Assegno di divorzio: deve essere effettivo ed attuale il giudizio sulle capacità reddituali del beneficiario
Cass. civ., Sez. I, Ord. 19 novembre 2021, n. 35710
La Corte di Cassazione ha stabilito che In materia di assegno divorzile il giudizio sull’adeguatezza dei redditi degli ex coniugi – che nella sua negativa declinazione è integrativo del prerequisito della consistenza sperequata dei redditi al cui accertamento consegue l’operatività del meccanismo compensativo-retributivo per la quantificazione dell’indicata posta – deve essere sempre improntato ai criteri dell’effettività e concretezza non potendo esso risolversi in un ragionamento ipotetico, i cui esiti vengano ricalcati su pregressi contesti individuali ed economici non più rispondenti, all’attualità, a quello di riferimento.
Con questa interessante ordinanza la Corte di Cassazione si occupa di uno degli aspetti più rilevanti, anche sotto il profilo pratico ed applicativo, della crisi coniugale e cioè quello dei criteri di determinazione delle capacità reddituali dei coniugi in relazione al riconoscimento e quantificazione dell’assegno divorzile.
La vicenda in commento, infatti, prende spunto dalla sentenza con la quale i giudici di appello avevano escluso il diritto all’assegno, nel caso di specie in favore della moglie, sul presupposto che quest’ultima avrebbe incrementato la propria attività lavorativa nel tempo e sarebbe tornata a percepire i redditi da libera professione dichiarati nelle annualità precedenti con la sola ripresa del suo lavoro.
Tale pronuncia veniva fatta oggetto del ricorso in Cassazione oggi esaminato, sia sulla base di alcuni elementi di fatto che a dire della ricorrente miravano a dimostrare come il giudizio espresso dalla Corte di Appello fosse solo potenziale e del tutto ipotetico, che sul presupposto, oggetto del presente approfondimento, che la ritenuta incrementabilità nel tempo delle capacità reddituali del soggetto richiedente l’assegno divorzile dovesse essere fondata solo su dati certi ed effettivi.
La Corte Suprema, quindi, nella trattazione di questo specifico punto in contestazione ribadisce anzitutto il fondamentale principio secondo il quale “l’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, connotato dalla funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ai fini del suo riconoscimento e quindi della sua quantificazione richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, rilevando all’indicato fine, in modo equiordinato, i requisiti richiesti dalla norma che costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione che sulla quantificazione dell’assegno“.
Ancora una volta, dunque, si torna concettualmente a quell’identificazione della natura primaria dell’assegno divorzile che nel tempo è stata oggetto di numerosi pronunciamenti dei giudici di legittimità[1], finanche a Sezioni Unite[2], e che è stata individuata, possiamo dire ormai in maniera definitiva ed uniforme, nell’intento assistenziale e, contestualmente, “perequativo-compensativo” di tale beneficio economico, in relazione al contributo fornito dal beneficiario nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali dallo stesso sacrificate a tal fine e dell’eventuale apporto dato anche ai successi del coniuge[3].
Ma il punto fondamentale e significativo della decisione emessa oggi dalla Corte risiede nella determinazione che il giudizio espresso dal Giudice della crisi coniugale sia sempre improntato al principio dell’effettività e che dunque l’adeguatezza dei redditi degli ex coniugi sia accertata come concreta e reale non potendo in alcun modo essa risolversi in un ragionamento solo ipotetico, magari basato empiricamente su pregressi contesti individuali ed economici non più rispondenti, all’attualità, a quello di riferimento.
La posizione assunta dagli Ermellini, dunque, ci appare assolutamente condivisibile e perfettamente rispondente ai principi di diritto che disciplinano la materia, oltre che conforme ad una visione del diritto che sia quanto mai espressione della realtà.
Al contrario, ci sembra inspiegabile come i Giudici di appello abbiano potuto anche solo pensare che con la ripresa dell’attività professionale si possano conseguire i medesimi redditi dichiarati in periodi di imposta precedenti e come essi abbiano potuto fondare questo loro convincimento senza alcun plausibile riferimento ai nuovi, e differenti, presupposti personali di età, sesso, luogo di espletamento del lavoro, famiglia del coniuge richiedente il beneficio.
Dobbiamo, dunque, concordare con quanto correttamente stabilito dalla Corte Suprema, peraltro come detto in conformità ad un proprio consolidato orientamento[4], in merito al fatto che sia in sede di separazione che di divorzio “l’attitudine al lavoro proficuo dei coniugi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, qualora venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche“.
I giudici di legittimità, infatti, in questa delicata materia nel corso degli anni sono stati efficaci interpreti dei mutamenti sociali ed hanno rappresentato, nella maniera talvolta più vera ed autentica, le ragioni del nostro vivere civile, poiché proprio con le loro decisioni ed il fondamento dei principi di diritto sopra esposti hanno fatto emergere la situazione di debolezza che vive molto spesso la donna nel contrasto coniugale, quasi a conferma degli stereotipi e dei pregiudizi ancora imperanti nella nostra società.
Così, ad esempio, la Corte ha ripetutamente cassato varie decisioni di merito che hanno omesso di valutare concretamente le reali capacità di lavoro della donna, stigmatizzando apertamente il giudizio di quei giudici del territorio che, probabilmente con troppa superficialità, si limitano talvolta a dare atto soltanto delle opportunità connesse al titolo di studio universitario ed all’abilitazione professionale di cui si è in possesso, senza però ridimensionarne eventualmente la portata per le oggettive difficoltà, desumibili anche da nozioni di comune esperienza, di inserirsi del mondo del lavoro per ragioni di età o per mancanza di precedenti esperienze professionali[5].
E’ noto d’altronde che l’attitudine al lavoro del coniuge-donna, quale elemento di valutazione della sua capacità di guadagno, in tanto può assumere rilievo ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell’assegno di mantenimento, in quanto venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già sulla base di mere valutazioni astratte ed ipotetiche ed ecco dunque perché si torna sempre e comunque alla centralità di quel “principio dell’effettività” che abbiamo visto dover essere alla base del giudizio affermativo del beneficio economico al mantenimento.
Si tratta, del resto, di una importante, e decisiva, ennesima presa di posizione dei Giudici di legittimità in un contesto giurisprudenziale, soprattutto di merito, che ancora oggi sembra tralasciare la necessità che la Giustizia, intesa nell’accezione più alta del termine, sia sempre espressione della realtà sociale, della famiglia e del lavoro, come del resto confermato proprio dall’ordinanza in commento.
E’, infatti, inconcepibile, a parere di chi scrive, che nel caso in questione i Giudici di appello abbiano potuto rapportare una situazione reddituale e patrimoniale del soggetto beneficiario dell’assegno divorzile risalente a ben dieci anni prima e che per ciò stesso abbiano anche solo potuto immaginare che una qualsiasi attività libero-professionale, a distanza di tanto tempo, possa riprendere con le stesse frequenza e redditività rispetto al passato.
Anche solo questa semplice, e per certi versi intuibile, considerazione sarebbe sufficiente per confutarne facilmente l’assunto, senza nulla aggiungere in merito alle normali “aggravanti” che il nostro sistema sociale purtroppo ancora oggi pone a carico della donna per il solo fatto di essere tale, o di avere un’età non più giovane lavorativamente parlando, o di vivere in una realtà territoriale in cui il mercato del lavoro sia sfavorevolmente produttivo, ovvero qualora ella racchiuda in sé tutte o la gran parte di queste condizioni pregiudizievoli, come nel caso oggi sottoposto alla nostra attenzione.
E’ pertanto solo grazie al prezioso intervento della Corte Suprema, conseguente alla ormai nota sentenza delle Sezioni Unite n. 18287 del luglio 2018, che oggi il riconoscimento e la quantificazione dell’assegno divorzile sono finalmente fondati, oltre che sulle rispettive condizioni economiche e patrimoniali dei coniugi, sul loro tenore di vita in costanza di matrimonio, sul contributo effettivo che il coniuge richiedente abbia dato alla vita patrimoniale in una all’eventuale e conseguente sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali e sulla durata del rapporto matrimoniale, anche e soprattutto sulle potenzialità professionali e reddituali che si riscontrino al termine della vita di matrimonio, da valutarsi indefettibilmente nel contesto sociale all’interno del quale i coniugi vivono ed hanno vissuto.
Possiamo dunque affermare a ben ragione come sul tema la Cassazione rappresenti ormai il baluardo a difesa dell’effettività del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, inteso rigorosamente nella sua declinazione sostanziale e non già meramente formale e perciò in quanto tale intimamente connesso ai suoi aspetti di vita familiare e matrimoniale come sancito all’articolo 29 della stessa Carta costituzionale.
[1] Cass. Civ. Sezione Prima – Ord. n. 1882 del 23 gennaio 2019 ed ancor prima Cass. Civ. sentenza n. 11504/2017
[2] Cass. Civ. SS.UU. sentenza n. 18287/2018
[3] Vedi mia nota a commento “Per l’assegno divorzile rileva anche l’apporto ai successi del coniuge” in www.filodiritto.it, 01 marzo 2021
[4] Vedi per tutte Cass. Civ. ord. n.5817 del 09 marzo 2018 e Cass. Civ. Sez. Sesta – Sottosezione Prima – ord. n. 6427 del 04 aprile 2016
[5] Cass. Civ. Sez. Prima – n. 3502 del 13 febbraio 2013 e, conformi. Cass. Civ. n. 18547 del 25 agosto 2006 e n. 12121 del 02 luglio 2004
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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento.
All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento.
Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo.
Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.
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