Applicazioni pratiche di due rimedi civilistici nei rapporti con la pubblica amministrazione. In particolare, la gestione di affari altrui e l’ingiustificato arricchimento
Sommario: 1. Note introduttive – 2. Della gestione di affari altrui – 3. Dell’azione di arricchimento senza giusta causa – 3.1. Rapporti tra azione di ingiustificato arricchimento e azione di responsabilità aquiliana, con particolare riferimento alle prestazioni professionali eseguite sulla base di un contratto nullo – 3.1.1. Non indennizzabilità del “prezzo” che l’esecutore avrebbe ottenuto se il contratto fosse stato valido – 3.2. Opere o servizi eseguiti su richiesta del funzionario pubblico, senza preventiva autorizzazione di spesa – 3.3. Prestazioni eseguite da un’impresa aggiudicataria colpita da un’interdittiva antimafia e spettanza di un compenso revisionale nel caso di recesso della stazione appaltante
1. Note introduttive
L’ordinamento giuridico riconosce ormai da tempo alla pubblica amministrazione la possibilità di agire iure privatorum. In tal senso, l’art. 1, comma 1-bis, Legge n. 241/1990, introdotto dalla Legge n. 15/2005, specifica che, eccezion fatta per le ipotesi in cui la legge disponga diversamente, la P.A., ogniqualvolta adotti atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato.
Rebus sic stantibus, non dovrebbero sussistere ostacoli nel riconoscere l’applicabilità, dinanzi al giudice ordinario, dei rimedi restitutori, di matrice romanistica, elaborati per regolare i rapporti fra privati, derivanti dalla gestione di affari altrui e dall’ingiustificato arricchimento anche nei confronti del soggetto pubblico. Sennonché la peculiarità della qualifica rivestita da quest’ultimo ha posto diversi dubbi interpretativi, come si dirà nel corso della presente disamina.
2. Della gestione di affari altrui
Con particolare riferimento alla gestione di affari altrui, ex art. 2028 c.c., occorre precisare che tale istituto viene in rilievo, in generale, quando un soggetto, capace di agire senza esservi obbligato e senza un divieto espresso da parte dell’interessato, assuma scientemente la gestione di uno o più affari di un altro soggetto. Se, da una parte, l’art. 2028 c.c. pone a carico del gestore l’obbligo di portare a termine la gestione, fino a quando l’interessato non sia in grado di provvedervi da sé, dall’altro, l’art. 2031 c.c. stabilisce che il gerito debba adempiere le obbligazioni assunte dal gestore in nome del gerito e tenerlo indenne da quelle assunte in nome proprio, rimborsandolo, altresì, delle spese necessarie o utili sostenute.
Laddove la negotiorum gestio sia posta in essere da un privato a favore di un altro privato, l’orientamento prevalente, in dottrina e in giurisprudenza, non richiede l’impossibilità materiale del dominus di provvedere al proprio affare. È sufficiente che la condotta del gerito sia sufficiente a dimostrare l’insussistenza di una prohibitio domini.
Ben più rigorosa è l’interpretazione del requisito dell’absentia domini, ove ad essere interessata dalla gestione di affari altrui sia la pubblica amministrazione. In questo caso, la giurisprudenza richiede un cogente impedimento all’esercizio delle competenze assegnate agli uffici pubblici, o, quantomeno, un esplicito riconoscimento dell’effettivo vantaggio conseguito dalla P.A..
Si tratta, del resto, di una soluzione perfettamente coerente con il principio di riserva di legge, ex art. 95 Cost., e con il principio di imparzialità e buon andamento, ex art. 97, comma 2, Cost., che permeano l’attività amministrativa.
Sotto il primo profilo, le funzioni pubbliche attribuite ex lege devono perseguire specifici interessi pubblici, come risulta dalla programmazione degli scopi da raggiungere, indicati nell’indirizzo politico governativo. Quanto all’imparzialità e al buon andamento, è appena il caso di evidenziare che l’attività amministrativa deve essere organizzata secondo criteri di efficacia ed efficienza, anche attraverso la scelta di mezzi materiali e l’impiego di risorse finanziarie che si rivelino maggiormente idonei a realizzare gli interessi affidati.
Queste semplici considerazioni valgono ad escludere agevolmente un’indiscriminata gestione di affari del privato nei confronti della P.A. Se così non fosse, invero, si consentirebbe all’arbitrio degli associati di intromettersi nella scelta dei mezzi e dei tempi per realizzare i fini pubblici, con assunzione di spese e impiego di risorse finanziarie, che potrebbero condurre alla disorganizzazione dello Stato e al suo rapido collasso finanziario.
È vero che, talvolta, la P.A. non può fare a meno di ricorrere all’apporto di imprese private, per la realizzazione di opere, servizi e lavori pubblici. Tuttavia, in questi casi, la procedura di evidenza pubblica costituisce garanzia di pubblicità e trasparenza delle operazioni, assicurando una ottimale allocazione delle risorse.
Le regole dell’evidenza pubblica e le norme di contabilità pubblica presidiano e condizionano l’attività negoziale della P.A.. La loro cogenza e la loro inderogabilità, secondo la dottrina e la giurisprudenza, è tale da travolgere qualsiasi convenzione con esse confliggente.
3. Dell’azione di arricchimento senza giusta causa
Questi rilievi hanno svolto un ruolo cruciale anche ai fini dell’utilizzazione del rimedio di cui all’art. 2041 c.c. da parte del privato. Il problema si è posto, in maniera precipua, qualora la P.A. abbia ricevuto un ingiustificato arricchimento dall’esecuzione da parte di appaltatori, fornitori o professionisti, di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti.
A tal proposito, le Sezioni Unite hanno esaminato la questione relativa alla possibilità per il privato, che abbia eseguito la prestazione, di agire, a titolo di ingiustificato arricchimento, nei confronti della P.A., anche per ottenere il prezzo che avrebbe ottenuto se il contratto fosse stato valido.
Alla prima domanda, la giurisprudenza offre ormai da tempo una risposta positiva. Si ritiene, invero, che, ove ricorrano i presupposti dell’azione di ingiustificato arricchimento, ex artt. 2041 e 2042 c.c., non vi siano impedimenti ad ammettere che il privato possa utilizzare tale rimedio avverso la P.A., alla quale sarebbe altrimenti riconosciuta una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri soggetti.
Segnatamente, affinché tale azione possa essere esperita, è necessario che sussistano due condizioni: 1. la sussistenza dell’arricchimento – per tale intendendosi anche un mero risparmio di spesa – di un soggetto, al quale faccia da contraltare il depauperamento di un altro soggetto; 2. un nesso di causalità che colleghi il depauperamento all’arricchimento.
Inoltre, stante il carattere sussidiario, riconosciutole dall’art. 2042 c.c., quest’azione può essere utilizzata solo nelle ipotesi residuali in cui non siano esperibili ulteriori azioni, basate su un contratto, su un fatto illecito, ovvero su un altro atto o fatto produttivo dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria.
Laddove l’arricchimento ingiustificato sia stato conseguito dalla P.A., il tralatizio orientamento della giurisprudenza richiedeva – in aggiunta ai presupposti squisitamente civilistici – anche un riconoscimento esplicito o per facta concludentia da parte del soggetto pubblico dell’utilità ottenuta in seguito alla prestazione del privato.
Il richiamato indirizzo è stato, tuttavia, definitivamente superato, a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ., SS.UU. sentenza 26 maggio 2015, n. 10798), le quali hanno valorizzato la lettera della norma, che, nell’individuazione dei presupposti dell’azione, riconducono l’arricchimento ad un evento oggettivo. Proprio l’univocità del dato testuale non lascerebbe spazio – secondo l’interpretazione offerta dalla Suprema Corte – ad una riserva di discrezionalità, in punto di riconoscimento dell’arricchimento e del suo ammontare, a favore del soggetto pubblico arricchito.
Logica conseguenza di tale assunto è che il privato, che intenda agire ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A., è tenuto a provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che si possa attribuire alcun rilievo alle valutazioni di utilità promananti dal soggetto pubblico. Anzi, il formante giurisprudenziale ha avuto modo di chiarire ulteriormente, in punto di onere probatorio, che chi agisca per ottenere l’indennizzo non è neppure tenuto a provare l’utilitas conseguita dall’arricchito (cfr., da ultimo, Cass. Civ., Sez. III, sentenza 28 ottobre 2024, n. 27753). Del resto, argomentando a contrario si finirebbe per attribuire all’amministrazione una posizione di vantaggio, priva di qualsivoglia base normativa.
Anche il relativo accertamento da parte del giudice ordinario non incorre, per questa via, nei limiti di cognizione tracciati dall’art. 4, all.e), Legge n. 2248/1865 (c.d. L.A.C.), proprio perché si tratta solo di verificare la sussistenza di un evento patrimoniale oggettivo, qual è l’arricchimento.
3.1. Rapporti tra azione di ingiustificato arricchimento e azione di responsabilità aquiliana, con particolare riferimento alle prestazioni professionali eseguite sulla base di un contratto nullo
Un cenno merita anche la questione dei rapporti tra l’azione di arricchimento senza causa e l’azione risarcitoria. Al riguardo, gli Ermellini (cfr. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 10 settembre 2009, n. 19448) hanno avuto modo di tracciare un limite invalicabile, rappresentato dalla causa dello spostamento patrimoniale, che, nell’azione generale di arricchimento, non deve assumere i caratteri dell’antigiuridicità, attratta indefettibilmente nell’alveo dei fatti illeciti.
La distinzione de qua vale a perimetrare anche il significato del termine “danno”, richiamato in maniera atecnica nell’art. 2041 c.c., nel senso di mera “diminuzione patrimoniale” e non – appunto – di lesione antigiuridica, rientrante, invece, nel campo applicativo dell’azione di risarcimento danni da responsabilità aquiliana.
Conseguentemente, anche il petitum assume una diversa connotazione, consistendo propriamente in un “indennizzo”, commisurato alla minor somma tra l’arricchimento ed il depauperamento, contrariamente all’azione di responsabilità aquiliana, che tende ad assicurare il risarcimento dell’intero danno subito dal danneggiato.
In applicazione dei criteri appena enunciati, il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, in una recentissima pronuncia (cfr. C.G.A. Regione Sicilia, sentenza 29 luglio 2024, n. 598), che si inserisce nel solco di un orientamento già tracciato dalla giurisprudenza amministrativa[1], è addivenuta al rigetto dell’appello esperito dal privato per ottenere il risarcimento, ex art. 2043 c.c., del danno “da mancata aggiudicazione”, a fronte della originaria legittima aggiudicazione.
In particolare, il consesso ha fondato la propria decisione sull’assunto che il danno da mancata aggiudicazione, invocato dall’appellante, non discendesse da una condotta illecita o da un provvedimento illegittimo della stazione appaltante, ma fosse, piuttosto, conseguenza immediata e diretta dell’avvenuta esecuzione di una decisione giurisdizionale di primo grado, la cui efficacia non era stata interinalmente sospesa, anche in ragione della scelta processuale dell’appellante di rinunciare all’istanza cautelare.
La vicenda processuale appena riferita ha, peraltro, consentito al Consiglio di Giustizia Amministrativa di rammentare che l’ordinamento mette comunque a disposizione del privato, a fronte di spostamenti patrimoniali non connotati da illiceità, bensì esclusivamente dall’assenza di causa, rimedi ulteriori, fra i quali spicca l’azione di ingiustificato arricchimento, ex art. 2041 c.c., esperibile qualora un’impresa, sulla base di un titolo pro tempore pienamente efficace, come nel caso rimesso all’esame del Collegio, abbia eseguito il contratto, percependo il relativo corrispettivo.
3.1.1. Non indennizzabilità del “prezzo” che l’esecutore avrebbe ottenuto se il contratto fosse stato valido
Il nodo più controverso, in subiecta materia, attiene, però, alla possibilità per l’esecutore privato di ottenere, attraverso l’azione di ingiustificato arricchimento, anche il “prezzo” che avrebbe ottenuto se il contratto fosse stato valido.
Al quesito in parola, già nel 2008, le Sezioni Unite della Cassazione (cfr. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 11 settembre 2008, n. 23885) hanno dato risposta negativa, valorizzando, come innanzi detto, la natura cogente ed inderogabile delle regole di evidenza pubblica e delle norme di contabilità pubblica.
Partendo da questa premessa, i giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato che sarebbe, se non altro, illogico utilizzare lo strumento offerto dall’art. 2041 c.c. per rendere inoperanti quei dettami, ricollocando l’autore della prestazione nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se avesse concluso con successo un contratto, che, invece, la legge considera invalido, o addirittura inesistente. Se ne inferisce che il privato non potrà certamente ottenere, a titolo di lucro cessante, ciò che avrebbe percepito se il contratto fosse stato valido ed efficace.
3.2. Opere o servizi eseguiti su richiesta del funzionario pubblico, senza preventiva autorizzazione di spesa
Un’ipotesi peculiare di ingiustificato arricchimento della P.A. potrebbe venire in considerazione, laddove vengano acquisiti beni o servizi, in assenza di un impegno di spesa registrato. Potrebbero, ad esempio, verificarsi situazioni di necessità e urgenza, tali per cui funzionari o dirigenti pubblici potrebbero essere indotti a stipulare contratti d’opera o di somministrazione, per approvvigionarsi di determinati servizi in tempi utili, senza una delibera dell’organo esecutivo di autorizzazione della spesa.
La predetta fattispecie viene espressamente contemplata dall’art. 119 T.U.E.L., in forza del quale, in questo caso, il rapporto obbligatorio non intercorre tra la P.A. e il privato, ma tra il funzionario che ha acconsentito alla fornitura e il privato. Ed invero, sotto il profilo squisitamente negoziale, il contratto è tamquam non esset.
Nondimeno, considerato che l’ente può comunque conseguire un ingiustificato arricchimento, grazie alla prestazione del privato, si consente a quest’ultimo di agire nei confronti della P.A., ex art. 2041 c.c.. L’unico limite, individuato dalla giurisprudenza, è il riconoscimento, anche per facta concludentia (ad esempio, attraverso l’utilizzazione del servizio), da parte della P.A., dell’utiliter coeptum, ovverosia dell’utilità della prestazione (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 27 marzo 2008, n. 7966). Ancora una volta, dunque, nonostante la tesi contraria di cui si è dato atto in precedenza, patrocinata in tempi più recenti dal giudice di nomofilachia (cfr. Cass. Civ., SS.UU. sentenza 26 maggio 2015, n. 10798), è stato considerato necessario, ai fini dell’integrazione della fattispecie, un requisito ulteriore, rispetto a quelli prescritti ex lege per l’istituto di origine civilistica.
3.3. Prestazioni eseguite da un’impresa aggiudicataria colpita da un’interdittiva antimafia e spettanza di un compenso revisionale nel caso di recesso della stazione appaltante
Un’altra applicazione pretoria che ha suscitato significative perplessità ha riguardato l’ingiustificato arricchimento della P.A. derivante dalle prestazioni eseguite da un’impresa aggiudicataria, colpita, nel corso del rapporto contrattuale, da un’interdittiva antimafia del Prefetto.
Com’è noto, infatti, le interdittive antimafia, previste e disciplinate dal D.Lgs. n. 159/2011 (c.d. Codice antimafia), sono provvedimenti amministrativi adottati dal Prefetto, allo scopo di prevenire o, comunque, arginare le infiltrazioni mafiose nel mercato, che hanno come effetto l’interdizione delle imprese destinatarie di tali provvedimenti, le quali perdono la capacità di contrarre con la P.A., o di ricevere erogazioni pubbliche. Nel caso in cui, invece, un contratto con la P.A. sia già stato concluso, l’interdittiva antimafia giustifica il recesso della stazione appaltante.
Proprio in relazione all’ultima ipotesi menzionata, occorre capire cosa accada in caso di appalti pubblici, aventi ad oggetto prestazioni periodiche o continuative, che non siano state eseguite una tantum. In tal senso, giova ricordare che gli artt. 92 e 94. D.Lgs. n. 159/2011 fanno salvo, in caso di recesso della P.A., giustificato da un’interdittiva antimafia nei confronti del privato contraente, il pagamento del valore delle opere già eseguite. Al privato spetta, inoltre, il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione delle restanti opere, nei limiti delle utilità conseguite.
Ebbene, tali norme rappresentano una deroga espressa a quella particolare forma di incapacità giuridica ex lege, conseguente al provvedimento di interdittiva, come chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in una pronuncia resa nel 2021 (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 6 agosto 2021, n. 14).
È pur vero che, nel riconoscere all’impresa aggiudicataria, anche in caso di recesso della P.A., il pagamento del valore delle opere già eseguite e non ancora remunerate, il legislatore ha voluto, evidentemente, escludere l’ingiustificato arricchimento della stazione appaltante.
Nondimeno, soffermando l’attenzione sulle prestazioni standardizzate, il massimo consesso della giustizia amministrativa, nella richiamata decisione, ha chiarito che, trattandosi di prestazioni omogenee nella loro utilità, si può presumere che le prestazioni eseguite prima del recesso e non ancora pagate abbiano la stessa utilità delle prestazioni già eseguite e pagate. Ne consegue che alle prestazioni già eseguite e non ancora pagate spetterà, quale corrispettivo, il prezzo contrattuale dei servizi già resi, salva la prova contraria da parte dell’impresa privata.
Peraltro, in ordine al valore della prestazione, l’Adunanza Plenaria ha anche precisato, in quella stessa pronuncia, che non occorre tener conto della revisione dei prezzi che hanno interessato le opere già realizzate e i servizi già erogati, mancando una previsione puntuale nel codice dei contratti pubblici, di cui al D.Lgs. n. 50/2016, all’epoca vigente, a differenza di quanto avveniva nel precedente (contenuto nel D.Lgs. n. 163/2006).
Un’eccezione era ammessa dall’art. 105, D.Lgs. n. 50/2016 solo nel caso in cui l’obbligo di revisione dei prezzi fosse stato espressamente previsto nelle regole di gara. Anche in quel caso, comunque, la revisione del prezzo, avendo una chiara funzione integrativa del prezzo pattuito, non sarebbe avvenuta in via automatica, bensì all’esito di un procedimento ad hoc, all’esito del quale si sarebbe potuto eventualmente riconoscere all’impresa il compenso revisionale ed il corrispondente importo.
Sotto questo profilo, importa rammentare che i principi espressi dall’Adunanza Plenaria nel 2011 dovranno essere, però, rivisti, in forza dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, contenuto nel D.Lgs. n. 36/2023, avvenuta il 1° aprile 2024. L’art. 60, comma 1 della menzionata normativa sancisce, infatti, l’obbligatorio inserimento delle clausole di revisione prezzi. Inoltre, il legislatore si fa anche carico, nell’art. 120, comma 8, dell’ipotesi in cui la stazione appaltante, per qualsiasi ragione, ometta tale previsione, facoltizzando l’appaltatore a proporre un’istanza di riequilibrio del contratto, che, per espressa previsione di legge, è “sempre modificabile”.
Non a caso, ove venga avanzata una domanda di revisione – benché la medesima non comporti di per sé la sospensione dell’esecuzione del contratto – l’amministrazione sarà tenuta a prendere in carico e ad istruire l’istanza dell’appaltatore, formulando, entro un termine di tre mesi, una proposta di rinegoziazione.
La soluzione accolta dal legislatore della riforma appare, in definitiva, ancor più garantista nei confronti del privato contraente, mirando ad evitare in radice che la pubblica amministrazione possa arricchirsi sine causa della differenza di valore tra quanto previsto originariamente nel contratto e l’eventuale maggior costo del lavoro.
[1] Nel novero dei precedenti conformi, si possono annoverare: C.G.A Regione Sicilia, 21 luglio 2008, n. 600; Cass. Civ., SS.UU., 5 dicembre 2023, n. 33954; Cass. Civ., SS.UU., 10 settembre 2009, n. 19448.
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