Apologia del suicidio o inno alla libertà? Nell’attesa della pronuncia della Consulta sul caso Antoniani-Cappato

Apologia del suicidio o inno alla libertà? Nell’attesa della pronuncia della Consulta sul caso Antoniani-Cappato

Con la presente trattazione si vuole offrire uno spunto di riflessione intorno alla vicenda attualmente al vaglio della Corte Costituzionale in materia di fine vita nel noto caso Antoniani-Cappato.

Pare opportuno prendere le mosse da alcune precisazioni di carattere giuridico.

Anzitutto, occorre chiarire il criterio discretivo tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva.1

L’ordinamento italiano riconosce e ammette, ormai anche in via legislativa, l’eutanasia passiva.2

Dopo anni di stenuo dibattito, sociale prima che dottrinario e giurisprudenziale, il legislatore è intervenuto a disciplinare la materia del fine vita, autorevolmente definita quale ambito privo di soluzione univoca.3 Nonostante, infatti, la legge sulle DAT (disposizioni anticipate di trattamento) abbia recepito a livello normativo quel che già il diritto vivente aveva ammesso, come attesta -su tutte- la nota pronuncia sul caso Welby, non si è affatto placata la disputa tra chi ha accolto la normativa con favore e coloro che, invece, ritengono l’opzione legale erronea sotto plurimi punti di vista.4

Ad oggi, tuttavia, è dato considerare legittima l’eutanasia passiva, cioè l’attività interruttiva del trattamento terapeutico di mantenimento in vita del paziente. L’ammalato che versa in condizioni di completa insufficienza fisica, una volta operato il distacco dai macchinari, viene lasciato a confrontarsi con la patologia senza interventi estrinseci: la malattia si sviluppa, conducendo in via naturale alla morte.

Proprio in tale eziologia si sostanzia la ratio giustificativa della pratica eutanasica passiva. Vera causa della morte è qui, infatti, dal punto di vista causale, la malattia in sé e non anche l’intervento interruttivo compiuto dall’uomo, come è -invero- nell’opposto caso della eutanasia attiva.

L’azione di distacco o interruzione dell’alimentazione artificiale non determina un’intrusione sul processo causale-deterministico che conduce all’evento morte; piuttosto, l’intervento esterno rimuove un quid innaturale, andando a ripristinare l’unica eziologia possibile in rerum natura, quella della malattia, cosicché la degenerazione patologica conduce alla morte del paziente.

Del tutto diverso, invece, il fenomeno cosiddetto della eutanasia attiva.

Essa si sostanzia nella pratica attiva, appunto, di intervento volto a realizzare una soluzione estintiva dell’esistenza del soggetto.

Si tratta di una vera e propria azione che, ingerendosi nella vita del paziente, la va ad interrompere, ponendosene quindi come unica causa eziologica. Non la malattia a porre fine alla vita, ma l’atto compiuto in concreto (l’iniezione di pentobarbital sodium che Antoniani ha spinto all’interno del proprio corpo, attraverso il morso inferto alla cannula innescante l’iniezione).

La predetta condotta può estrinsecarsi in duplice modo: suicidiaria, se realizzata interamente per mano propria, oppure di sostegno o agevolazione al suicidio se compiuta da un diverso soggetto. In quest’ultimo caso sorgono i problemi intorno alla responsabilità penale del terzo interventore, medico o meno che sia.

Posta, pertanto, la preliminare definizione di eutanasia attiva e passiva, occorre analizzare la ratio sottesa all’articolo 580 c.p., al fine di comprendere la sostanza del dibattito attuale, sviluppatosi attorno alla vicenda di specie, tristemente nota.

Relativamente alla ratio della norma è dato registrare la sussistenza di due distinti orientamenti. Un primo, di matrice storica, riconosce nello scopo dell’art. 580 c.p. la tutela del diritto alla vita; la formulazione legislativa si porrebbe a presidio di siffatto bene che, per quanto non sia mai richiamato espressamente dalla Carta Costituzionale, risulta implicitamente protetto da ogni altro diritto dell’uomo quale suo logico antecedente.

Una diversa impostazione, invece, di cui si fa portavoce la Corte d’Assise d’apello di Milano nella ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale nel caso Antoniani, considera la norma presidio della libertà personale. 5 Questa, infatti, stretta in un nodo gordiano con il diverso diritto alla vita, si declinerebbe nella determinazione autonoma al suicidio.

A sostegno dell’assunto, il Collegio pone la considerazione strutturale della fattispecie. La condotta di cui al delitto di istigazione o aiuto al suicidio è di tipo misto alternativo e risulta tripartita nell’elemento oggettivo, potendosi estrinsecare nell’attività di determinazione o rafforzamento del proposito, da un lato, e alternativamente alle prime due può consistere nella mera agevolazione dell’esecuzione.

La predetta tripartizione dell’elemento oggettivo del reato si affianca a una dicotomia di scopo (vita/libertà di autodeterminazione) e segna un novum interpretativo dirompente.

La richiamata scissione tra le condotte segna il potenziale avvio di una nuova frontiera in materia di fine vita: da un lato, chi determina o rafforza una volontà suicidiaria, azioni entrambe sanzionate per tutelare la libertà di autodeterminazione del soggetto; dall’altro, colui che agevola l’esecuzione della volontà, contribuendo causalmente a provocare la morte, facendo scattare la protezione del diverso bene vita.

Qualora la Consulta dovesse aderire alla tesi accolta dai Giudici milanesi, dichiarando l’incostituzionalità parziale dell’art. 580 c.p., si perverrebbe al possibe riconoscimento dell’eutanasia attiva, cioè della disposizione diretta della propria vita.

Il 580 c.p., si legge nella ordinanza dello scorso 14/02/2018, almeno nella parte in cui punisce l’agevolazione nella esecuzione non mira ad evitare che terzi si insinuino nel processo deliberativo alla determinazione suicidiaria di un altro soggetto, generandolo o rafforzandolo, interferendo con il fisiologico formarsi della libertà personale, ma salvaguarda, piuttosto, l’indisponibilità della vita.

Il legislatore del trenta, proseguono i Giudici, avrebbe preso in tal modo posizione contro il suicidio, connotato di un ontologico disvalore che si accresce laddove altri si ingeriscano nel suo proposito e che fa da specchio a una cultura totalitaria e non secolarizzata.

Nell’ordinanza si prosegue dando conto della ulteriore base giuridica della richiamata indisponibilità della vita, individuata nell’articolo 2 Cost., quale presupposto di esercizio della propria personalità, oltreché canone di solidarietà; nell’art. 27, comma 4, Cost., che rifiuta la pena di morte e nell’art. 5 c.c., che impedisce il mercimonio di sé.

Epperò, il suddetto principio deve essere bilanciato con altri diritti primari.

Come dimostra, infatti, l’articolo 32, comma 2, Cost. nell’applicazione ricevuta in via giurisprudenziale dal richiamato caso Welby in poi, l’indisponibilità può essere contemperata con principi pari rango, espressione di altrettanto irrinunciabili esigenze.

Tra queste, si annovera il diritto a una morte dignitosa, ritiene il Collegio, qualora non possa aversi una vita di tal fatta. Il 580 c.p. si porrebbe, quindi, in contrasto con la Costituzione proprio nella parte in cui viola il diritto di dignità umana, ricavabile dalla stessa Carta, sanzionando la condotta di chi aiuti un soggetto che ritiene intollerabile il proprio vivere a porvi fine, così ottenendo una morte dignitosa, secundum eum.

Per le medesime ragioni, già i Pubblici Ministeri di Milano avevano richiesto un’additiva di principio alla Corte Costituzionale, seppur argomentando differentemente, e avevano invocato la questione di legittimità. Il G.I.P. Gargiulo, tuttavia, ha allora ritenuto di non poter accogliere l’istanza, posto che la rimessione alla Consulta è possibile soltanto in presenza di rime obbligate e nel caso di specie il Giudice non ne ha ravvisate, stante l’assenza nell’ordinamento di un diritto a una morte dignitosa. Conseguentemente, l’unica pronuncia possibile si sarebbe sostanziata in un’inammissibile valutazione discrezionale della Consulta; non consentita, poiché si sarebbe trattato di una positivizzazione dal contenuto normativo imposto a tutela di diritti costituzionali non (o non ancora) riconosciuti.

Tale rilievo consente di evidenziare la necessità urgente di un intervento legislativo, che non si limiti, come quello di recente conio, a prendere atto degli approdi raggiunti dalla giurisprudenza, ma si imponga, quale rappresentativo del sentire sociale e dell’intervenuta evoluzione culturale, nelle valutazioni di opportunità politico criminale concertnenti la materia del fine vita. Resta, infatti, del tutto esclusa dalla legge sulle D.A.T. del 2017 la considerazione di casi analoghi a quello di Antoniani, dunque casi in cui l’eutanasia richiesta è attiva e non consiste nel mero rifiuto delle cure.6 La norma non esamina la possibilità di una disposizione diretta della propria vita, limitandosi a riconoscere la sola disposizione indiretta, cioè operata a mezzo del rifiuto o di interruzione delle cure. Non se ne occupa proprio per via del principio di indisponibilità della vita, che non consentirebbe altro che l’eutanasia passiva.

In casi come quelli di Dj Fabo, si rileva, il soggetto è totalmente lucido, nel pieno delle proprie facoltà intellettive e cognitive, intendendo tutto e potendosi autodeterminare, dunque scegliere pro bene suo. Quel di cui difetta per realizzare un suicidio ordinario è proprio la indipendenza e il controllo fisico dei movimenti; quel che, invece, non consente di interrompere la terapia di mantenimento in vita è la scelta volontaria di evitare enormi e ulteriori sofferenze derivanti dalla disposizione indiretta della propria vita.

Di talché, per soddisfare il proposito suicidiario, si rende opportuno l’intervento di un altro soggetto ausiliante.

La nuova frontiera giurisprudenziale, invocata dalla Corte di Milano, giunge a interpretare l’articolo 13 Cost. quale presidio del diritto di decidere autonomamente come e quando morire.

Dal diritto alla libertà personale deriva un limite anche allo Stato e alle Auotorità, in genere, cui si fa divieto di ingerenza nella sfera giuridica privata e più intima dei consociati.

Accanto alla predetta base giuridica costituzionale, i Giudici rimettenti richiamano, altresì, due norme della CEDU, specificamente gli articoli 2 e 8 della Convenzione, volti a tutelare la vita in quanto tale e il diritto al rispetto di quella privata e familiare.

Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo (caso Pretty/U.K. e Gross/Svizzera, in particolare) essi vengono interpretati in senso massimamente estensivo per consentirne il più ampio raggio di operatività.

Sicché, a mente dei Giudici rimettenti, la Corte dovrebbe dichiarare la illegittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p., poiché, in via principale viola il principio di offensività nella parte in cui esso subordina l’incriminazione penale alla esistenza di un bene giuridico da proteggere attraverso lo strumento penale, circostanza che in tal caso mancherebbe, sussistendo anzi un diritto da garantire.

Il principio di indisponibilità della vita, la sua base giuridica e il significato alternativo della norma

Si rende opportuno, quindi, sviluppare più nel dettaglio il principio della indisponibilità della vita, con particolare riferimento alle fonti dello stesso. Recuperando le sopra menzionate argomentazioni di ordine giuridico poste tradizionalmente a base dell’assunto dovere di vivere, si passerà poi a fornire motivi a sostegno dell’opposta tesi del diritto a disporre di sé per ottenere una morte dignitosa.

Come è noto, a base dell’indisponibilità viene posto proprio l’articolo 580 c.p., che incrimina la condotta di supporto al suicidio, morale o materiale. L’ordinamento stigmatizza qualsiasi ingerenza del terzo nella determinazione suicida altrui e ciò avverrebbe per presidiare il diritto alla vita, bene giuridico che la norma intende tutelare.

A sostegno della teoria dell’indisponibilità muoverebbero, per vero, una pletora di articoli aventi rango diverso, per primo l’art. 2 della Costituzione. Il principio solidaristico imporrebbe ai consociati una sorta di dovere di vivere, dovendo quelli non rinunciare alla vita, in nome di un interesse generale a permanere in esistenza.

La ragione deve individuarsi nella considerazione che il suicidio rappresenta il fallimento dell’Istituzione, che resta sconfitta nella misura in cui non ha saputo riconoscere e risolvere i bisogni del consociato; sicché, potendo il diritto scegliere se essere “una corruzione del comune sentire o uno strumento attraverso cui scrutare un orizzonte più profondo”, lo Stato-legislatore si pone in modo ambivalente nei confronti del suicidio. 7 Verso il suicida assume un atteggiamento neutrale, non supportandolo né prevedendo sanzioni per il fallito tentativo. Una diversa soluzione sarebbe certamente di dubbia opportunità, attesa la responsabilità che l’ordinamento assume su di sé di fronte a simili accadimenti. Tuttavia, nei confronti degli altri cives che abbiano a intervenire, ne vieta la condotta sotto qualsiasi forma. Lo Stato deve, perciò, approntare politiche sociali di cura e assistenza, ma il cittadino deve affidarsi e fidarsi delle capatìcità istituzionali, non potendo invocare una soluzione totale, ma non risolutiva, quale è porre fine alla propria esistenza e proprio in ciò si sostanzierebbe il dovere di solidarietà imponente la vita alla persona.

Ulteriore fonte costituzionale dell’indisponibilità della vita sarebbe, di poi, individuabile nell’art. 27, comma 4, Cost. Dal divieto della pena di morte, a contrario, potrebbe derivarsi la protezione assoluta del diritto alla vita, insopprimibile e imbilanciabile con altre esigenze, ancorché di carattere generale come la pubblica sicurezza.

L’articolo 5 c.c., infine, integrerebbe la base giuridica primaria, sancendo l’impossibilità di disporre di sé nel caso in cui ciò comporti una diminuzione permanente della integrità fisica o quando ciò avvenga in violazione di parametri di legge, se non in contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume.

Accanto al 580 c.p., si assume significativo anche il diverso 579, stesso codice, che vieta l’omicidio del consenziente. Dalla constatazione dell’irrilevanza scriminante del consenso prestato dal suicida sarebbe derivabile la non bilanciabilità del diritto alla vita con altri diritti; su tutti, quello a una morte dignitosa. 8

Come rileva il GUP di Milano nell’ordinamento non esiste alcun diritto immanente ed esigibile a por fine alla propria vita, nemmeno quando essa sia divenuta intollerabile. 9

Le predette argomentazioni consentono al Giudice di rigettare la richiesta di archiviazione e di dar corso al processo nei confronti di Marco Cappato, accusato dapprima di un duplice reato: l’istigazione al suicidio, da cui sarà successivamente prosciolto, e l’agevolazione dello stesso.

Il contributo fornito dal Radicale, infatti, si è sostanziato nella mera condotta di accompagnamento dell’Antoniani presso la clinica svizzera dove il dj ha trovato la morte. I giudici hanno rilevato come il proposito suicidiario si fosse già inculcato nel giovane, ancor prima dell’incontro con Cappato e, tuttavia, tanto è sufficiente affinché, interpretando la norma come sin qui descritto, la contestazione penale prosegua, culminando nell’invocata pronuncia della Consulta, prevista per il prossimo ottobre. 10

Alla luce delle argomentazioni a sostegno dell’indisponibilità della vita quale principio immanente dell’ordinamento, si procede ora a una demolizione analitica di tutti i motivi addotti, al fine di dimostrare, sperabilmente, l’irragionevolezza della tesi.

Anzitutto, con riferimento all’articolo 2 Cost., deve rilevarsi che la ragione solidale risulta incapace di limitare i diritti più intimi del singolo quando ad essi non si contrappongano motivi di necessità e urgenza, oppure bisogni generali, diffusi e irrinunciabili.

Nel caso di specie, invero, si tratterebbe di un’ingerenza indebita dello Stato che, in ragione delle proprie incapacità o a fronte di limiti insuperabili (quali sono quelli della medicina nel caso di patologie irreversibili) imporrebbe al singolo di soffrirne i risvolti, impedendogli in modo ingiustificato e quindi abusivo di esercitare il proprio diritto fondamentale, di libertà.

Passando, invece, a considerare l’articolo 5 del Codice Civile, occorre muovere da una logica sistematica. Tale articolo si inscrive, infatti, in un complesso di norme regolatorie dei rapporti patrimoniali e pare ragionevole ritenere che l’intenzione del legislatore volgesse esclusivamente a impedire una commercializzazione della persona.

Si pensi al mercimonio di sé, pratica diffusa nelle vendite di organi o di assoggettamento volontario a lesioni corporali in cambio di utilitá economiche. Non sembra, pertanto, essere il diritto alla vita in sé il bene che la norma si dà carico di proteggere; piuttosto, l’immoralità ed antigiuridicità sottesa allo scambio persona-denaro, in tal senso certamente espressione di un principio generale dell’ordinamento.

Quanto, infine, alla demolizione degli argomenti a sostegno della tralatizia interpretazione del richiamato art. 580 c.p., e quindi con riguardo alla condotta del terzo che si ingerisce nella diversa suicidiaria, pare opportuno aderire alla tesi per cui la ratio incriminatrice della norma è quella di presidiare il diritto di libertà personale, fuori dal caso dell’intervento in esecuzione.

Sussiste nell’ordinamento un duplice divieto di ingerenza nella libertà di autodeterminazione; ve n’è uno, costituzionale ex art. 13 Cost., che chiameremo verticale e un secondo, derivabile dall’art. 2 Cost. Ed espressamente sancito dall’art. 580 c.p., che definiremo invece orizzontale.

Il limite verticale si rivolge lato sensu alla Istituzione, cui pone un freno, arginandone l’autoritatività: lo Stato, in ogni Sua espressione, non deve intervenire nelle vicende libere e indipendenti del soggetto. Esso gode della massima libertà nel disporre di sé, fermi i limiti tassativi, precisi e determinati che ciò consentono in nome di necessità d’ordine generale.

Il limite orizzontale, invero, si rivolge ai consociati. Essi sono, in tal modo, estromessi da ogni possibile incidenza nella determinazione suicidiaria altrui; non devono né occuparsi di formarne il proposito, né di rafforzarlo, men che meno può autorizzarsi o tollerare qualsiasi forma di ingerenza nella fase attuativa del convincimento.

Alla luce della dicotomia vetitoria illustrata, non è dato riscontrare alcun interesse d’ordine generale che potrebbe ritenersi prevalente sulla libertà di disporre di sé e prevalente sul diritto alla vita, inteso nella sua più lata accezione.

Si è già osservato che l’ordinamento mantiene verso il suicidio un atteggiamento neutrale; certo, non può incentivarne il ricorso, né assecondarlo, ma altrettanto non può impedire la sua realizzazione.

E ciò, in effetti, accade: chi decide di togliersi la vita, fuori dai casi in cui si riesca a intervenire in tempo ad evitarlo, lo fa. Resta il dolore dei soggetti con cui quegli aveva relazioni interpersonali e il rammarico dello Stato per aver perduto un proprio consociato, ad attestazione del fallimento dell’istituzione.

Ne consegue, pertanto, che l’assunto dovere a mantenersi in vita non trova spazio nel nostro ordinamento, poiché non sorretto dall’unica ragione che la Costituzione consente per limitare un diritto: la presenza di un interesse preminente che legittimamente possa limitarne l’esercizio libero.

Quanto sostenuto è dimostrato, peraltro, dalla disciplina del consenso in materia medica, particolarmente. L’ordinamento rifiuta ogni forma di ingerenza, anche pro bono, compiuta in violazione della libertà di autodeterminazione. E lo fa al punto di sanzionare il medico che pur agendo nell’interesse esclusivo del paziente, volendogli salvare la vita o la salute, in genere, violi le di lui disposizioni, quindi le opinioni, circa l’intervento curativo.11

Il diritto alla salute, come quello alla vita, sono avvinti da uno stretto legame con il diverso diritto di libertà, tanto che la Carta Costituzionale nell’affermarne il riconoscimento si preoccupa di escluderne le limitazioni più che formalizzare le modalità di attuazione, libere -appunto- nel rispetto dei limiti fissati da leggi ragionevoli.

Diversa considerazione deve, invece, riservarsi al limite orizzontale espresso dall’art. 580 c.p. Sotteso alla norma non si stanzia il divieto di suicidarsi, come dimostra l’assenza di sanzioni verso colui che ne fallisce il tentativo, ma la tutela della libera autodeterminazione del soggetto. Questa non ammette forme di condizionamento alieno (altro da sé), indipendentemente dalla modalità con cui tale intrusione si esplichi (potenzialmente persuasiva, rassicurativa o materialmente agevolante il suicidio).

Lo Stato sanziona qualsiasi condotta che finalisticamente sia volta ad eliminare la vita del soggetto passivo, in disparte le modalità con cui ciò avviene, ma non ha affatto in mente di pretendere dai soggetti la permanenza in vita. A sostegno dell’assunto si pongono, altresì, i seguenti argomenti.

Per primo il dato normativo-sistematico. Il capo I del Titolo XII del Codice Penale tratta dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale. Qui si sanzionano omicidio e lesioni, agli articoli 575 c.p. e 582 c.p.

La deduzione per cui l’art. 580 c.p., pertanto, sarebbe a esclusivo presidio della vita del soggetto passivo non pare del tutto corretta.

La norma non può ritenersi sic et simpliciter volta alla salvaguardia del bene giuridico vita, come sostenuto tradizionalmente, nemmeno nella parte non problematica relativa alla condotta di agevolazione. Dal lato dell’interventore, infatti, la condotta in nulla si distingue da quella che realizza un omicidio, entrambe determinando la morte di un altro soggetto.

La formulazione volutamente ampia della previsione ex art. 575 c.p., infatti, potrebbe garantire la copertura sanzionatoria del delitto aiuto al suicidio.

Cagionare è verbo che può assumere una pletora di significati, potendo consistere in condotte attive, omissive, tutto ciò che sia in qualsiasi modo causalmente determinativo del morire altrui, salvo poi a valutarne l’elemento psicologico (ma ad escludere in qualsiasi caso l’invocabilità dell’assenza di intenzione o di colpa sta il principio dell’irrilevanza scusante del consenso).

L’art. 580 c.p. finirebbe così per essere una mera superfetazione normativa, legge vuota nella sostanza. Per questo occorre porsi da una prospettiva diversa per comprendere la portata applicativa della norma: la peculiarità della vicenda di istigazione o supporto al suicidio, il complesso legame di più profili connessi tra loro, la delicatezza di un terreno di confine che scopre l’ordinamento debole, irrigidito nell’atto di non tollerare, ma non poter sanzionare, postula l’approdo a una diversa conclusione.

Il bene-vita è solo la proiezione finale della tutela. Quel che si vuole con l’art. 580 c.p. stigmatizzare è ogni forma di ingerenza esterna nei processi di autodeterminazione del soggetto passivo del reato, tolto il caso della agevolazione materiale nell’esecuzione, senza dubbio posta a tutela della vita, stricto sensu intesa.

In considerazione del già citato nodo gordiano che lega i due diriti di libertà e vita, non è data tutela effettiva dell’uno senza che sia garantita anche l’altra. Può, quindi, sostenersi che per ragioni di ordine sistematico il legislatore abbia ritenuto opportuno concentrare in un’unica fattispecie la stigmatizzazione di ogni tipo di ingerenza del terzo nella cessazione della vita altrui, ancorché la morte venga prodotta in senso naturalistico dallo stesso suicida, la condotta del terzo arrestandosi ad un livello morale di intrusione.

La ragionevolezza della lettura offerta si spiega anche in relazione ad un ulteriore argomento.

Sussiste l’impossibilità di applicare le regole del concorso di persone. Queste, infatti, assolvono la funzione di consentire la risposta penale in presenza di casi in cui l’istigatore del reato rimarrebbe impunito, se si considerasse la sola condotta naturalisticamente determinante l’evento.

Qui la prospettiva è poziore: nessuna responsabilità sarebbe ascrivibile all’istigatore, nemmeno ricorrendo all’istituto del concorso nel reato.

Attesa l’assenza di sanzione verso il suicida, fuori dalla espressa previsione del 580 c.p., si addiverebbe alla impunità totale anche per l’istigatore concorrente. Il legislatore, sicché, introduce l’espressa previsione di responsabilità dell’articolo per ovviare al predetto limite.

Non omicidio in senso stretto l’atto di ausilio nell’esecuzione, poiché a connotare la fattispecie sta l’elemento soggettivo della volontà mortale del suicida e quello oggettivo della sua compartecipazione eziologica nel determinare l’evento. Quest’ultimo fattore, soprattutto, potrebbe comportare difficoltà interpretative e applicative, rischiando di sconfinare in vietate analogie sanzionatorie pur di garantire la risposta punitiva dell’ordinamento, se si volesse ricorrere all’art. 575 c.p.

La rilevata compartecipazione, peraltro, non consente nemmeno l’addebito di cui al 110 c.p. per l’impunità risconosciuta al suicida-persona offesa.

Per convenienza sistematica, perciò, il legislatore riunisce l’intervento fattuale con gli altri due possibili, quelli del contributo morale all’atto eliminatorio.

Lo Stato, in tal modo, conferma il valore della persuasione a livello penale; per quanto terreno di difficile sondabilità, esso resta un aspetto presidiato proprio nel nome del diritto tra i diritti, la libertà, in ogni sua declinazione, ma soprattutto se afferente al diverso diritto di vita.

Rovesciando, infine, il punto di vista si potrebbe anzi ritenere che il 580 c.p. volge nell’interesse del titolare del bene vita a favore del diritto di disporne.

E ciò purché, però, la disposizione avvenga in modo consapevole e non viziato dall’esterno.

Quello che preme al legislatore di scongiurare è la condotta adesiva del terzo al proposito suicidiario del soggetto, grave e quindi duramente sanzionata. Se non può sanzionare il suicida, non tollera che altri subdolamente sfruttino la debolezza del consociato, facendosi scudo di limiti fisiologici del diritto penale. Tali soggetti, infatti, non solo violano il bene vita e la libera autodeterminazione del soggetto passivo del reato, ma in senso più generale si pongono in conflitto anche con i principi base dello Stato di Diritto, che imporrebbero condotte solidaristiche, di sostegno della società e dei consociati, soprattutto quelli più deboli.

I profili di incostituzionalità della tradizionale interpretazione dell’art. 580 c.p.

Espunto il principio di indisponibilità della vita, in adesione alla tesi sopra illustrata, occorre a questo punto dare atto della irragionevolezza e della contraddittorietà che connota la scelta dell’ordinamento di riconoscere solo l’eutanasia passiva e non anche quella attiva, mettendo in luce profili di incostituzionalità individuabili anche oltre a quelli invocati dai giudici di Milano, sopra riportati.

Doverosa appare la precisazione che una apertura simile non significherebbe affatto legittimare la condotta di ausilio al suicidio, né in generale quella di auto eliminazione, dovendo la legge intervenire a disciplinare le ipotesi presupposto e le modalità in cui il ricorso all’eutanasia attiva, quindi al suicidio, anche assistito, si rende irrinunciabile.

Non si tratta, cioè, di legittimare i soggetti ad uccidersi, né di garantire a terzi di partecipare senza responsabilità nelle scelte inauspicabili altrui. Piuttosto, v’è la necessità di regolamentare il caso specifico in cui il suicidio è l’unica garanzia del diritto alla vita e alla libertà.

E’ il caso di Antoniani e di coloro che vertono in condizione di irrecuperabilità fisica, con contestuale assoluta incapacità motoria, pur del tutto coscienti e reattivi.

Persistendo, anzi, nell’attuale considerazione di validità unilaterale della pratica eutanasica, si finisce per realizzare una duplice irragionevole discriminazione: l’una nei confronti dei soggetti sani, autonomi e in grado di potersi liberamente muovere nello spazio circostante; l’altra verso coloro che, ancorché dipendenti da trattamenti artificiali di mantenimento in vita, possono rifiutare le cure, ai sensi dell’art. 32, comma 2, Cost., in attuazione della consentita eutanasia passiva.

L’esito è un trattamento diversificato per casi analoghi, poggiante su criteri discretivi illogici, discriminanti e dunque violativi, quantomeno, dell’art. 3 Cost.

Porre, peraltro, il criterio distintivo tra validità e illecito sul dato formale dell’eziologia effettiva dell’evento morte risulta argomento discutibile se in sé considerato, ma anche se lo si legge nel complessivo orientamento ordinamentale.

L’avvento della giurisprudenza CEDU, infatti, ha spostato la considerazione normo giurisprudenziale dal dato formale a quello sostanziale, riconosciuto quale prevalente. Sicché, un simile approccio, che si arresta alla mera constatazione fattuale del nesso causale della morte, a discapito del diritto a ricevere trattamenti uguali in casi sostanzialmente analoghi, viola la Convenzione e quindi il parametro Costituzionale che, data la natura di norma interposta della Convenzione, la inscrive nel complesso delle fonti interne.

Ma i profili di incostitunzionalità si incrementano dall’idea per cui dal diritto alla vita non sarebbe dato ricavare l’opposto diritto di morire. Gli argomenti sono carattere logico valutativo.

La libertà deve essere garantita dallo Stato in modo effettivo. Pertanto, la protezione istituzionale di quel diritto deve risolversi nel divieto di limitazioni ingiustificate e, altrettanto, nell’approntare misure idonee a garantirne l’attuazione concreta.

Siffatta modalità di intervento di protezione del diritto viene definita attiva, poiché presuppone un compito di segno positivo per lo Stato, che si adopera e realizza una tutela concreta del diritto di libertà personale e della vita.

Soprattutto nel caso in cui un soggetto sia privo della capacità di ottenerne da solo la soddisfazione; si pensi, per l’appunto, a chi non può disporre di sé autonomamente e per cui ricorrere alla eutanasia indiretta significherebbe patire atroci sofferenze, si impone una soluzione differente.

Al fine di non creare discriminazioni tra coloro che possono praticare la strada dell’eutanasia passiva, chi invece non voglia né possa accedervi, come Antoniani, a pena delle atroci sofferenze cui andrebbe incontro e coloro che, autonomi e indipendenti, possono in qualsiasi momento liberamente determinarsi al suicidio.

Sarebbe opportuno positivizzare, quindi, una puntuale disciplina che si dia carico di compiere una tassonomia dei soggetti coinvolti, dei controlli, dei presupposti applicativi e delle modalità di realizzazione del suicidio assistito, in modo da scongiurare quel che ne frena l’ammissione e cioè il pericolo di mortificanti derive applicative.

V’è, infine, un ulteriore profilo rilevante: l’esercizio per viam negationis del diritto.

La negazione del diritto a non vivere postula in via immanente il contrario dovere di vivere.

Si assiste al costringimento nell’esistenza da parte dell’ordinamento. Occorre reagire a un tale assunto aderendo alla tesi per cui il diritto alla vita deve potersi esprimere e per via positiva e per via negativa. Un diritto non è tale, e certamente non è garantito in modo pieno, se non ne viene concesso il non uso. Un diritto di libertà che non possa essere speso in modo libero integra una contraddizione in temrini, rendendo doveroso il suo godimento.

A dimostrazione della veridicità dell’opinione qui espressa, si pongono diversi argomenti.

Anzitutto, il diritto alla salute. Come si è ricordato, infatti, l’effettività della sua tutela si esplica anche attraverso la possibilità di rifiutare le cure.

Anche il diverso diritto di voto, in quanto attività libera e non coatta, consente -sebbene non consigliato- il non esercizio.

Qualsiasi diritto fondamentale della persona è riconosciuto, tutelato e garantito finché occorra un bilanciamento con un ulteriore diritto equiordinato che, esposto al pericolo di un pregiudizio altrimenti, lo renda recessivo e costringa a un contemperamento necessario.

Non sembra dovuta alcuna sicumera per constatare come l’atto suicidiario non produca alcun effetto, almeno diretto, su altri soggetti controinteressati; non potendosi, ovviamente, considerare in termini giuridici i risvolti emozionali ed emotivi, di sofferenza, dei parenti o delle persone legate affettivamente al suicida.

Adottando, pertanto, il modello generale di ragionamento giuridico sulle tutele e sui diritti fondamentali personali di libertà, non si vede quale possa essere la ratio addotta per escludere in concreto la possibilità di accedere alla eutanasia attiva, posto che non paiono sussitere limiti provenienti da interessi a ciò contrapposti per le ragioni sopra descritte.

La pronuncia della Consulta, quindi, si pone come un appuntamento immancabile con il liberalismo che ispira i valori fondanti del nostro Stato di diritto e che impone una svolta evolutiva, stante l’approccio dinamico della Carta, redatta con attitudine magnifica alla duttilità ragionevole.

A persone come Antoniani è impedito in modo totale di esercitare il proprio diritto alla libertà e alla vita. Occorre, quindi, scrivere la parola fine all’ipocrisia in cui verte l’ordinamento, che si fa scudo della sensibilità di soggetti disposti a immolarsi nell’altare dei diritti dell’uomo, affinché questi siano garantiti in modo effettivo e le grida silenti di giustizia, lanciate da familiari ai capezzali di uomini ormai privi di loro stessi, trovino ascolto.

Lo Stato non può sottrarsi al predetto compito e deve colmare le lacune normative ad oggi presenti, nonostante la recente normativa. La soluzione auspicata, che affonda le radici nella teoria giusnaturalista, consente di concludere per l’adozione di strumenti propulsivi che consentano una fruizione libera e senza ostacoli del diritto. Nulla osta dal punto di vista normativo, come si è sopra dimostrato. E nulla deve ostare, in considerazione del principio base del vivere sociale nello Stato di Diritto: se non sussiste alcuna lesione della sfera giuridica soggettiva altrui, né è dato individuare ragioni d’ordine generale alla limitazione, nessun divieto è imponibile ai consociati, potendo solo essere disciplinato il modo di attuazione.


1 Ad oggi, il crinale distintivo tra le due forme di eutanasia sembra ruotare attorno al profilo causale: nella attiva la causa o la concausa della morte si sostanzia nella azione che si compie; nella passiva, invece, la causa della morte va direttamente ricondotta alla evoluzione della malattia, limitandosi il medico a non impedirne il decorso ulteriore con l’interruzione del trattamento di sostegno vitale (“Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento:dai principi alla legge?” Cristiano Cupelli, 13/03/2017 DPC);
2 Legge n. 219/17;
3 Nota è l’espressione di S. Rodotà in materia di fine vita, da Lui definito l’ambito dell’indecidibile in La Repubblica, ed. del 15/02/2008;
4 Sent. Gup n. 2049/2007 del 23 luglio, poi confermata dal successivo caso Englaro dello stesso anno, Cass. Civ. Sez. I n. 21748/07 del 16 ottobre;
5 Ord. n. 1/18 con cui è stata rimessa alla Corte Costituzionale la decisione intorno alla legittimità dell’art. 580 c.p.;
6 Il primo convegno nazionale in materia, “Il BioTestamento. Prime regole sul fine vita. Riflessioni a margine della legge 219/17”, svoltosi a Firenze giovedì 7 giugno nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio è stata un’occasione in qualche modo persa. Si è in quella sede, infatti, sottolineato il merito di una legge tutto sommato meramente ricognitiva. Fermo l’apprezzamento per la disciplina legale, sempre preferibile in un sistema di civil law, poiché mette al riparo da possibili difficoltà ermeneutiche, chi scrive si chiede se non sarebbe stato opportuno sviluppare anche i profili critici della norma. Approfittare degli Illustri Ospiti presenti, evidenziando le gravi lacune di una legge che ci si è affrettati a promulgare in vista delle imminenti elezioni politiche dello scorso marzo, avrebbe forse potuto suscitare un pensiero analitico sul vero nodo problematico che sollevò l’opinione pubblica, quello appunto di Cappato e Antoniani, per nulla affrontato dalla richiamata norma;
7 Gustavo Zagrebelsky, “Il diritto mite” (Einaudi, 1992);
8 Come, invero, prospettato dalla Procura milanese nella richiesta di archiviazione sulla imputazione coatta a Cappato.
9 Ord. 10/07/2017, GIP Gargiulo, resa nello stesso procedimento a carico di Marco Cappato;
10 Ciò è dimostrato, peraltro, dallo sciopero della parola e dell’alimentazione che Antoniani compì per convincere la madre e la propria compagna a tenere nella dovuta considerazione il suo proposito interruttivo della vita, ancorché quelle non convenissero e anzi inizialmente tentassero di modificarne i convincimenti senza, tuttavia, riuscirvi; a dimostrazione della ferma volontà di Dj Fabo.
11 Si veda, sul punto, l’approdo giurisprudenziale in materia di intervento arbitrario del medico pur con esito fausto. Questo intervento operato in assenza di consenso validamente prestato o in presenza di dissenso espresso, maggiormente, fa scattare la responsabilità penale del professionista sanitario che a fronte del proprio dovere di intervento incontra il limite della libertà di autodeterminazione, presidiato dall’art. 32 della Costituzione. In giurisprudenza il dibattito è esploso con riferimento ai Testimoni di Geova. Gli appartenenti a questa denominazione, infatti, rifiutano le trasfusioni ematiche anche a costo della vita; perciò, il medico che intervenga a immettere sangue altrui nel corpo del paziente testimone di geova, nonostante l’intento salvifico, rischia di essere ritenuto responsabile per violazione della libertà di autodeterminarsi del paziente che non voglia ricevere la trasfusione.
Si segnala sulla materia del fine vita, infine, l’interessante contributo di F. Giunta, “Il morire tra bioetica e diritto penale” in Politica del Diritto, ISSN 0032-3063, Fascicolo 4, dicembre 2003.

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