Art. 572 c.p.: la nuova disciplina dei maltrattamenti contro familiari e conviventi
Sommario: 1. Collocazione ed evoluzione della norma – 2. La condotta nel delitto di maltrattamenti – 3. Il soggetto attivo del reato – 4. L’elemento soggettivo del reato – 5. I maltrattamenti e le relazioni familiari – 6. Gli eventi ulteriori non voluti come conseguenza della condotta – 7. La velocizzazione processuale a seguito della legge 19.07.2019, n. 69
1. Collocazione ed evoluzione della norma
La collocazione dell’art. 572 nel codice penale lascia poco spazio interpretativo al dubbio se il reato in questione nelle intenzioni dei compilatori del codice avesse come bene tutelato la famiglia o la persona. Invero, se i codici italiani preunitari conoscevano solo il reato di maltrattamenti tra coniugi (con l’obiettivo di tutelare esclusivamente le relazioni coniugali), il codice Zanardelli collocava il delitto di maltrattamenti tra i reati contro la persona (art. 391), in quanto riteneva prevalente la lesione dell’integrità psicofisica della vittima. Tuttavia, nella formulazione della norma tra l’autore e la vittima era sempre presupposto un legame ed una relazione familiare: infatti, la disposizione puniva i maltrattamenti “verso persone della famiglia”; invece, il Codice Rocco riproponeva la collocazione del reato nell’ambito dei reati contro la famiglia, in significativa simmetria con quello di “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, allargando la cerchia dei soggetti passivi e confermando che il reato de quo si consuma con il compimento di atti lesivi dell’integrità fisica o morale della persona. In materia, è intervenuta la legge 01.10.2012, n. 172[1], che non solo ha offerto una tutela più ampia ai minori degli anni quattordici, ma ha anche previsto l’inasprimento della sanzione e l’introduzione delle persone “comunque conviventi” tra i soggetti passivi del reato. Da qui, la modifica della rubrica della norma da “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”[2]. Inoltre, il d.l. 14.08.2013, n. 93[3] ha inserito all’art. 61 c.p. (“Circostanze aggravanti”) il n. 11-quinquies il cui testo prevede, come aggravante comune, “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”. Da ultimo, la l. 19.07.2019, n. 69[4] ha ulteriormente modificato il testo dell’art. 572 c.p. che dopo quest’ultima modifica è il vigente[5].
2. La condotta nel delitto di maltrattamenti
– Abitualità della condotta
La recente giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. VI, 21.01.2015, n. 12605; Cass. pen., Sez. VI, 14.05.2015, n. 20126) ha osservato che il reato in parola è costituto da una condotta connotata dall’abitualità, ovvero da comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo, ribadendo che “tali comportamenti possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, ma precisano che si deve trattare di “comportamenti idonei ad imporre alla persona offesa un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile” senza fare espresso riferimento alla condizione di prostrazione in cui dovrebbe venirsi a trovare la vittima. In questa nozione di maltrattamenti “rientrano anche fatti lesivi dell’integrità solo morale del soggetto passivo, che possono consistere in parole che offendono la dignità della persona, purché tali condotte abbiano i caratteri della sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa, con conseguente intollerabile degenerazione del rapporto familiare”. Nella prospettiva di approfondimento dell’elemento dell’abitualità, Cass. pen., Sez. VI, 09.10.2018, n. 6126 e Cass. pen., Sez. VI, 19.10.2017, n. 56961 hanno affermato che, ai fini della configurabilità del reato, è richiesto il compimento di atti che non siano sporadici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo la persistenza. Inoltre (Cass. pen., Sez. III, 22.11.2017, n. 6724) non è necessario che il comportamento maltrattante venga posto in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la sua ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo. Pertanto, ai fini della ricostruzione del reato di cui all’art. 572 c.p., è essenziale l’accertamento dell’abitualità e della ripetitività della condotta in un ambito temporale rilevante, senza che la valutazione di offensività possa arrestarsi a fronte di condotte che non culminino in veri e propri atti di aggressione fisica. Per quanto rappresentato, l’evento tipico è dato dalla situazione continuativa di sofferenza fisica o morale per il soggetto passivo, come conseguenza degli atti di maltrattamento; pertanto, si ha la consumazione del reato quando si verifica la situazione di sofferenza continuativa. Di conseguenza, non è configurabile il tentativo, in quanto prima che si verificano i reiterati maltrattamenti i singoli fatti non sono penalmente rilevanti o costituiscono un reato a sé stante.
– Lo stato di sofferenza della vittima come evento sufficiente per la configurabilità del delitto di maltrattamenti
Come affermato da Cass. pen., Sez. VI, 09.11.2006, n. 3419, l’offensività del bene protetto dalla norma si realizza nel momento in cui si crea per la persona offesa la situazione di sofferenza in cui è costretta a vivere; infatti, il verificarsi di tale situazione integra l’evento, non essendo richiesto che dalla stessa derivi un ulteriore danno all’integrità fisica o psichica del soggetto passivo. In altri termini, la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze. Ebbene, il delitto, per la sua configurabilità, esige un’abituale sottoposizione della persona offesa a sofferenze fisiche e psichiche, espressione di un atteggiamento di prevaricazione da parte del soggetto attivo del reato (cfr. ex multis: Cass. pen., Sez. VI, 22.12.1992; Cass. pen., Sez. VI, 26.06.1996); invero, Cass. pen., Sez. VI, 06.07.2004, n. 34522 ha parlato di “modello di padre famiglia prevaricatore”.
– La non episodicità delle condotte che integrano i maltrattamenti
Ai fini della configurazione del reato de quo non sono sufficienti singoli episodi. Infatti, secondo Cass. pen., Sez. VI, 02.12.2010, n. 45037, non integra il delitto de quo la consumazione di atti episodici non inquadrabili in una cornice unitaria, caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita vessatorio. I maltrattamenti possono anche manifestarsi in un limitato periodo di tempo, nel senso che se da un lato è vero che il delitto de quo è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti da un’unica intenzione criminosa, dall’altro, è anche vero che “ad integrare l’abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, anche se per un limitato periodo di tempo” (Cass. pen., Sez. V, 09.01.1992). Pertanto, è sufficiente un lasso di tempo, ancorché limitato, utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa.
3. Il soggetto attivo del reato
Sebbene l’art. 572 c.p. statuisca che il reato di maltrattamenti può essere commesso da “chiunque”, si tratta di un reato proprio, in quanto il soggetto agente deve essere legato alla vittima da un rapporto familiare o deve essere investito di autorità nei confronti della stessa o, in ogni caso, deve trovarsi in una delle situazioni di affidamento previste dalla norma.
4. L’elemento soggettivo del reato
Quanto all’elemento psicologico, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità[6] per la configurabilità del reato de quo è richiesto il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a sofferenze fisiche e morali in modo abituale. In altri termini, non è richiesto che il soggetto attivo sia animato dal fine di maltrattare la vittima, essendo sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima medesima. Infine, il delitto può essere integrato anche da condotte omissive, individuabili nell’astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta[7].
5. I maltrattamenti e le relazioni familiari
Il legislatore con la l. n. 172/2012 ha esteso l’area della punibilità, modificando la rubrica dell’art. 572 c.p. in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, includendo nella disposizione penale i parenti conviventi, il convivente more uxorio e le persone che convivono all’interno di uno stesso nucleo familiare, ancorché non costituito con il matrimonio.
Per quanto concerne la famiglia di fatto, già Cass. pen., Sez. III, 13.11.1985 aveva precisato che il reato de quo non presuppone necessariamente l’esistenza di vincoli di parentela civili o naturali, in quanto sussiste anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio, perché tra le parti si crea quel rapporto stabile di comunità familiare che il legislatore ha ritenuto di dover tutelare[8].
Tuttavia, anche prima della suindicata legge era chiaro che, agli effetti del delitto di maltrattamenti, si deve intendere come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo e che il delitto si consuma anche tra persone legate soltanto da un rapporto di fatto. A seguito del predetto intervento, lo stesso concetto è stato ripreso da Cass. pen., Sez. VI, 07.05.2013, n. 22915, che ha affermato che sono da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo. In quest’ottica è di centrale importanza l’intensità della relazione; invero, come affermato da Cass. pen., Sez. VI, 18.03.2014, n. 31121, posto che la fattispecie di maltrattamenti non esige il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione e neanche continuità di convivenza – intesa quale coabitazione – è necessario che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà.
Recentemente, è stato superato anche l’elemento del “convivere insieme”, in quanto sono stati ammessi i maltrattamenti tra coniugi separati o tra genitori non più conviventi, restando integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione. Su tale presupposto, la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. IV, 07.11.2018, n. 50304) ritiene configurabile il delitto in analisi anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione, considerato che la convivenza non è un presupposto del reato e che i vincoli di reciproco rispetto permangono integri anche dopo la separazione personale, tanto più quando sussista la necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale dei figli minori.
6. Gli eventi ulteriori non voluti come conseguenza della condotta
L’art. 572, III comma, c.p. prevede che “Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”.
Il realizzarsi di eventi ulteriori aggrava la sanzione del delitto di maltrattamenti e rende applicabile a titolo di concorso anche il reato di lesioni o di omicidio; in tal caso, il delitto di maltrattamenti è “aggravato dall’evento” e l’evento specifico ulteriormente realizzatosi è posto a carico dell’agente a titolo di responsabilità oggettiva. Tale principio è previsto dall’art. 42 c.p. (“Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità oggettiva”), il cui III comma prevede che “la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione”.
7. La velocizzazione processuale a seguito della legge 19.07.2019, n. 69
La legge 19.07.2019, n. 69[9], c.d. “Codice rosso”[10], riconduce alla violenza domestica o di genere[11] anche la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. ed è intervenuta su più fronti: velocizzazione dell’iter volto all’instaurazione del procedimento penale, inasprimento del trattamento sanzionatorio; introduzione di nuove circostanze aggravanti.
In particolare, gli artt. 1-3 intervengono sul codice di rito relativamente alla fase della denuncia e delle indagini: l’art. 1[12] prevede che, a fronte di notizie di reato relative ai delitti di violenza domestica e di genere, la Polizia Giudiziaria, acquisita la notizia di reato, deve comunicarla immediatamente al Pubblico Ministero anche in forma orale, alla quale seguirà, senza ritardo, quella scritta. In tal senso, è stato modificato l’art. 347, III comma, c.p.p.[13]. L’art. 2[14] prevede che “il pubblico ministero assume informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, salvo che sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa”. Inoltre, in occasione della commissione degli stessi delitti e per ragioni di rapidità della tutela, l’art. 3[15] dispone che “la polizia giudiziaria procede senza ritardo al compimento degli atti delegati dal pubblico ministero” e pone a disposizione di quest’ultimo la documentazione dell’attività svolta.
Infine, l’art. 9 è intervenuto su due versanti. In primo luogo, il II comma[16] ha previsto l’aumento della pena (la pena della reclusione da 2 a 6 anni è innalzata da 3 a 7 anni) e l’aumento di questa fino alla metà quando il delitto è commesso in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità, ovvero se il fatto è commesso con armi. In secondo luogo, il IV comma,[17] ha compreso il delitto de quo tra quelli che consentono l’applicazione di misure di prevenzione nei confronti degli indiziati.
[1] La legge 01.01.2012, n. 172 reca “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”.
[2] Innanzitutto, l’art. 4 (“Modifiche al codice penale”), I comma, lett. a) ha modificato l’art. 157, c.p. prevedendo anche per il reato di maltrattamenti in famiglia termini prescrizionali raddoppiati rispetto a quelli ordinari, “salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell’articolo 609-bis ovvero dal quarto comma dell’articolo 609-quater”. In secondo luogo, l’art. 4, I comma, lett. d) ha sostituito il precedente art. 572 c.p. con il seguente: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di persona minore degli anni quattordici.Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”.
[3] Il decreto reca “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”, convertito dalla legge 15.10.2013, n. 119.
[4] La legge contiene “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, in G.U. del 25.07.2019 ed entrata in vigore il 09.09.2019.
[5] “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
[6] Cfr., ex multis: Cass. pen., Sez. VI, 22.09.2005, n. 39927; Cass. pen., Sez. VI, 12.04.2006, n. 26235; Cass. pen., Sez. V, 22.10.2010, n. 41142; Cass. pen., Sez. VI, 22.10.2014, n. 1400; Cass. pen., Sez. VI, 20.11.2018, n. 761; Cass. pen., Sez. III, 26.10.2018, n. 1508.
[7] Cass. pen., Sez. VI, 10.12.2014, n. 4332; Cass. pen., Sez. VI, 17.01.2013, n. 9724; Cass. pen., Sez. V, 22.10.2010, n. 41142; Cass. pen., Sez. VI, 30.05.1990, n. 394.
[8] In tale direzione si sono pronunciate, a titolo esemplificativo, Cass. pen. Sez. VI, 18.10.2000, n. 12545 (“in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza”); Cass. pen., Sez. VI, 10.10.2001, n. 36576 (“deve ritenersi responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia colui che risulti aver percosso e vessato moralmente la convivente essendo da considerarsi membri della famiglia, tutelati dall’art. 572 c.p. anche i componenti della famiglia di fatto, fondata cioè sulla volontà di vivere insieme, di avere figli, di avere beni comuni, di dar vita, cioè, ad un nucleo stabile e duraturo. Questa interpretazione dell’art. 572 c.p. è la più coerente con i principi ispiratori del nostro ordinamento, nonché con la realtà sociale moderna. Del resto l’introduzione del divorzio e il suo largo utilizzo hanno dimostrato che il matrimonio non è più un legame indissolubile ed hanno eliminato, dunque, il presupposto più plausibile per una tutela diversificata dei due rapporti”); Cass. pen., Sez. III, 08.11.2005, n. 44262 (“il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione”); Cass. pen., Sez. VI, 24.01.2007, n. 21329 (“il delitto di maltrattamenti in famiglia è certamente configurabile anche in danno di persona convivente more uxorio quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione”); Cass. pen., Sez. VI, 29.01.2008, n. 20647 (“ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”).
[9] La legge in parola reca “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” (G.U. 25.07.2019).
[10] Il nomen nasce dall’esigenza di evidenziare l’emergenza di un fenomeno che necessitava di interventi urgenti di contrasto e di prevenzione.
[11] Secondo la Convenzione di Istanbul (art. 3 “Definizioni”) l’espressione “violenza domestica” indica gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; con l’espressione “di genere” si ci riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per uomini e donne.
[12] L’art. 1 (“Obbligo di riferire la notizia del reato”) dispone quanto segue: “1. All’articolo 347, comma 3, del codice di procedura penale, dopo le parole: « nell’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6) » sono inserite le seguenti: « , del presente codice, o di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice penale, »”.
[13] Art. 347, III comma, c.p.p.: “Se si tratta di taluno dei delitti indicati dall’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), del presente codice, o di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1 e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice penale, e in ogni caso, quando sussistono ragioni di urgenza, la comunicazione della notizia di reato, è data immediatamente anche in forma orale. Alla comunicazione orale deve seguire senza ritardo quella scritta con le indicazioni e la documentazione previste dai commi 1 e 2”.
[14] L’art. 2 (“Assunzione di informazioni”) dispone quanto segue: “1. Dopo il comma 1-bis dell’articolo 362 del codice di procedura penale e’ aggiunto il seguente: «1-ter. Quando si procede per i delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice, il pubblico ministero assume informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, salvo che sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa»”.
[15] L’art. 3 (“Atti diretti e atti delegati”) dispone quanto di seguito: “1. Dopo il comma 2 dell’articolo 370 del codice di procedura penale sono inseriti i seguenti: «2-bis. Se si tratta di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5, 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice, la polizia giudiziaria procede senza ritardo al compimento degli atti delegati dal pubblico ministero. 2-ter. Nei casi di cui al comma 2-bis, la polizia giudiziaria pone senza ritardo a disposizione del pubblico ministero la documentazione dell’attività nelle forme e con le modalità previste dall’articolo 357»”.
[16] L’art. 9 (“Modifiche agli articoli 61, 572 e 612-bis del codice penale, nonché al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”), II comma dispone quanto segue: “2. All’articolo 572 del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma, le parole: «da due a sei anni» sono sostituite dalle seguenti: «da tre a sette anni»; b) dopo il primo comma è inserito il seguente: «La pena e’ aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi»; c) è aggiunto, in fine, il seguente comma: «Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.».”
[17] L’art. 9, IV comma, prevede che “4. All’articolo 4, comma 1, lettera i-ter), del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, le parole: «del delitto di cui all’articolo 612-bis» sono sostituite dalle seguenti: «dei delitti di cui agli articoli 572 e 612-bis».”
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Ludovica Ionà
- Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi "Roma Tre", con tesi di laurea in diritto penale, dal titolo "L'art. 41-bis ord. penit.: il c.d. "carcere duro"".
- Praticante avvocato abilitato al patrocinio.
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