984, la prima ed unica reale stampa dell’opera con notazioni a margine. Il lavoro di Bruno segna la chiusura di un cerchio editoriale aperto circa due secoli prima, suggellando l’importanza storica e scientifica dell’opera del Meli.
Lo stesso autore nella sua vita focalizzò la propria azione di uomo di legge, all’interno dell’ambito del diritto ecclesiastico e feudale; egli visse intensamente tale periodo e perfettamente integrato nel tessuto sociale dell’élite amministrativa della cosa pubblica della contea di San Marco ne divenne assoluto protagonista. Mente brillante e pertanto conscia dei possibili stravolgimenti che potevano occorrere allo status quo della rigida società siciliana, non è azzardato ipotizzare che intuì il progressivo declino del feudalesimo verso un suo inesorabile e definitivo tramonto[4].
Nelle pagine che seguiranno ne ho analizzato la vita mediante scritti di suo pugno, lettere e la sua opera magna; un’attenta lettura e ricerca hanno reso possibile snocciolare gli aspetti più rilevanti dell’esistenza di un giurista esperto tanto nella materia canonica quanto in quella civilistica, divenuto un eccezionale cronista storico dei suoi tempi.
2. La vita di un giurista feudale settecentesco siciliano
Un atto degli ultimi anni del secolo XV[5], fa menzione di due aromatari[6] che trasportano i giudei da S.Marco a Messina in tre differenti imbarcazioni: Antonino e Filippo Meli[7]. Nel 1498, in uno dei “Capitoli di concordia” compare come testimone un nobilis Franciscus de Meli, proseguendo la lettura del volume l’autore descrive la figura di un suo avo materno Ercole Mondello, giurista anch’esso che aveva potuto studiare a Roma insieme al futuro cardinale Carlo Borromeo nella prestigiosa scuola di Camillo Plauzio. Un altro avo della linea materna del Meli, tale Rodrigo Mondello era stato membro del consiglio generale del regno durante il vicariato del conte Vincenzo Filangeri. Continuando con lo scorrere dell’albero genealogico della famiglia nella seconda metà del secolo XVII compare come doctor iuris Giuseppe Meli, padre del nostro autore[8]; numerosi sono i volumi che quest’ultimo lasciò in eredità al figlio, su cui lo stesso, è presumibile, poté studiare e perfezionare la propria preparazione giuridica.
Non è possibile stabilire la data di nascita né tantomeno quella di morte, poiché i registri dei battesimi e dei defunti contenuti nell’archivio dell’arcipretura di San Marco sono andati in gran parte perduti; non è da escludere che egli sia nato forse a San Fratello, paese d’origine materno[9]. Siamo a conoscenza, tramite la sua opera, che il padre morì nel 1713 a Capri Suso in casa del fratello sacerdote e che in quell’anno l’autore doveva essere ancora di minore età. Nel 1723 era sicuramente maggiorenne ed esercitava già la professione di legista, proprio in tale data iniziano una serie di contenziosi tra il nostro giurista e l’arciprete di San Marco; quest’ultimo richiedeva l’annullamento della concessione di una bottega a censo vitalizio in favore del Meli, concessagli dai procuratori della chiesa dell’Aracoeli. Più tardi, tra il 1767 e il 1768, lo troviamo a postillare alcune sue tesi circa i diritti di usurpazione dei privilegi da parte dell’arciprete del borgo aluntino, avvalendosi dei libri delle registrazioni dei matrimoni della chiesa madre e delle altre parrocchie. Qui si nota come il registro dei sui scritti sia mutato, diventando più tecnico e forbito facendo presupporre che visse una fase di maturazione non solo come avvocato e ma soprattutto come giurista; ad ogni modo tali sue disquisizioni perdureranno con un’ampia produzione sino al 1772 e ’73 anni in cui può essere ipotizzata la morte dell’autore[10].
La sua carriera come causidico prima e avvocato poi, si caratterizzò per una strenua difesa dei diritti delle parrocchie, in contrasto con le usurpazioni perpetrate dall’arciprete di San Marco; egli stesso descrive come nel 1732 intervenne in loro favore, con una orazione pubblica, presso la regia magna curia. Nel 1739 ricoprì il prestigioso incarico di “capitano giustiziere” delle terre della contea di San Marco ed è proprio in quest’anno che si verificò il terremoto che colpì gravemente tutti i Nebrodi; anche in tale frangente, il Meli, si contraddistinse nell’aver dato pronta assistenza agli sfollati. Negli anni ’40 del XVIII secolo i Filangeri, nutrendo sempre più fiducia nel suo modus operandi circa l’amministrazione della giustizia gli affidarono diversi compiti amministrativi di primo piano del loro feudo[11]. Nel 1743 durante il periodo in cui il tribunale arcivescovile si era trasferito a San Marco, per via di una epidemia di peste scoppiata nella città dello stretto, venne nominato “assessore” della corte ecclesiastica[12]. Tale ultima carica rappresenta l’apice della carriera da amministratore feudale raggiunta dal Meli, il quale grazie anche a tali incarichi ebbe la possibilità di intessere una fitta rete di amicizie con gli intellettuali e studiosi del diritto del tempo sia locali che non[13]; documentate e certe sono le corrispondenze con Francesco Testa, arcivescovo di Monreale e l’abbate primate Antonino Magrì del monastero di Fragalà a Frazzanò.
Particolari risultano essere le vicende strettamente familiari del giurista aluntino che viene schedato dal Salinas come ecclesiastico[14] sebbene sposato con Angela Artino, oriunda come sua madre di S. Fratello. La coppia ebbe cinque figli, l’unico maschio Saverio fu sacerdote e tre su quattro delle figlie femmine presero i voti per divenire monache. Emerenziana Meli divenne pertanto l’unica sua figlia destinata a diventare moglie, sposandosi con Bartolomeo Costantino di Mirto; il nostro giurista pattuì con quest’ultimi un accordo e cioè che il loro secondogenito maschio, Ignazio, dovesse “crescere in casa mia così come a suo foglio” adottando de facto il nipote e imponendogli de jure il cognome Meli così da garantirsi la discendenza familiare[15].
3. Considerazioni conclusive
Quella di Antonino Meli era indubbiamente una personalità intellettualmente vivace e versatile, fornita di sottili quanto argute conoscenze giuridiche che si andavano a fondere con una consumata esperienza di pratiche notarili e amministrative.
L’arco dei suoi interessi non si fermava solamente al diritto ma spaziava dalla storia fino all’archeologia, era infatti un infaticabile studioso di antichi documenti nei vari archivi siciliani sia per lavoro che per compiti di governo per conto dei Filangeri ma si dilettava altrettanto nel ricercare iscrizione classiche nell’intera contea di San Marco. Il contributo storico, attraverso la sua opera magna, lo consacra come un importante testimone del passato del borgo aluntino e non solo.
Allo studioso e giurista Meli sento di essere riconoscente moralmente poiché seppe indagare su vicende e fatti assai distanti dal periodo in cui visse ma che furono magistralmente studiati, analizzati e infine messi per iscritto per permettere a chi, come me, secoli dopo abbia interesse di scriverne e tributarne la memoria rappresentando un’autentica luce nelle buio che si cela nei meandri della storia.
[1] Tale definizione esemplifica la figura del Meli che esercitò la sua carriera di giurista in un ambito geografico confinato alla contea di San Marco; lo stesso non può dirsi ad esempio di un suo, quasi contemporaneo, concittadino aluntino ovvero Felice Ferraloro. Quest’ultimo, esponente di una delle famiglie dell’aristocrazia locale, fu valente magistrato nel centro del potere dell’amministrazione della giustizia in Sicilia, ovvero la Magna Regia Curia- la Gran Corte – supremo tribunale del regno con sede a Palermo. Raggiunse il massimo grado rappresentato dalla carica di maestro giustiziere, che corrispondeva alla figura di presidente dell’organo collegiale. La Magna Curia aveva competenze d’appello su tutte le cause civili e criminali, e competenza esclusiva in primo grado per i delitti di lesa maestà e per le cause feudali. Per approfondimenti sul giudice Ferraloro si veda O. BRUNO, trascrizione del manoscritto di ANTONINO MELI, Istoria antica e moderna della città di S. Marco, Ms. (sec XVIII, Biblioteca dell’Archivio Storico Messinese, Società Messinese di Storia Patria, Messina 1991.
[2] San Marco d’Alunzio, comune dei Nebrodi, probabilmente già abitato in età preellenica, conserva tracce di ogni epoca della storia siciliana, dalla colonizzazione greca, compiutasi tra il VII e il IV secolo a. C., all’era romana in cui divenne Municipium Aluntinorum. O. BRUNO, Alunzio-La leggenda delle origini. Contributo allo studio delle relazioni tra Sicilia e mondo miceneo in età micenea, e tra siculi e sicelioti nel VI-V sec. a. C., in Archivio Storico Siciliano, Serie III, Vol. XIV, Società Siciliana di Storia Patria, Palermo 1963, pp. 81-158. Per la sua posizione strategica fu una roccaforte bizantina, cui poi i Normanni posero il nome di San Marco. Roberto il Guiscardo vi fece erigere il Castello, i cui ruderi dominano ancora dal punto più alto del paese. Divenne feudo in età aragonese, concesso da re Martino ad Abbo Filingeri nel 1398: da allora la storia di San Marco si fonde con quella di questa famiglia, sotto l’egida della quale si fondarono diversi ordini religiosi e furono edificate numerose chiese; si tramandava che «la famiglia Filingeri era in Sicilia già sin dal tempo dei Normanni, e che tra i cavalieri che assistettero all’incoronazione di Ruggero I sia stato un Tancredi Filingeri». V. SPRETI, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Edizione Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana, Milano 1928, ristampa anastatica Forni, Sala Bolognese 1981, vol. III, p. 175.
[3] L’importanza di tale opera ha aiutato lo scrivente nel ricostruire il proprio albero genealogico di famiglia, avendo come “testimone” d’eccezione uno studioso del calibro del Meli che ha mirabilmente compiuto un opera di ricerca sulle gens aluntine riuscendo a risalire a matrimoni e nascite di antenati vissuti tra il secolo XIV e il XV.
[4] Il diritto feudale siculo visse la sua ultima stagione nel XIX secolo, epoca che segnò inevitabilmente il suo decadimento; in Sicilia infatti la costituzione “inglese” del 1812 disegnata da Lord William Bentinck, notevolmente influenzata dai baroni e promulgata con riluttanza dal reggente Francesco di Borbone, sancì l’abolizione dell’istituto giuridico feudale.
[5] L’atto in questione è un ordine di pagamento emesso dal governo vicereale di Fernando de Acuña, è proprio sotto il suo governo che si attuò l’espulsione degli ebrei in Sicilia. Il 1492 può essere definito l’annus horribilis per gli ebrei siciliani, l’anno in cui una fiorente comunità, si trovò per regio decreto sconfessata nella sua sicilianità. Un editto che cancellò definitivamente dalla Sicilia gli Ebrei che definivano questa terra come Promessa. Per approfondimenti sul tema si veda ITALIA JUDAICA Gli ebrei in Sicilia sino all’espulsione del 1492, Atti del V convegno internazionale a Palermo, 15-19 giugno 1992, Ministero per i beni culturali e ambientali ufficio centrale per i beni archivistici, 1995.
[6] Gli aromatari, in Sicilia, erano molto potenti già nella metà del XIV. In una terra che era soventemente flagellata dalle pestilenze, in cui non vi erano né servizi igienici né norme sanitarie, rappresentavano un punto di riferimento per medici e malati. Il loro prestigio era tale da renderli profondamente radicati nel tessuto umano e urbano della società siciliana. Per approfondimenti sul tema si veda D. SANTORO, Profili di speziali siciliani tra il XIV e il XVI secolo, Mediterranea Ricerche storiche, Palermo Anno IV – Aprile 2007.
[7] Filippo Meli, seguendo l’albero genealogico redatto dallo stesso autore nella sua opera Istoria antica e moderna della città di S. Marco, prende in sposa donna Apollonia Zito sorella del più famoso Vincenzo gentiluomo di Capri Suso; quest’ultimo a sua volta era il marito di donna Beatrice Filangeri dei conti di San Marco. O. BRUNO, trascrizione del manoscritto di ANTONINO MELI, op cit., pp. 148 – 149.
[8] Quest’ultimo era sposato con Angela Mondello di San Fratello; dalla loro unione ebbero oltre ad Antonino, ultimogenito, altri tre figli maschi Ignazio, Marco Antonio e Rodrigo tutti e tre sacerdoti ed una figlia Anna monaca di clausura. BRUNO, trascrizione del manoscritto di ANTONINO MELI, op cit., p. 149.
[9] Come visto anche i Mondello, famiglia materna dell’autore, ricoprivano da parecchi secoli cariche pubbliche amministrative e giudiziarie di rilievo facendo pertanto ascriverli tra i membri dell’aristocrazia di toga del borgo di S. Fratello.
[10] Al foglio 267 della sua opera magna l’autore con una grafia minuta e irregolare continua con le sue postille. Possiamo prendere come probabili queste date come quelle di morte del giurista in quanto successivamente non vi è più alcuna traccia della sua azione come giurista.
[11] Nel 1740 venne designato dai conti Filangeri come sovraintendente nei lavori di costruzione della chiesa sacramentale della Marina di Torrenova ed ancora nel 1746 fu tra i giurati che curarono la costruzione e successiva installazione della campana con annesso orologio della chiesa matrice.
[12] In occasione dell’epidemia di peste che colpì la città di Messina nel 1743 scomparve il 71,6%, della popolazione cittadina: grazie al doppio censimento operato dalle autorità locali all’inizio del morbo e un anno dopo la sua cessazione, sappiamo che da 40.321 abitanti Messina scemò a 12.480. Per approfondire il tema si rimanda al testo di C. CALOGERO, Fonti per lo studio della peste di Messina del 1743, Messina, 1993.
[13] Numerosi e frequenti sono i soggiorni messinesi e palermitani del giurista, i quali erano dettati sia per adempiere le sue funzioni lavorative di avvocato sia per le sue azioni amministrative. O. BRUNO, op. cit., pag. 21.
[14] Facile ipotizzare ad un mero errore dell’archeologo dovuto al fatto che i tre fratelli del Meli furono tutti sacerdoti della contea di San Marco.
[15] Ignazio Meli Costantino, benché canonico come vuole il De Luca, esso risultava essere sposato con Felice Cardinale e padre di due figli; morì giovanissimo nel 1784 e la moglie in seguito contrasse un altro matrimonio.
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Agostino Zito
Dopo aver conseguito la laurea magistrale in giurisprudenza, marzo 2019, presso l'Università degli studi di Enna "Kore" ha condotto studi approfonditi sulla storia del diritto medioevale e moderna ed in particolar modo sul periodo costituzionale e rivoluzionario della Sicilia nell'ottocento, ulteriori temi di ricerca sono stati lo ius feudale siculo e il diritto nobiliare.
Da gennaio 2020 è assistente presso l'Università degli studi di Messina in Storia del diritto, da Ottobre 2022 è dottore di ricerca con borsa presso il dipartimento di Scienze Politiche, cattedra di Storia delle Istituzioni sempre all'interno dell'ateneo peloritano.
Dalla primavera del 2019 ricopre il ruolo di consulente legale presso la Società agricola Zito, storica azienda agricola di famiglia.
Post laurea ha seguito un master in english for business a Cambridge (UK), giugno - luglio 2019; un master part - time sul diritto agroalimentare presso la business school del Sole 24 ore sede di Milano, ottobre - dicembre 2019; ed un E- Course in agribusiness erogato dalla University of Adelaide (Australia), marzo 2021.
Da settembre 2021 è autore di contributi scientifici con la rivista Salvis Juribus.
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