Approccio ermeneutico al nesso di causalità

Approccio ermeneutico al nesso di causalità

Nel nostro ordinamento giuridico l’analisi in ordine alla sussistenza del nesso di causalità ha la funzione di fondare un giudizio di responsabilità in capo all’autore del reato. Detto altrimenti, in un diritto penale governato da principi di uno Stato di diritto, affinché la verificazione di un evento lesivo sia attribuito all’agente, è necessario che il predetto soggetto abbia materialmente contribuito, mediante una condotta attiva o passiva, alla sua realizzazione. Per questa ragione, la causalità funge da criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto.

Il legislatore non ha fornito un modello definito di causalità, tanto è vero che gli artt. 40 e 41 c.p. si prestano ad interpretazioni ondivaghe da parte sia della giurisprudenza di legittimità, sia della dottrina. Prendendo le mosse dalla lettera della legge, possiamo senz’altro affermare che <<nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione>>.

Orbene, dall’esame letterale della norma non risulta possibile individuare una definizione chiara e precisa di “rapporto di causalità”, seppure il legislatore abbia rubricato l’art.40 c.p. con l’indicata locuzione. Risulta quindi agevole intuire che gli interpreti hanno dovuto cimentarsi nell’interpretazione della disciplina codicistica, dando vita a molteplici teorie causali, alcune delle quali verranno di seguito approfondite.

La ricostruzione storico-dogmatica delle più diffuse teorie causali elaborate nel corso del tempo suggerisce che la dimensione logico-formale della formula legislativa esprime, di certo, l’esigenza di un legame causale tra azione ed evento ai sensi del comma prima dell’art. 40 c.p..

Secondo la teoria condizionalistica, per accertare la sussistenza del predetto legame causale, si deve ricorrere al procedimento di eliminazione mentale (rectius, conditio sine qua non): un’azione è condizione necessaria dell’evento, se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento stesso venga meno.

È dunque causa penalmente rilevante la condotta umana che si pone come conditio sine qua non nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato. Parimenti, <<la condotta umana “è” condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; la condotta umana “non è” condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato>> (Cass. pen., Sez. Un., n. 30328 del 10/07/2002).

Seppure la teoria condizionalistica  risulti ampiamente accreditata tra la dottrina coeva, si è rilevato che, proprio perché considera equivalenti tutte le condizioni che concorrono alla produzione dell’evento dannoso o pericoloso, il rischio è quello di selezionare come causa tutti i remoti antecedenti dell’evento lesivo, dando così vita al c.d. regresso all’infinito. L’indicato procedimento di eliminazione mentale necessita, dunque, di formali correttivi che consentano all’interprete di selezionare solo quegli antecedenti rilevanti secondo lo schema dell’id quod plaerumque accidit. Questo significa che l’interprete non deve andare a ritroso nel tempo, alla ricerca dell’antecedente  più prossimo all’evento dannoso o pericolo, ovvero di quell’antefatto logicamente più conforme all’evento concretamente verificatosi. L’interprete deve considerare “causa”, invece, secondo un modello generalizzante di spiegazione della causalità, l’azione che è tipicamente idonea a cagionare eventi del tipo di quello verificatosi in concreto. Il correttivo testè richiamato rappresenta il modello a cui fa sostanzialmente riferimento la teoria della causalità adeguata che costituisce, invero, la più recente formulazione della teoria condizionalistica.

Occorre fin da subito precisare che il tradizionale impiego della teoria condizionalistica poggia le basi su un metodo <<individualizzante>> di spiegazione causale. Detto altrimenti, affinché sia rispettata l’esigenza di garanzia, in omaggio ai principi di tassatività di cui all’art. 25 Cost. e di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., per ovviare a qualsivoglia forma di arbitrio in sede giudiziale, la determinazione del nesso di causalità viene comunemente effettuata alla stregua di criteri tendenzialmente certi ed il più possibile controllabili. Invero, l’individuazione del rapporto di causalità può correttamente effettuarsi soltanto in virtù del modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, che siano esse universali o statistiche. Di talchè, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica -“legge di copertura”-, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto (Cass. pen., Sez. Un., n. 30328 del 10/07/2002).

Dunque, non è sufficiente che il giudice accerti che, senza la condotta del reo, l’evento non si sarebbe verificato con apprezzabile probabilità, in quanto il rapporto di causalità richiede, invece, un più alto grado di probabilità o di credibilità razionale, vicino alla certezza.

Con riferimento al grado di probabilità, i giudici di legittimità e la dottrina si sono a lungo interrogati sui coefficienti di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, per stabilire quando è possibile ritenere che una condotta sia la causa di un evento dannoso o pericoloso in termini di probabilità confinante con la certezza. In alcune pronunce di merito si leggono affermazioni del seguente tenore letterale: <<la rilevanza causale del fatto nella produzione dell’evento dannoso deve essere accertata in termini di assoluta certezza, il che è dire -in termini giudiziari- con una probabilità confinante alla certezza, mentre non è tale una elevata probabilità anche al 90%>> (Cass. Sez. IV 02/1585). Mentre, in altre decisioni gli ermellini hanno ritenuto che <<anche coefficienti medio-bassi di probabilità rilevati dalla legge statistica -sostenuti da verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità alla fattispecie concreta – se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico -legale, circa la sicura non incidenza, nel caso concreto, di altri fattori interagenti in via alternativa, possono essere utilizzati ai fini del riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento>> (Cass. Sez. V 13/8351).

Di converso, pacificamente si ritiene che, ai fini dell’accertamento del rapporto di causalità di cui all’art. 40 c.p., a prescindere che sia richiesto un alto o un medio-basso grado di probabilità, non occorre che il giudice disponga di leggi universali, ma è sufficiente che egli faccia ricorso a leggi statistiche. A determinare il grado di probabilità logica o di credibilità razionale circa la sussistenza del nesso di causalità nella fattispecie concreta inciderà certamente l’esclusione, in via induttiva, di fattori causali alternativi, diversi cioè dagli antecedenti presi in considerazione in base alla legge statistica di riferimento.

Per mero scopo di approfondimento, si ritiene opportuno evidenziare che la giurisprudenza più recente è concorde ormai nell’affermare che anche in presenza di reato omissivi, il nesso di causale va ricercato nella fattispecie concreta alla stregua della teoria condizionalistica, adoperando il giudizio controfattuale condotto su base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica -universale o statistica- , accertando che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato. In questo senso, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha già da tempo affermato che: <<in ambito di causalità omissiva, l’indagine riguarda in primo luogo l’individuazione della posizione di garanzia. L’ulteriore passaggio è costituito dall’individuazione di una condotta appropriata ed omessa che avrebbe scongiurato l’evento lesivo avverso, sempre attraverso lo strumento logico del giudizio controfattuale. quest’indagine è ad un tempo propria della causalità e della colpa -id est della prevedibilità dell’evento>> (sentenza Thyssen, 18 settembre 2014, n. 38343).


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