Assegno di divorzio: dalla Cassazione la spallata definitiva al criterio del tenore di vita matrimoniale
Cass. civ., Sez. I, Ord. 28 febbraio 2022, n. 6534
La Corte di Cassazione ha stabilito che deve essere ritenuto ormai superato l’orientamento secondo il quale la quantificazione dell’assegno divorzile sia effettuata verificando lo squilibrio reddituale tra i coniugi per effetto del quale uno dei due si trovi privo di mezzi adeguati per provvedere al proprio mantenimento, raffrontato a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Riflessioni e spunti critici di commento: la fine del criterio del tenore di vita matrimoniale ed il primato della giurisprudenza imperante
Con questa recentissima pronuncia la Corte di Cassazione certifica l’abbandono, a questo punto possiamo dire definitivo, di quell’orientamento che in un passato ormai trascorso aveva ancorato il riconoscimento e la quantificazione dell’assegno divorzile al criterio del tenore di vita mantenuto dai coniugi in costanza di matrimonio.
Come è noto, infatti[1], i Giudici di legittimità sono conformemente indirizzati a sostenere che l’assegno di divorzio sia connotato da una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e che, pertanto, ai fini del suo riconoscimento e quindi della sua quantificazione, sia richiesto l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, rilevando detti requisiti in modo equiordinato tra di essi.
Ci si è consolidati, dunque, concettualmente intorno ad una identificazione della natura primaria dell’assegno divorzile da individuarsi in entrambi i predetti contestuali intenti assistenziale e “perequativo-compensativo”, e per tali finalità ci si è soffermati proprio sul contributo fornito dal coniuge beneficiario nella realizzazione della vita familiare, in particolar modo valutando le aspettative professionali dallo stesso sacrificate e financo il suo eventuale apporto fornito per i successi dell’altro coniuge[2].
Se, pertanto, in materia la posizione dominante assunta dalla giurisprudenza è effettivamente ormai stabile e salda in questi termini, la forza innovativa dell’ordinanza oggi in commento risiede proprio nel ribaltamento ex post che la Corte di Cassazione ha voluto operare rispetto ad una sentenza di appello che è stata emessa nel 2016, quando cioè il criterio del tenore di vita matrimoniale rappresentava il presupposto imperante per non essere stato esso ancora scalzato dalle note successive sentenze n. 11504 del 10 maggio 2017, meglio nota come la “sentenza Grilli” e, soprattutto, n. 18287 dell’11 luglio 2018, quest’ultima a Sezioni Unite[3].
In definitiva, quindi, con questa ordinanza, la Corte Suprema rimette in rivalutazione allo stesso Giudice di secondo grado il proprio giudicato in quanto non più conforme all’orientamento giurisprudenziale succedutosi nel tempo, sebbene sia evidente come detto pronunciamento sia da ritenersi concettualmente legittimo in relazione all’interpretazione a quel tempo maggioritaria che, come è noto, nonostante la molteplicità di parametri indicati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5 comma 6 nel testo vigente, riconosceva tout court natura assistenziale all’assegno di divorzio sul presupposto di vederlo concesso tutte le volte in cui il coniuge richiedente non disponesse di mezzi sufficienti a mantenere il “tenore di vita” goduto durante la vita coniugale.
Sembra quasi di assistere in tal modo ad una sorta di scommessa con la quale, sia pure evidentemente per ragioni di strategia processuale, i difensori della parte fautrice di un orientamento in passato minoritario accedano al terzo grado di giudizio con la speranza di vedere ribaltato il giudizio per sé sfavorevole e si trovino poi, a distanza di tempo, al cospetto di una interpretazione diametralmente opposta e conforme alla propria posizione difensiva.
Un tale ribaltamento di orientamento, però, per quanto inevitabilmente conseguente ai ritardi atavici del nostro sistema giudiziario, se in prima battuta potrebbe sembrare di per sé un’aberrazione del diritto, in realtà finisce per diventare l’espressione più autentica della rispondenza del giudicato all’interpretazione fluttuante e giustamente modificativa che della normativa viene fatta nel tempo dalla giurisprudenza, in particolar modo da quella di legittimità.
E’ ovvio infatti che per chiunque operi nel diritto e con il diritto sorga spontaneo chiedersi cosa ne sarebbe stato del giudicato che ci occupa, in termini di esito della controversia, se l’impugnativa in questione fosse stata trattata e decisa dai Giudici di legittimità nei tempi ordinari ed auspicati del processo civile e, quindi, in pendenza di una interpretazione conforme alla posizione assunta dai Giudici di appello e non già, come invece è accaduto anche in questo caso, ad oltre cinque anni dalla sentenza oggi soltanto cassata.
Non fosse altro che per questo, legittimo quanto quasi scontato, dubbio, saremmo curiosi di conoscere a quali determinazioni possa giungere il predetto Giudice del rinvio in tema, ad esempio, di regolamento delle spese e competenze della fase di cassazione, proprio per la evidente, e del tutto casuale nella sua tempistica, sovrapposizione di due contrapposti orientamenti giurisprudenziali che non farebbero ritenere sussistente una soccombenza effettiva della parte resistente in cassazione.
Oltretutto, proprio in questo particolare contesto giuridico quale è appunto quello della crisi coniugale propriamente intesa, la dicotomia tra dette “forze” interpretative si è manifestata in tutta la sua rilevanza anche mediatica, per il dirompente impatto anche pratico ed applicativo che le ricordate pronunce della Cassazione, e segnatamente quella a Sezioni Unite, hanno avuto.
Quel giudizio, infatti, di adeguatezza che per le Sezioni Unite del 1990 andava rapportato al predetto “tenore di vita”, solo a far data dalla decisione del 2017, e poi ancora di più proprio con la sentenza delle stesse Sezioni Unite del 2018, è stato viceversa parametrato al criterio dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente per cui è evidente come questo cambio di rotta non possa essere esente da una giusta ed obiettiva considerazione nella disamina anche dell’ordinanza in commento che di tale ultimo indirizzo è la conferma più recente.
I Giudici di legittimità, invero, opportunamente rammentano oggi come il giudizio comparativo sulle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi debba essere ormai sempre espresso sulla base del contributo fornito da quello richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
Viene anche in questa ultima occasione ribadita la natura assistenziale dell’assegno divorziale in una a quella perequativo-compensativa che ormai costituisce il fondamento portante della giurisprudenza in materia, quale giusta declinazione del più ampio e generale principio costituzionale di solidarietà che deve sempre contraddistinguere questi istituti della crisi familiare, in modo tale che il contributo così riconosciuto consenta al coniuge beneficiario il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle sue aspettative professionali sacrificate.
In definitiva, viene ancora una volta confermata la necessità che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, sottesa per volontà del legislatore all’assegno divorzile, non sia più finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endo-coniugale, ma unicamente al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello, anche personale, di essi coniugi.
E’ significativo, al riguardo, leggere nell’ordinanza in commento come la Corte di Cassazione imponga al giudice del rinvio di attenersi a questi, nuovi e modificativi, criteri e come la stessa Corte addirittura precisi allo stesso “che non potrà fare applicazione dei riferimenti operati dal ricorrente alla struttura bifasica della determinazione dell’assegno divorzile, in ordine al quale va effettuato un giudizio unitario L. n. 898 del 1970 ex art. 5 secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite” e che inoltre “dovrà valutare in concreto (e non esprimendosi in termini di verosimiglianza non fondati su dati effettivi: “è ragionevole ritenere”), se del caso disponendo i necessari accertamenti tecnici, se la donna sia o meno in grado di svolgere un’attività lavorativa che le consenta di raggiungere un’autosufficienza economica, tenuto conto delle patologie delle quali la medesima è portatrice, anche in relazione alla sua età”.
In questi brevi, ma quanto mai significativi, passaggi testuali abbiamo, infatti, la definitiva certezza della posizione ormai granitica assunta dalla Corte di Cassazione sul tema, a dimostrazione che ormai questo tanto vituperato parametro del “tenore di vita” collida e contrasti apertamente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici.
La Cassazione, del resto, in maniera efficace ribadisce in tal modo il fondamentale principio di diritto secondo il quale con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale, a differenza di quanto accada con la separazione personale che, come è noto, lascia in vigore, sia pure in una forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all’art. 143 cod. civ. e pone conseguentemente nel nulla ogni possibile riferimento a tale rapporto, anche solo sotto il profilo del mantenimento del “tenore di vita matrimoniale”.
Vi è in questo ormai consolidato atteggiamento ermeneutico della Cassazione il timore, neanche tanto celato, di non volere in alcun modo assecondare una possibile indebita prospettiva, per così dire, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale[4], quasi che applicare un criterio o un presupposto fattuale e reddituale che riporti alla vita coniugale possa rappresentare una contraddizione in termine con il venir meno degli effetti civili e patrimoniali del matrimonio stesso.
Ed in effetti, se facciamo mente locale sul concreto significato che il legislatore ha inteso riconoscere all’istituto del divorzio, non possiamo discostarci da questa rigorosa, ma certamente corretta, interpretazione proprio per l’accertato, ed irreversibile, dissolvimento del vincolo matrimoniale che con lo stesso si realizza da un punto di vista non solo sostanziale, ma prettamente giuridico ed amministrativo.
Ritornano, dunque, in proposito le illuminanti parole, non a caso usate dalla Corte di Cassazione nella più volte ricordata sua sentenza a Sezioni Unite n. 11490 del 1990, secondo le quali il diritto all’assegno di divorzio sia da riconoscersi al coniuge richiedente esclusivamente nella sua veste di “persona singola” e non già come “parte” ancora di un rapporto matrimoniale ormai estinto, avendo il legislatore della riforma del 1987[5] informato la disciplina di detto assegno, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, ai principi costituzionali di libertà, autoresponsabilità economica e pari dignità dei coniugi dopo la pronuncia di divorzio.
[1] vedi mia nota a commento “Assegno di divorzio: deve essere effettivo ed attuale il giudizio sulle capacità reddituali del beneficiario” in questa Rivista, Famiglia, 1° dicembre 2021
[2] vedi mia nota a commento “Per l’assegno divorzile rileva anche l’apporto ai successi del coniuge” in www.filodiritto.it, 1° marzo 2021
[3] Questa pronuncia consegue al rigetto di due proposte di legge, la n. 4605 del 27 luglio 2017 e la n. 506 del 12 aprile 2018, con le quali si intendeva modificare l’art. 5 della Legge sul divorzio per ridurre la portata degli assegni divorzili che spesso risultavano superiori alle possibilità economiche dell’obbligato
[4] In questi termini si era espressa, ad esempio, Cass. Civ. Sez. Prima n. 1322 del 17 marzo 1989
[5] Art. 10 della Legge n. 74 del 06 marzo 1987
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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento.
All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento.
Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo.
Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.
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