Applicabilità dell’aggravante del danno di rilevante entità alle fattispecie di bancarotta impropria: una questione aperta

Applicabilità dell’aggravante del danno di rilevante entità alle fattispecie di bancarotta impropria: una questione aperta

Sommario: 1. Premessa: inquadramento della questione – 2. L’orientamento favorevole all’applicabilità dell’aggravante ex 219 L. Fall. (art. 326 C.C.I.I.) ai fatti di bancarotta impropria – 3. Le ragioni di un dissenso costruttivo – 4. Riflessioni conclusive

 

1. Premessa: inquadramento della questione

Il vecchio articolo 219 L. Fall., oggi trasposto senza modifiche all’interno della disposizione di cui all’art. 326 C.C.I.I., disciplina le circostanze (aggravanti e attenuanti) relative ai fatti di bancarotta penalmente rilevanti e, testualmente, ai «fatti previsti negli articoli 216, 217 e 218». Già da questa prima definizione, invero, è possibile scorgere il tema che tiene occupati in questa trattazione e, per il vero, ha intrattenuto gli interpreti da lungo tempo: se, cioè, la circostanza aggravante dell’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante entità sia applicabile anche ai fatti c.d. di bancarotta impropria, di cui all’art. 223 L. Fall. (oggi art. 329 C.C.I.I.), atteso il mancato rinvio contenuto nella norma.

In un primo momento, la giurisprudenza di legittimità sul punto si era mostrata divisa: a fronte di pronunce che ritenevano applicabile, in via estensiva, tale circostanza aggravante anche ai fatti di bancarotta impropria, si era affacciato un orientamento di segno opposto, a dire del quale «la pacifica diversità strutturale ed ontologica tra la bancarotta fraudolenta impropria e quella ordinaria non ne consente l’estensione in via analogica»1.

La sede più logica – ed opportuna – per la risoluzione di tale contrasto venutosi a sedimentare in seno alla giurisprudenza di legittimità avrebbe dovuto essere quella del rinvio alle Sezioni Unite, ma, invece, nel corso degli ultimi anni si è imposto quale largamente maggioritario l’orientamento favorevole all’applicabilità dell’aggravante in questione anche ai fatti di bancarotta impropria, rendendo pertanto superfluo (quantomeno all’apparenza, come si dirà) un intervento chiarificatore del massimo Consesso.

2. L’orientamento favorevole all’applicabilità dell’aggravante ex 219 L. Fall. (art. 326 C.C.I.I.) ai fatti di bancarotta impropria

Come anticipato, l’orientamento favorevole all’applicazione in via estensiva di tale circostanza aggravante ha, negli ultimi anni, assolutamente acquisito uno status di prevalenza e, da ultimo, addirittura di univocità nel perimetro della giurisprudenza di legittimità2.

Conviene, anche a costo di appesantire un po’ il discorso, riportare interamente il ragionamento articolato dalla Suprema Corte in una recente pronuncia, al fine di poterne poi misurare la portata e la possibilità di scorgervi eventuali angoli bui. E, dunque, «l’aggravante del danno rilevante, applicata anche ai reati commessi da persone diverse dal fallito, non è frutto di una applicazione analogica in malam partem delle norme, che sarebbe vietata in materia penale, ma è il risultato di una interpretazione sistematica della legge fallimentare. In particolare, poiché l’art. 216 rinvia – per quel che riguarda le specifiche attenuanti e aggravanti – all’art. 219 L. Fall., è inevitabile che tale rinvio “interessi” anche l’art. 223: una diversa interpretazione comporterebbe, infatti, a) una evidente violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.; b) una patente irragionevolezza del sistema sanzionatorio, essendo l’imprenditore individuale sottoposto ad una trattamento sanzionatorio astrattamente più afflittivo, in quanto opportunamente identificato anche negli effetti speciali della circostanza aggravante in esame, rispetto a quello previsto per i fatti sostanzialmente analoghi commessi nell’ambito della gestione societaria, sicuramente non meno gravi, per i quali sarebbe al più configurabile l’aggravante ad effetto comune di cui all’art. 61 c.p., n. 7, laddove la bancarotta societaria rappresenta – in linea generale – fenomeno criminale molto più grave di quello costituito dalla bancarotta individuale, poiché, nella moderna economia, le più alte concentrazioni di capitali assumono, come è noto, forma societaria. Inoltre, la complessità del sistema di rinvii esistente fra le norme richiede che detta analisi comprenda anche il rinvio che lo stesso art. 223, sia al primo che al comma 2, fa all’art. 216, ed è partendo dal rinvio presente nell’art. 223 che deve dunque procedersi nella costruzione della complessiva fattispecie della bancarotta impropria del gestore di società»3.

3. Le ragioni di un dissenso costruttivo

Impenetrabile pare l’edificio argomentativo dell’interpretazione sistematica della disciplina fallimentare offerto dalla Suprema Corte, sicché la questione andrebbe ritenuta risolta e, peraltro, anche in virtù di solidi principi di rilievo costituzionale, quali quello di uguaglianza e quello di ragionevolezza.

E, pur tuttavia, ad avviso di chi scrive risultano tutt’altro che convincenti non solo la soluzione prospettata, ma anche le ragioni che ne costituiscono le fondamenta.

Procedendo in senso discendente, conviene affrontare subito il vero nodo problematico della questione. Ancorché, infatti, la Suprema Corte ne aggiri le difficoltà richiamandosi a validi principi costituzionali che ne giustificherebbero l’adozione, quella operata, da qualunque lato la si voglia guardare, risulta sempre essere un’applicazione analogica in malam partem, che, come è noto, in materia penale è vietata, in virtù di quanto disposto dall’art. 25 Cost., del quale occorre sottolineare la chiara dimensione garantistica.

Per comprendere quanto si va affermando, conviene anzitutto prendere le mosse dalla definizione, in via generale, dell’istituto e della funzione precipua dell’analogia, guardando agli scritti del più grande filosofo del diritto italiano, Norberto Bobbio: «essa è uno dei mezzi adoperati dal giudice allo scopo di colmare le lacune della legislazione»4. Per “lacuna”, si noti, deve considerarsi la mancanza di una norma giuridica atta a regolare un caso controverso, dipendente in alcuni casi da inerzia o dimenticanza del legislatore o, in altri casi, dal naturale evolversi della società in una progressione ben più veloce di quella normativa. Occorre tuttavia vagliare se, nel caso qui in discussione, possa davvero ipotizzarsi la presenza di una lacuna legislativa. E, invero, un’inerzia o dimenticanza del legislatore, probabilmente, sarebbe stata tesi sostenibile negli anni precedenti, quelli dei primi contrasti giurisprudenziali sul punto. Ma, ad oggi, tale argomentazione non pare più percorribile: molteplici sono state, infatti, le occasioni di interventi in materia da parte del legislatore, che è stato negli ultimi anni chiamato all’adozione del nuovo Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, successivamente riadattato in ragione dell’entrata in vigore della c.d. Direttiva europea “Insolvency”5, con medio tempore attive e produttive Commissioni di esperti istituite presso il Ministero della Giustizia6. Le occasioni di riflessione in materia, insomma, sono state davvero innumerevoli, di talché la struttura della norma, identica a quella originaria di cui all’art. 219 L. Fall., non può che indurre a ritenere ponderata e ragionata la scelta del legislatore di non inserire expressis verbis alcun riferimento ai fatti di bancarotta impropria di cui all’art. 223 L. Fall.

E, allo stesso modo, nemmeno può condividersi l’argomentazione addotta dalla Suprema Corte secondo cui l’applicazione estensiva dell’aggravante in questione andrebbe giustificata anche in ragione del fatto che ad oggi, nella moderna economia, le più alte concentrazioni di capitali assumono forma societaria, poiché – di nuovo – su tale profilo il legislatore avrebbe ben potuto intervenire recentemente allo scopo di colmare il vulnus normativo.

A scontrarsi con la soluzione offerta dalla Suprema Corte, inoltre, risultano essere altri principi di rango costituzionale, parimenti rilevanti: il (richiamato anche dalla stessa Cassazione) “sistema di rinvii esistente fra le norme”, infatti, non può che palesare un evidente deficit di tassatività e precisione della norma, in ragione del quale si impone all’interprete di adoperare gli strumenti ermeneutici a sua disposizione per ricondurre la disciplina del penalmente rilevante all’interno dei binari della legalità.

In sostanza, dunque, ad avviso di chi scrive i fatti di bancarotta impropria, in relazione ai quali sia stato cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, sarebbero sì aggravati rispetto alla fattispecie-base, ma solo in forza dell’aggravante comune di cui all’art. 61, co. 1, n. 7, c.p.

Gli effetti pregiudizievoli di un’applicazione in malam partem dell’aggravante di cui al primo comma dell’art. 219 L. Fall., peraltro, discenderebbero altresì dalla natura di circostanza aggravante ad effetto speciale della stessa: da un’applicazione estensiva, insomma, deriverebbero evidenti conseguenze sfavorevoli all’imputato, inaccettabili in un ordinamento informato ai cardini della legalità penale7.

4. Riflessioni conclusive

È di tutta evidenza, a ben guardare, che non possa sussistere alcun principio di coerenza sistematica elevabile a paragone con la garanzia, propria dell’ordinamento penale, di limite alla potestà punitiva dell’Autorità pubblica.

Se, infatti, il diritto penale è chiamato ad assolvere a tale funzione, allora risulta evidente come nessuno spazio possa trovare un’interpretazione, lontana dalla littera legis, in forza della quale sia di fatto riservato un trattamento più sfavorevole all’imputato.

La prospettiva, in buona sostanza, pare quella di una strada oramai giunta di fronte ad un bivio: al cospetto dell’assenza di intervento chiarificatore del legislatore sul punto, infatti, la via percorribile pare essere solamente quella di applicabilità dell’aggravante comune dell’aver causato un danno di rilevante entità ai sensi dell’art. 61, co. 1, n. 7, c.p., onde evitare un trattamento pregiudizievole per l’imputato in totale spregio dei principi di legalità, tipicità e tassatività penale. In alternativa, la soluzione dovrebbe necessariamente coinvolgere il potere legislativo. Tertium non datur.

 

 

 

 

 

 


1 Cass. pen., Sez. V, 5 marzo 2010, n. 8829.
2 Cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. V, 18 febbraio 2010, n. 17690, Rv. 247320; Cass. pen., Sez. V, 22 marzo 2013, n. 2903, Rv. 258446; Cass. pen., Sez. V, 25 gennaio 2012, n. 10791; Cass. pen., Sez. V, 21 gennaio 2013, n. 18695, Rv. 255839.
3 Cass. pen., Sez. V, 21 giugno 2021, n. 24216.
4 N. BOBBIO, Saggi sulla scienza giuridica, Giappichelli editore, Torino, p. 53.
5 Dir. UE 2019/1023, recepita nel C.C.I.I. ad opera del D.Lgs. 83/2022.
6 Il riferimento è alla Commissione presieduta dal dott. Renato Bricchetti.
7 Si pensi, solamente quale esempio, alle conseguenze che discendono, in punto di prescrizione del reato, dall’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 219, co. 1, L. Fall.

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