Apparentia iuris, rappresentanza apparente e condominio
Sommario: 1. L’Apparentia iuris: definizione e ipotesi di tutela –2. La rappresentanza apparente –3. La figura del condomino apparente
1. L’Apparentia iuris: definizione e ipotesi di tutela
L’espressione apparentia iuris identifica una fattispecie generale nella quale una data situazione, sulla base di circostanze univoche, appare erroneamente corrispondente alla realtà giuridica. Si tratta di una figura nella quale assumono rilevanza due diversi principi, quello dell’autoresponsabilità e quello dell’affidamento, che devono essere adeguatamente coordinati tra loro[1].
In generale, si suole distinguere tra apparenza pura e apparenza colposa: la prima è caratterizzata dalla presenza di una situazione di fatto difforme da quella di diritto, nonché dall’errore scusabile della parte o del terzo che abbiano confidato nello schema apparente; la seconda, invece, si contraddistingue per la presenza di un elemento ulteriore e cioè la colpa del soggetto contro il quale l’apparenza è invocata[2].
In dottrina, in riferimento all’apparenza giuridica, si sono sviluppate diverse tesi[3].
Un primo orientamento ritiene possibile rinvenire situazioni di apparenza solamente nelle ipotesi in cui la stessa sia espressamente prevista nel codice civile, seppur in disposizioni di settore: ci si riferisce all’acquisto dall’erede apparente, alla simulazione, alla società apparente[4].
Una seconda tesi, invece, ritiene ammissibile esclusivamente l’istituto della simulazione, nel quale il negozio simulato prevale su quello realmente voluto. Tale ultima teoria viene dai più criticata in quanto la disciplina dei rimedi previsti in materia di simulazione tutela solamente alcuni terzi e attiene al profilo dell’opponibilità e non anche dell’inefficacia o dell’invalidità.
Altre tesi minoritarie assumono, quale riferimento, una singola disposizione normativa. Ne costituisce un esempio l’art. 1396 c.c. (modificazione ed estinzione della procura), al quale viene assegnata una portata generale, nonostante lo stesso disciplini esclusivamente l’ipotesi della procura apparente, che si verifica nel caso in cui il rappresentante conclude un contratto anche se la procura gli è stata revocata oppure è intervenuta una diversa causa di estinzione della stessa.
L’istituto dell’apparenza è oggi talmente consolidato da consentire di ritenerlo diritto vivente. Tuttavia, appare opportuno interrogarsi in merito alla possibilità di rinvenire, nel nostro ordinamento, una tutela generale in riferimento a tale figura. Alcuni autori ritengono che sia necessaria la presenza di un’espressa previsione normativa. Secondo altri, all’opposto, si deve dare rilievo all’apparenza giuridica quando è possibile operare un bilanciamento tra i principi di affidamento e di autoresponsabilità, senza che occorra una specifica disposizione[5]. La giurisprudenza, invece, ha affermato che la cd. apparenza del diritto non integra un istituto di carattere generale con connotazioni definite e precise, ma opera nell’ambito di singoli negozi giuridici. La Suprema Corte si limita a riconoscere solamente tre ipotesi di tutela dell’apparenza in assenza di un’espressa previsione: la società apparente, la rappresentanza apparente e la cessione non pubblicizzata di azienda.
2. La rappresentanza apparente
La rappresentanza apparente costituisce una sottocategoria della falsa rappresentanza. Per tale ipotesi, è irrilevante l’apparenza di diritto pura, che non può prevalere sul mancato conferimento dei poteri rappresentativi già disciplinato dagli articoli 1398 e 1399 c.c., mentre assume rilievo l’apparenza colposa al ricorrere di determinati presupposti. Nello specifico, questa figura trova tutela, nel nostro ordinamento, in presenza di tre condizioni: è necessario che vi sia uno scollamento tra la situazione di fatto e quella di diritto e, pertanto, che sussistano circostanze di fatto idonee e univoche a far qualificare un soggetto quale rappresentante; il terzo che conclude un negozio con il rappresentante apparente deve avere fatto affidamento, senza colpa, sulle oggettive condizioni di fatto appena richiamate; il rappresentato ha creato, con colpa, una situazione di apparenza. Di conseguenza, il terzo non può essere tutelato a priori, ma è necessario che vengano coordinati i due diversi principi dell’autoresponsabilità e dell’affidamento.
La giurisprudenza ha introdotto tale istituto al fine di individuare una tutela integrativa rispetto al rimedio risarcitorio previsto nell’art. 1398 c.c. Conseguenza dell’operare della fattispecie della rappresentanza apparente è che il contratto concluso dal rappresentante apparente è comunque produttivo di effetti nei confronti del rappresentato apparente, il quale risponde per l’affidamento ingenerato nel terzo e non perché abbia effettivamente conferito un potere rappresentativo[6].
L’istituto della rappresentanza apparente trova un limite nel caso in cui per la conclusione del contratto è richiesta una forma specifica: non si tratta di un limite logico – giuridico, ma di un elemento che consente di valutare negativamente il comportamento del terzo.
Un’ulteriore peculiarità attiene al rapporto con i meccanismi di pubblicità, in riferimento ai quali ci si interroga sulle conseguenze che si verificano nel caso in cui il terzo sia in possesso di strumenti idonei per verificare i poteri di rappresentanza di un soggetto. In passato, in questa ipotesi, si riteneva non configurabile la figura della rappresentanza apparente[7]. A partire dalla metà degli anni Novanta, invece, la giurisprudenza ha cambiato orientamento, evidenziando che, nel caso analizzato, la pubblicità costituisce solo uno degli elementi da valutare, ma non è dirimente perché non è sempre possibile riscontrare una colpa in capo al terzo, soprattutto in materia di rapporti continuativi[8].
3. La figura del condomino apparente
La Suprema Corte provvede prontamente ad escludere dall’ambito di azione dell’istituto dell’apparentia iuris altri casi, tra i quali, per esempio, quello del condomino apparente[9]. Si tratta dell’ipotesi in cui un soggetto, pur non essendo più proprietario di un appartamento sito all’interno di un condominio, continui a comportarsi come tale senza dare alcuna comunicazione in proposito all’amministratore del condominio stesso. Sul punto, appare opportuno svolgere diverse considerazioni in riferimento sia alla posizione assunta dalla giurisprudenza, sia alla riforma delle disposizioni in materia, attuata attraverso l’introduzione del cd. codice del condominio.
In merito all’orientamento prevalente della giurisprudenza, la Suprema Corte, con una sentenza dell’aprile 2015[10], ha preso posizione sul punto, ribadendo che, in materia di condominio, la situazione di apparenza non può prevalere sulla realtà, in quanto ricade sull’amministratore di condominio l’obbligo di verificare, nei pubblici registri, chi siano i reali proprietari degli appartamenti siti negli immobili amministrati. Nelle assemblee condominiali, infatti, devono essere convocati solo i reali proprietari e non coloro che si comportano come tali. Il mancato adempimento delle verifiche occorrenti e il regime di pubblicità previsto in materia costituiscono, quindi, un limite invalicabile all’operatività del principio di apparenza. La pronuncia della Corte di Cassazione si pone sulla stessa linea della sentenza delle Sezioni Unite del 2002, la quale aveva ad oggetto l’ipotesi di morosità di un condomino apparente e la necessità di definire i soggetti avverso i quali era possibile emettere decreto ingiuntivo. In tale caso, la Suprema Corte ha statuito che l’osservanza del dovere di consultazione dei registri immobiliari è preminente (rispetto al contrapposto dovere di correttezza e informativa) per l’individuazione del vero condomino obbligato, non solo perché corrisponde a regola di normale prudenza accertare l’effettivo legittimato passivo allorché si intende dare inizio ad un’azione giudiziaria, ma anche perché appare conforme al sistema della tutela del credito[11].
Determinante, sotto alcuni profili, è stata in proposito la riforma della disciplina del condominio negli edifici attuata tramite la legge n. 220 del 2012 e il D.L. n. 145 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 9 del 2014. Tali norme hanno confermato che, perché l’assemblea possa deliberare regolarmente, è necessario che tutti i condomini siano stati posti in condizione di parteciparvi, mediante tempestivo avviso. La convocazione non è valida se non si verifica che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati.
Tuttavia, in riferimento a tale novella normativa, gli elementi di novità da segnalare, rispetto alla tematica che qui si affronta, sono due. Innanzitutto, è necessario soffermarsi sull’introduzione del registro di anagrafe condominiale (art. 1130 c. 1 n. 6 c.c.) contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, le cui variazioni devono essere comunicate in forma scritta all’amministratore entro sessanta giorni dall’avvenuta modifica, pena l’addebito del costo di acquisizione delle informazioni ai responsabili. A ciò si affianca l’art. 63 c. 5 dip. att. c.c. che prevede la responsabilità solidale del venditore e del compratore per i contributi maturati fino al momento di trasmissione all’amministratore della copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto. Si prendono in considerazione, dunque, coloro che cedono un diritto e gli aventi causa dello stesso, anche se dubbia appare la possibilità di applicare tale disposizione alle ipotesi di condomino apparente.
La riforma del 2012 consente, quindi, di escludere espressamente la configurabilità del condomino apparente in riferimento ai rapporti interni di gestione e convocazione dell’assemblea condominiale. Qualora, successivamente, debbano essere instaurate controversie inerenti alla riscossione delle somme dovute, l’individuazione dei legittimati passivi non viene esplicitamente stabilita dalla legge, ma occorre riportarsi a quanto stabilito dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nel 2002 e nella più recente sentenza del 2017, che poggia la responsabilità pro quota dei condomini sul collegamento tra il debito e la titolarità del diritto reale, emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari[12].
[1] Cfr. Barcellona P., Diritto privato e società moderna, Napoli, 1996.
[2] Cfr. Cass., 17/03/1975, n. 1020.
[3] Cfr. Pagano A., Sentieri giuridici, pag.,288, Padova 1999, dove si individua la disciplina della pubblicità come limite all’efficacia dell’apparenza.
[4] Cfr. artt. 534, 1414 e 2247 c.c.
[5] Cfr. D’Amelio M., Voce Apparenza del diritto, NDI, vol. I, pag. 715, Torino 1957.
[6] Cfr. Gazzoni F., Manuale di diritto privato, pag. 1025, Napoli 2001.
[7] Cfr. Cass. civ., sez. II, 17 Marzo 1975 n.1020.
[8] Cfr. Cass. civ., sez. III, 6 novembre 1998, n. 11186.
[9] Cfr. Cass. civ, sez. VI, ord. 15 gennaio 2020, n. 724.
[10] Cfr. Cass. civ., sez. II, 30 aprile 2015, n. 8824.
[11] Cfr. Cass. civ., SSUU, 8 aprile 2002, n. 5035.
[12] Cfr. Cass. civ., sez. VI, 9 ottobre 2017, n. 23621.
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Adele Portera
Laureatasi in Giurisprudenza nel luglio 2014 con la valutazione di 110/110 e lode presso l'Università di Catania, svolge la pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato, collaborando con diverse riviste giuridiche. Nel 2017, vince la borsa di studio presso il Seminario di Studi e Ricerche Parlamentari dell'Università di Firenze e consegue l'abilitazione all'esercizio della professione forense. Attualmente, affianca all'attività lavorativa nel settore bancario, lo studio costante del diritto civile e amministrativo, con particolare attenzione alle novità giurisprudenziali.