Art. 131 bis c.p., parziale illegittimità costituzionale: brevi riflessioni sul ruolo del giudice dell’esecuzione
Sommario: 1. Premesse – 2. Gli effetti sui giudicati di condanna, ruolo del giudice dell’esecuzione ed una trasversale necessità di limiti – 3. La comprensibile mitezza della Corte e i limitati poteri del giudice dell’esecuzione
1. Premesse
La sentenza n. 156 Corte Cost., del 21 luglio 2020, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 131 bis c.p. recante la disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di reato. Brevemente, la vicenda prende spunto dalla censura della norma nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto al reato di ricettazione attenuata da particolare tenuità previsto dall’art. 648, secondo comma, c.p. . Come è noto, l’applicazione della disciplina dell’art. 131 bis suddetto, è subordinata alla previsione di un massimo edittale contenuto nella soglia di anni 5 di reclusione, tuttavia la norma non prevede un limite minimo di applicabilità.
Così, spesso gli interpreti hanno dovuto confrontarsi con le aporie derivanti dalla impossibilità di applicare la particolare tenuità a fatti decisamente poco offensivi e puniti in maniera lieve dal legislatore, proprio perché il reato superava il massimo edittale previsto come limite, ma d’altra parte era caratterizzato da un minimo esiguo. Si tratta di quei casi, non rari, che sono stati definiti dal “compasso largo” tra la pena minima e massima, cioè caratterizzati da una sproporzionata distanza tra limiti estremi della cornice edittale. Già la Corte Costituzionale si era interessata del tema nel 2017 con la sentenza n. 207, rilevando l’anomalia della comminatoria per la ricettazione di particolare tenuità, reato che interessa lo stesso giudizio de quo, in ragione dell’inconsueta ampiezza dell’intervallo tra minimo e massimo di pena detentiva (da quindici giorni a sei anni di reclusione), della larga sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata (da due anni a otto anni), nonché dell’asimmetria scalare tra gli estremi del compasso, giacché mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme. Allo stesso modo, la suddetta pronuncia ha evidenziato che “se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione”, cioè una pena che, “secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività”: per ovviare all’incongruenza “oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità”[1].
“Per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui”, pur rigettando la questione, la medesima corte nel 2017 aveva invitato il legislatore ad occuparsi di una riforma del testo dell’art. 131 bis che tenesse conto anche del minimo edittale. Viceversa, il legislatore si è dimostrato sordo agli inviti della Corte Costituzionale la quale non ha potuto fare a meno, riscontrato il vizio di irragionevolezza della scelta legislativa e superando legittimamente i limiti del sindacato sulle scelte politico – legislative, di dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 131 bis c.p. . E lo ha fatto sottolineando che se il legislatore non ha previsto espressamente un limite minimo per la ricettazione attenuata e pertanto si applica il limite minimo di 15 giorni di reclusione, è evidente che nella scelta politico-criminale ha valutato tale illecito come dotato di una modesta entità offensiva. Pertanto risulta incongruo, illogico e irrazionale che ad una condotta che sia stata già identificata portatrice di una ridottissima capacità lesiva del bene giuridico tutelato, non possa applicarsi l’esimente in questione. Ebbene la Corte giunge, quindi, alla declaratoria di incostituzionalità della norma del 131 bis c.p., si badi bene, nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’esimente ai casi in cui non sia previsto un minimo edittale, e quindi esso si identifichi per legge nella misura di giorni 15 di reclusione.
La sottolineatura è necessaria perché la Corte non ha sindacato e sanzionato la norma nella parte in cui non prevede un limite minimo, ritenendo incongrua la sua assenza, né, pare doversi ritenere, avrebbe potuto farlo in quanto, come già affermato solennemente nella sentenza di rigetto della questione del 2017, la individuazione delle soglie minime e massime di pena cui è subordinata l’operatività dell’esimente è certamente materia di competenza esclusiva del potere legislativo e sottratta ad un sindacato di legittimità costituzionale. Solo la manifesta irragionevolezza del quantum di pena può condurre ad un intervento del giudice delle leggi, caso che tuttavia non è riscontrato nelle sentenze di cui ci si occupa. Pertanto, restando ancorata alla vicenda del caso concreto, stabilisce l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede la possibilità di applicazione della stessa ai soli casi in cui non sia previsto un minimo edittale. La valutazione di irragionevolezza investe pertanto i soli casi limite del minimo edittale…minimo.
La Corte interviene quindi sui casi al confine, quelli di eclatante ridotta offensività che tuttavia non vengono sottoposti all’applicazione potenziale del 131 bis c.p. perché relativi a reati aventi un minimo edittale che supera comunque i 5 anni di reclusione.
Ad ogni modo, le critiche che erano state rivolte alle teorie che ritenevano e ritengono incongrua l’assenza di un limite minimo, erano basate sulla considerazione che l’istituto della suddetta causa di non punibilità è volto ad accertare un fatto sì offensivo ma non bisognoso di pena, sulla base degli indici e dei requisiti che lo stesso art. 131 bis c.p. prevede. Pertanto, deve ritenersi destinato a garantire un particolare vantaggio nei confronti dei soggetti resisi autori di reati che prevedono una pena comunque vicina al massimo di anni 5 di reclusione, sottraendoli ad una pena detentiva comunque gravosa in virtù di requisiti che dimostrino l’assenza di un effettivo bisogno di pena. Il reato viene considerato, in questi casi, un mero incidente di percorso sulla strada dell’attore, che non necessita di attività di risocializzazione o della concretizzazione di finalità generalpreventive o specialpreventive. D’altra parte, nel caso di pene di modesta o modestissima entità, la necessità dell’istituto perde quasi valore. Lì dove la pena minima sia di giorni 15, infatti, tra l’esecuzione della pena e l’applicazione della causa di non punibilità non vi è una differenza così netta e determinante come sarebbe quella tra lo scontare anni di reclusione a fronte della assenza di ogni punizione.
Altri hanno, al contrario, ritenuto che proprio lì dove il trattamento sanzionatorio sia minimo, ed in questo senso si esprime la sentenza qui in commento, sia più necessario evitare al reo l’ingresso nel contesto carcerario, seppur per un breve periodo.
Ma tant’è e, allo stato, non può che prendersi atto che il 131 bis c.p. si applicherà anche ai reati che superino la soglia dei 5 anni di reclusione nel massimo ma che, in virtù dell’ampio compasso di cui più sopra, abbiano un minimo sanzionatorio indeterminato ed innominato e pertanto siano investite dalla previsione legale del minimo di 15 giorni di reclusione previsto per i delitti.
2. Gli effetti sui giudicati di condanna, ruolo del giudice dell’esecuzione ed una trasversale necessità di limiti
Immediatamente dopo il deposito del dispositivo della sentenza si è posto il problema della sorte dei giudicati già intervenuti e basati sulla norma ormai incostituzionale.
Per addivenire ad una disamina consapevole e precisa del tema è necessario procedere ad una serie di annotazioni preliminari che involgono tematiche non solo complesse ma oggetto di costante dibattito ed evoluzione.
Il primo principio cardine in materia è certamente da individuare nella intangibilità dei rapporti giuridici già esauriti e quindi, nella specie, nella incontrovertibilità delle pene ormai definitivamente scontate al momento in cui perviene la dichiarazione di incostituzionalità. In tali casi, è ovvio, l’esigenza di evitare la inflizione di una condanna, per così dire, incostituzionale viene meno. Viceversa, ove sia maturato il giudicato e la pena sia ancora in esecuzione, il procedimento deve considerarsi ancora sub iudice e perciò l’autorità giudiziaria dell’esecuzione è abilitata ad intervenire per rimuovere le conseguenze comminatorie di condanna derivanti da una norma incostituzionale, oppure ad adottare il trattamento sanzionatorio più mite adatto al caso di specie[2]. Come vedremo, tuttavia, a seconda di come si intenda questo assunto, i risvolti in termini di ampiezza del sindacato del giudice dell’esecuzione mutano con effetti sostanziali soprattutto nel diverso campo delle pronunce in contrasto con le sentenze Cedu.
Per il momento, ci si può limitare ad aggiungere che è evidente che tale intervento possa avere un senso soltanto ove le conseguenze dell’incostituzionalità siano in bonam partem e, in via di principio, che ulteriore limite è che quello di esecuzione non si trasformi in un aggiuntivo e non previsto grado di giudizio. Quanto agli effetti in bonam partem, essi devono ritenersi certamente gli unici utili alla tutela dei principi di legalità che ispirano anche la L. 87 del 1953 la quale disciplina la costituzione ed il funzionamento della Corte Costituzionale. Ebbene, dalla disciplina di questa norma emerge la tensione tra la natura ricognitiva della dichiarazione di incostituzionalità, che era esistente dal momento della emanazione della norma o a partire dall’intervenuto conflitto con altre fonti sovraordinate, con il principio dell’affidamento del singolo sulla norma che ha ritenuto valida nel momento in cui si è prefigurato le conseguenze della sua condotta. La norma incostituzionale è considerata come mai esistita nell’ordinamento, eppure produce degli affidamenti legittimi di cui bisogna tener conto.
Ciò brevemente detto, la giurisprudenza ha ampiamente arato il campo dei poteri del giudice dell’esecuzione senza mai poter pervenire, in assenza di una disciplina legislativa puntuale, ad una precisa individuazione dei limiti che tale organo incontra. Nella specie, infatti, l’art. 673 c.p.p. si interessa del caso, probabilmente più semplice, in cui a venir dichiarata incostituzionale sia la norma incriminatrice. Non si ritiene applicabile lo stesso articolo al caso in cui a subire la pronuncia di incostituzionalità sia una norma che ne regola le conseguenze in termini di punibilità. Si è ritenuto strumento utile a tali fini, l’art. 670 c.p.p.[3] che fa riferimento al titolo esecutivo mancante, tale potendo essere considerata anche la sentenza che prende le mosse da una norma dichiarata inesistente nell’ordinamento ab origine a causa della sua incostituzionalità. Ciò in combinato disposto con l’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953 il quale fa riferimento alla “norma”, dichiarata incostituzionale, in applicazione della quale una condanna penale è stata pronunciata. Il generico riferimento deve ritenersi rivolto non solo alle norme incriminatrici, ma anche a quelle incidenti sul trattamento sanzionatorio, da cui consegue che pure la dichiarazione di illegittimità di queste ultime possa riverberarsi post-iudicatum, determinando la cessazione dell’esecuzione della quota di pena inflitta in applicazione della norma illegittima.[4] L’approccio che spesso risulta all’origine della fallacia in materia e che ha sovente determinato un ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione, giungendo all’obiettivo meritorio attraverso una strada probabilmente non percorribile, trova la sua fonte nella concezione che l’attività del giudice dell’incidente di esecuzione debba confrontarsi direttamente con la regola della legge sanzionatoria e debba subire le sue vicende, consentendo una nuova applicazione o disapplicazione del suo dettato inciso dalla pronuncia di illegittimità costituzionale. Questo orientamento, sostenuto eminentemente dalla Suprema Corte, trova compiuta origine nell’assunto che tale attività di rimaneggiamento del giudicato sia espressione di un principio che attiene alla fisiologia del ruolo del giudice finché la questione rimanga sub iudice[5]. Piuttosto, sembra più corretto evidenziare che in materia interviene il fondamentale principio della intangibilità del giudicato e che tale possibilità di incisione del decisum con valore di giudicato risulti essere una circoscritta eccezione a detto principio, proprio in virtù della forza dirompente che deriva dal giudicato costituzionale e dei valori fondamentali che esso tutela. Il giudice dell’esecuzione deve confrontarsi con la regola del caso concreto, con la sentenza emanata, ed emendare quella soltanto. E’ il comando del caso specifico che si sostanzia nel giudicato, quindi nella concreta applicazione della norma incostituzionale, a dover subire l’intervento del giudice dell’esecuzione che deve quindi prendere atto del venir meno delle porzioni di sentenza che si basano sulla norma incostituzionale. Tanto tale processo non appartiene alla fisiologia dell’attività giudiziaria bensì al rimedio del patologico, che è solo e soltanto in virtù della speciale previsione dell’art. 30, comma 4 della summenzionata norma, che il giudicato può subire un intervento, sia esso totalmente caducatorio o modificativo, che deve ritenersi eccezionale. Come ha brillantemente evidenziato un autore[6], la distinzione ed il trapasso dalla norma alla regola applicata in sentenza è ben evidenziato dai tempi verbali utilizzati nell’articolo citato della norma del 1953. Infatti, essa specifica che quando è stata pronunciata sentenza di condanna in applicazione della norma dichiarata illegittima ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali: si opera una piana distinzione tra il momento passato dell’applicazione della norma e quello presente in cui il giudice dell’esecuzione non può fare altro che riscontrare la caducazione degli effetti penali. E non potrebbe farlo, si ritiene, ove mancasse la disposizione dell’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953.
Precisare ciò è di basilare importanza non solo per i riflessi che tale tesi potrebbe produrre sulla ampiezza dei poteri del giudice dell’esecuzione[7], ma soprattutto nello scongiurare il disinvolto e fisiologico utilizzo dell’incidente di esecuzione per reagire alle sentenze della Corte Edu[8] nei casi dei c.d. fratelli minori, così come si è paventato nel caso Scoppola-Ercolano[9] e, più recentemente, per c.d. i fratelli minori del caso Contrada.
Ebbene, i casi più eclatanti hanno riguardato, tra le altre, la materia degli stupefacenti[10] rispetto alla quale però, per inciso, non si era verificato un vuoto di tutela come esito del fenomeno di declaratoria di incostituzionalità della Legge Fini – Giovanardi (vuoto che caratterizza il caso di specie), bensì una riespansione della disciplina previgente dopo la pronuncia della Corte Costituzionale che sanzionava la equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti. Ad ogni modo, l’intervento del giudice dell’esecuzione è stato ritenuto idoneo ad utilizzare tutti i poteri cognitivi utili a superare l’applicazione della norma incostituzionale ed a rimodulare il trattamento sanzionatorio per ricondurlo a legalità[11], compresa l’applicazione delle pene accessorie. Ciò concettualmente in controtendenza con una più risalente tesi che riteneva l’intervento del giudice dell’esecuzione legittimo solamente se “a rime obbligate” cioè solo ove la decisione, anche additiva, fosse meramente dichiarativa di quanto già prescritto dalla norma come derivante dall’emenda della Corte Costituzionale, quasi che potesse dar luogo solo ad una mera operazione matematica di sostituzione della pena “vecchia” con quella “nuova”.
La regola generale che investe l’operato del giudice dell’esecuzione e si erge a baluardo insuperabile si sostanzia nella prescrizione che esso non possa porsi in contrasto col dictum del giudice della cognizione, proprio per evitare che l’incidente di esecuzione si sostanzi in una forma larvata di un nuovo grado di giudizio, una non prevista impugnazione straordinaria. Pertanto il giudice dell’esecuzione non potrà mai controvertere quanto deciso dal giudice della cognizione, anche se soltanto la questione sia stata assorbita, quindi non oggetto di espressa pronuncia del giudice, ma viceversa abbia fatto parte degli elementi sottoposti a valutazione e su di essa sia calato il giudicato.
Infatti, lo strumento dell’art. 670 c.p.p. è stato spesso utilizzato per rimuovere gli effetti di una sentenza che condanni ad una pena illegale solo ove essa sia conseguenza di una mera “svista” o dimenticanza percettiva e non di un errore di valutazione che solo tramite i rimedi tipici di impugnazione potrebbe essere contestato.
Al contrario, nel caso di pronuncia incostituzionale, al giudice dell’esecuzione è affidato un ruolo di cognizione più ampio che riguarda anche il decisum del giudice della cognizione. Ciò in quanto quest’ultimo era basato sulla norma dichiarata incostituzionale e quindi definitivamente esclusa ex tunc dall’ordinamento giuridico. Si crea un vuoto che il giudice dell’esecuzione dovrà colmare con la sua attività che, come hanno evidenziato le SS.UU. Gatto, ha un ampio margine di operatività e comprende, come detto, anche la inflizione di pene accessorie. Allo stesso modo lo strumento dell’incidente di esecuzione è stato utilizzato, o se ne è paventato l’uso, per rimuovere le contraddizioni derivanti dal conflitto con una sentenza della Corte EDU.
Proprio in questa materia, per breve inciso, si acuiscono le difficoltà derivanti da una normativa poco esplicita sul ruolo del giudice dell’esecuzione lì dove rimangono ancora fumosi i confini con la revisione “europea”. Pertanto negli ultimi decenni, più che in tempi passati, si è proposto il tema della esatta collocazione dei vari poteri all’interno della vicenda processuale, materia che sembra necessitare di un intervento che chiarisca limiti e confini, non solo per le vicende che coinvolgono autorità giudiziarie sovranazionali ma anche per quelle tutte nostrane in cui è la Corte Costituzionale ad incidere sulla norma penale.
3. La comprensibile mitezza della Corte e i limitati poteri del giudice dell’esecuzione
In questo contesto si inserisce la questione de quo, e pur senza prendere posizione sulla teoria ormai prevalente in giurisprudenza che impone una lettura ampia dei poteri del giudice dell’esecuzione, si pongono dei dubbi che appaiono essere fondati. Ebbene, in primo luogo bisogna sottolineare che probabilmente l’intervento del Giudice delle Leggi non basta, o meglio non soddisfa appieno le necessità di ragionevolezza del sistema giuridico. Infatti, esso parte dall’assunto che lì dove il giudice non preveda espressamente il minimo di pena per il reato, individui quella situazione come di offensività così esigua da non necessitare quasi menzione o disciplina. L’obiezione più basilare è che situazione non sostanzialmente dissimile è quella dei reati che prevedono una pena minima di poco differente, quale quella di 30 giorni o di due mesi o così via. Anche in quei casi, seppur non operi l’automatismo dei 15 giorni, il legislatore ritiene la condotta potenzialmente portatrice di una offensività minima. Si tratta sempre di reclusione tipica dei delitti e di un trattamento di privazione della libertà scontato nelle strutture carcerarie e una differenza di pochi giorni non sembra poter giustificare una diversa intenzione o una differente valutazione. Quindi sembra che la Corte si sia limitata alla prudenza nella sua declaratoria, limitandosi a censurare le manchevolezze del 131 bis in relazione al reato oggetto della questione dinanzi ad essa sollevata. Ben avrebbe potuto sindacare, sempre sulla base della irragionevolezza, la generale mancanza di un limite minimo nell’art. 131 bis.
L’approccio rimane morbido e mite, e forse non avrebbe potuto essere altrimenti, come detto, per non contraddire la precedente pronuncia del 2017 e non arrogarsi poteri di politica legislativa, ma anche e soprattutto per non produrre necessità di ritornare su tutti i giudicati ancora in esecuzione che potenzialmente avrebbero potuto godere di una pronuncia di lieve entità.
Probabilmente una strada ulteriore poteva essere quella di dichiarare l’incostituzionalità dell’intero articolo 131 bis, che non avrebbe prodotto alcun nocumento ai soggetti che sono stati già destinatari di una pronuncia in tal senso, in quanto la decisione della Corte sarebbe stata in malam partem. Tuttavia ciò avrebbe privato dello strumento tutti i soggetti che nell’intervallo tra la declaratoria di incostituzionalità e la possibile emenda del legislatore, chiamato ad introdurre un nuovo 131 bis, avessero scontato interamente la pena. Ciò avrebbe creato dei vuoti di tutela che sarebbero stati probabilmente tacciati come produttivi di una ingiustificata disparità di trattamento.
Ulteriore strumento di dialogo avrebbe potuto essere quello di un rinvio a tempo, come quello adottato nella vicenda Cappato, che, seppur non incidente su beni di così alto rango, ben avrebbe potuto rappresentare l’ultima chance data al legislatore prima di un intervento più penetrante del Giudice delle Leggi.
Inoltre, non può risolversi in maniera semplicistica la questione dell’attività del giudice dell’esecuzione. Qualunque siano i suoi poteri ed al netto della diatriba su questi, qualcuno di coloro che ritengono una accezione ampia degli stessi, sarebbe certamente spinto ad individuare nella mera rivalutazione quella che deve essere l’attività del giudice dell’esecuzione, chiamato quindi a decidere se ci siano o meno i presupposti per la non punibilità. Ebbene, così non sembra poter essere, o almeno non pare potersi affermare ciò in via assoluta, proprio a causa della sovrapposizione necessaria tra la valutazione dei requisiti dell’art. 131 bis c.p. e quella già operata dal giudice della cognizione ex art. 133 c.p. che si riscontrerebbe in tal caso. Come sopra anticipato, infatti, l’unico limite certo ed incontrovertibilmente individuato, anche dalla giurisprudenza più ampliativa che si è occupata della materia, è certamente quello di non sovrapposizione di tali giudizi al fine di evitare la moltiplicazione di gradi di giudizio non previsti dal codice di procedura. Il giudice dell’esecuzione non potrà, infatti, ritornare su questioni già oggetto della cognizione. Potrà farlo solo ove tali valutazioni cadano come effetto della declaratoria di incostituzionalità della norma che le sostiene. Nel caso di specie, l’incostituzionalità ha coinvolto soltanto l’art. 131 bis nella parte in cui non è consentita la sua applicazione ai casi di minimo edittale di 15 giorni di reclusione e di certo non le norme che impongono la valutazione del comportamento del reo ex art. 133 c.p., valutazione che ha già operato il giudice della cognizione, e che dovrebbe compiere anche il giudice dell’esecuzione per verificare i requisiti del 131 bis. Tanto tale comunanza degli oggetti della ponderazione è effettivamente esistente, che tale ultima norma menziona lo stesso art. 133 c.p., sottolineando pertanto che quella del 131 bis c.p. è una valutazione complessiva che tiene conto, ai fini della qualificazione della condotta come di particolare tenuità e non abituale, delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, profili da considerare già ai sensi dell’articolo 133, primo comma c.p. . E’ evidente che lo spazio di operatività del giudice dell’esecuzione sarà compresso dalle valutazioni comunque compiute dal giudice della cognizione ai sensi del 133 c.p. per la quantificazione della pena. Quest’ultimo è sempre chiamato a valutare la gravità del reato e la capacità a delinquere, quindi certamente quelle modalità della condotta da considerare ai fini del 131 bis e che sono un indice sia della gravità del reato (art. 133, comma 1, n. 1), sia della capacità a delinquere (art. 133, comma 2, n.3). A meno che non si sia effettivamente stabilita nel giudicato di condanna la pena minima di giorni 15, quale limite invalicabile oltre il quale il giudice non può discendere e quale espressione del riconoscimento della sostanziale esiguità dell’offesa arrecata dalla condotta criminosa al bene giuridico, sarà oltremodo complesso ritenere che il giudice della cognizione non abbia già considerato il fatto come di una gravità non lieve e soprattutto addurre la giustificazione di una tale affermazione. A meno, inoltre, di specifico riconoscimento nel giudicato della sostanziale lieve gravità del reato, rispetto al quale il giudice dimostra di non poter fare altro che applicare la pena minima, in assenza della possibilità di applicare il 131 bis nella vigenza della sua versione ancora non destinataria della pronuncia di incostituzionalità, si ritiene molto complesso accordare al g.e. la possibilità di tornare sulla questione e determinarsi nel senso della non punibilità. Tale difficoltà di coordinamento discende, lo si ripete, dalla natura del giudizio richiesto per l’applicazione del 131 bis. Anche la collocazione topografica all’interno del codice non è casuale e impone la qualificazione di esso come di un giudizio complessivo che si affianca a quello necessario per la quantificazione della pena. Essendo un giudizio complessivo, nasce per essere compiuto nella sede di cognizione lì dove il giudice ha a disposizione il più ampio spazio di manovra per la valutazione totale della condotta per come caratterizzata nelle sue molteplici sfaccettature. E’ evidente che il g.e., per quanto ampi siano i suoi poteri, non avrà mai la stessa possibilità di valutare la vicenda nel suo complesso, ma si troverà sempre a risolvere a valle delle incongruenze o delle sopravvenienze che provengono da monte. Colmerà il vuoto, o tapperà la falla, per come potrà, ma in virtù di quanto evidenziato, devono ritenersi decisamente angusti gli spazi operativi ad esso riservati a seguito della declaratoria di incostituzionalità de quo. Sarà sempre oltremodo complesso, a fronte di una pena anche esigua o mite, poter operare un giudizio che incide su spazi già colmati dalla fase di cognizione. Anche se ad altri fini, la condotta è già stata oggetto di valutazione e la compatibilità di quest’ultima con un giudizio che individui la lieve entità del fatto è tutt’altro che scontata. Il g.e. sarà obbligato a confrontarsi con la sentenza passata in giudicato e da questa dovrà trarre gli elementi che giustifichino il suo ulteriore intervento. Quantomeno dovranno riscontrarsi, in tale dettato, degli indici da cui si possa esplicitamente o implicitamente desumere quantomeno che il giudice della cognizione non abbia giudicato come sostanzialmente non lieve il fatto. E ciò è sicuramente complesso in quanto lì dove il giudice della cognizione sa di non poter operare con il 131 bis, e quindi se pure le parti lo domandano la questione è risolta facendo valere la ragione più liquida della inammissibilità, certamente non indugerà sui profili che potrebbero condurre all’applicazione potenziale della causa di non punibilità. Le maggiori difficoltà e le maggiori incertezze si avranno lì dove il g.e. rinvenga nell’implicito della sentenza le ragioni che gli consentono di esercitare il proprio potere decisorio ai fini del 131 bis. Se certamente la condanna, nell’assenza della possibilità di utilizzare il 131 bis, non può essere considerata un indice di incompatibilità con la lieve entità, perché quello lieve è comunque un fatto antigiuridico ed offensivo seppure ritenuto non punibile per ragioni di opportunità criminologica, sarà arduo individuare viceversa delle valide ragioni di compatibilità lì dove la condanna si erga, anche di poco, dalla base del minimo edittale. E’ complesso desumere da una condanna, dalle valutazioni sulla condotta operate per determinare il quantum di pena e soprattutto dal non detto della sentenza, che il giudice della cognizione non abbia valutato come non lieve il fatto, in modo tale che, ove fosse stato possibile applicare il 131 bis al caso di specie, avrebbe potenzialmente potuto scegliere tale opzione.
Quella che appariva una semplice conseguenza della declaratoria di incostituzionalità, sembra essere un difficile banco di prova della compatibilità del giudizio complessivo di cui al 131 bis con una fase che pare non addirsi del tutto ad esso.
Per concludere ed in sintesi, quello composto dal 131 bis e del 133 c.p. è un binomio dai legami saldi che difficilmente consente al g.e. di penetrare nelle strette intersezioni dei suoi nodi. [12] Quello sulla particolare tenuità del fatto è un giudizio che assorbe valutazioni oggettive e soggettivo – personologiche tipiche di una visione complessiva della vicenda, le medesime che vengono compiute per la quantificazione della pena ex art. 133 c.p. E’ inoltre una valutazione che è quanto di più lontano dalle “rime obbligate” di cui più sopra si è dato conto e che rappresentavano un confine, ormai antico e ampiamente valicato, dell’attività del g.e. ma che comunque incontra o incespica, a quanto pare, nel suo limen attuale seppur individuato con grossolana certezza, o incertezza, in ragione della persistente fumosità dell’orizzonte giuridico in materia. Si tratta di giudicare considerando il passato, il presente e la prognosi sul futuro del reo, attività che risulta complessa da operare nella sede dell’esecuzione.
Una parziale giustificazione ai dubbi che si pongono sulla applicabilità del 131 bis in tale sede è ulteriormente fornita dalla disciplina del 620 c.p.p., cioè della cassazione della sentenza senza rinvio. Quando si è posto il problema se fosse possibile per la Corte di Cassazione applicare direttamente il 131 bis c.p. ex art. 620 c.p.p. lett. I) , cioè in quei casi in cui si “ritenga superfluo il rinvio, ovvero può essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari”, una parte della giurisprudenza ha risposto in modo affermativo ma con dei limiti. Una pronuncia[13] ammette l’utilizzo della causa di non punibilità de quo “quando risulti palese, nella sentenza impugnata, la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi” che giustifichino appunto l’utilizzo del 131 bis. Se comunque non si ignorano le differenze sostanziali in termini di accesso al fatto ed alla prova che connotano il giudizio di Cassazione e quello di esecuzione, ebbene, l’utilizzo della causa di non punibilità, in una sede che latamente potrebbe essere comparata con quella dell’esecuzione per il ridotto spazio di manovra concesso al giudice, è subordinata al fatto che sia “palese” la lieve entità del fatto. Sebbene anche la definizione di un tale termine e la sua concreta espressione nel linguaggio tecnico giuridico ponga non poche difficoltà, ciò è comunque prova non solo della sostanziale residualità casistica di una pronuncia di tal fatta, ma soprattutto che un sindacato come quello del 131 bis non può essere generalmente operato ex abrupto in un contesto che non sia dotato delle caratteristiche per contenerlo e sostenerlo. Salve le dovute eccezioni che si ritiene debbano intendersi, come più sopra chiarito, nel caso di una sentenza più che “loquace” sul punto di lieve entità o in una pronuncia che comunque non superi il minimo del minimo edittale previsto per legge per i delitti.
[1] Dal testo della sent. 156 Corte Cost., del 21 luglio 2020 che a sua volta richiama in più punti il dictum della sentenza n. 207 del 2017 del medesimo consesso.
[2] BontempellI, La resistenza del giudicato alla violazione del principio di legalità penale, in Rev. bras. der. proc. pen., 2018, n. 4, 1059 s.; Centorame, La cognizione penale in fase esecutiva, Torino, 2018, 77.
[3] Corbi- Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, 223; Caprioli- Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, 264.
[4] Lavarini L’incidente di esecuzione a rimedio della pena e della condanna illegale: tra riforme “pretorie” e mancate riforme legislative, in Archivio Penale, n. 3/2019; Caprioli, Il giudice e la legge processuale: il paradigma rovesciato, in Ind. pen., 2017, n. 3 (Appendice), 967
[5] Vigoni, Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, in Proc. pen. giust., 2015, n. 4, 8; Gambardella, Norme incostituzionali e giudicato penale: quando la bilancia pende tutta da una parte, in Cass. pen., 2015, 82 ss; Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, in Dir. pen. cont. (Riv. trim.), 2015, n. 1, 32 s.; Vicoli, L’illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria travolge il giudicato: le nuove frontiere della fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni unite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1006 ss
[6] B. Lavarini, I rimedi post iudicatum alla violazione dei canoni europei, in I principi europei del processo penale, a cura di Gaito, Roma, 2016, p. 112.
[7] Caprioli, Giudicato e illegalità della pena: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale, in Bargis (a cura di), Studi in ricordo di Maria Gabriella Aimonetto, Milano, 2103, 286 ss
[8] Randazzo, Interpretazione delle sentenze della Corte europea dei diritti ai fini dell’esecuzione (giudiziaria) e interpretazione della sua giurisprudenza ai fini dell’applicazione della CEDU, in Rivista AIC, 2015, n. 2, 7.
[9] Esposito, Il divenire dei giudici tra diritto convenzionale e diritto nazionale, in Archivio Penale 2018, 39 ss.
[10] Lavarini, Incostituzionalità della disciplina penale in materia di stupefacenti e ricadute ante e post iudicatum, in Giur. cost., 2014, 1907.
[11] Sentenza Gatto, Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in Cass. pen., 2015, p. 41, con nota di M. Gambardella,op. cit.; Si veda altresì G. Romeo, Le Sezioni Unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di una pena “incostituzionale”, in Dir. pen. contemp., 17 ottobre 2014.
[12] Così come ha eminentemente evidenziato Cass., SS.UU., 25 febbraio 2016, n. 13682
[13] Cass., sez. pen. VI, 16 settembre 2015, n. 45073; si veda anche Cass., sez. pen. V, 7 ottobre 2015, n. 48020 secondo la quale è comunque un’ipotesi eccezionale quella che vede la cassazione senza rinvio della sentenza con applicazione del 131 bis a casi in cui appaia certa ed incontrovertibile l’esistenza dei presupposti richiesti dalla norma.
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Attilio Simonelli
Il sottoscritto ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Classico Tulliano di Arpino (FR) nell’anno scolastico 2009/2010 con la votazione di 100/100 con lode, successivamente in data 24/09/2015 ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza (LMG/01) presso l’Università degli Studi Roma Tre, con votazione di 110/110 con tesi “di particolare valore” in Diritto Amministrativo (Prof.ssa Sandulli) e correlazione in diritto privato e commerciale (Prof.ri Clarizia e Fortunato).
Terminati gli studi universitari ha conseguito il tirocinio di 18 mesi ex art. 73 d.l.69/2013 presso la sezione civile e fallimentare del Tribunale di Frosinone, collaborando col magistrato affidatario Dr. Andrea Petteruti, con la votazione di 10/10.
Negli anni 2018 e 2019 ha seguito i corsi di preparazione al concorso in magistratura tenuti dal Cons. Roberto Giovagnoli in Roma.
Il sottoscritto ha poi pubblicato diversi contributi su riviste giuridiche tra cui:
“Scambi senza accordo: evoluzione delle invalidità negoziali e ruolo del giudice” Giuricivile, 2019, 1 (ISSN 2532-201X) (https://giuricivile.it/scambi-senza-accordo/) ; “Revirement sull’assegno divorzile: tornare indietro per andare avanti?” su Giuricivile 2018, 12 (ISSN 2532-201X) (https://giuricivile.it/revirement-sullassegno-divorzile-tornare-indietro-per-andare-avanti/)
In data 07/11/2019 ha conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense presso la Corte di Appello di Roma.
Attualmente ha in corso una collaborazione con Giappichelli Editore per la stesura di un contributo nella prossima pubblicazione relativa all’argomento della verifica dello stato passivo fallimentare che vedrà la luce nell’autunno del 2020.
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