Assegno divorzile: il mutamento giurisprudenziale non integra ex se i giustificati motivi richiesti dalla legge ai fini della sua revisione
La Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, occupandosi di una domanda di revisione di un assegno divorzile determinato in epoca anteriore al “revirement” operato dalla stessa Sezione nel 2017 nonché dalle Sezioni Unite nel 2018 in relazione alla natura e alla funzione di tale assegno, ha recentemente statuito che siffatto mutamento giurisprudenziale non è suscettibile di integrare per ciò solo quei giustificati motivi sopravvenuti che sono richiesti dall’art. 9 co. 1 della legge n. 898 del 1970 ai fini della sua revisione, posto che “in forza della formazione rebus sic stantibus del giudicato sulle statuizioni c.d. determinative e del carattere meramente ricognitivo dell’esistenza e del contenuto della regula iuris proprio della funzione nomofilattica, che non soggiace al principio di irretroattività – il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali degli ex coniugi attiene agli elementi di fatto e deve essere accertato dal giudice ai fini del giudizio di revisione, da rendersi, poi, al lume del diritto vivente”. ( sentenza n. 1119 del 2020).
Al fine di inquadrare la soluzione adottata dalla Cassazione, giova ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale che ha condotto alla svolta del 2017.
Occorre prendere le mosse innanzitutto dal dato normativo: l’art. 5 co. 6 della legge divorzile (legge n. 898 del 1970) così come modificato nel 1987, dispone che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
La disposizione sembra subordinare la corresponsione di tale assegno all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge o comunque all’impossibilità oggettiva di procurarseli: si è posto conseguentemente il problema di capire cosa dovesse intendersi con tale espressione.
Per circa un trentennio, a partire da una pronuncia a Sezioni Unite risalente al 1990, è prevalso l’orientamento volto a riconoscere la natura assistenziale dell’assegno divorzile, muovendo dall’assunto che l’inadeguatezza dei mezzi dovesse essere intesa quale inidoneità dei medesimi a garantire al richiedente un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio, prescindendo dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno. Si delineava dunque un criterio attributivo, consistente appunto nella nozione di inadeguatezza dei mezzi poc’anzi delineata, e un criterio determinativo, consistente nella liquidazione in concreto dell’assegno mediante la ponderazione degli elementi della prima parte della disposizione (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio).
Questa ricostruzione ha mantenuto una certa solidità nel corso del tempo, almeno, come si diceva, sino alla svolta operata della sentenza del 2017 (n. 11504 I Sez. civ.), che pur muovendo anch’essa dalla distinzione tra il parametro attributivo e quello determinativo, ha fornito una differente lettura dell’inadeguatezza dei mezzi, alludendo al criterio dell’autosufficienza economica di ciascun coniuge. In tale ottica, l’inadeguatezza dei mezzi non è più rapportata al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio bensì esclusivamente all’autosufficienza economica del richiedente: i criteri della prima parte dell’art. 5 co. 6 sono funzionali all’accertamento della sussistenza di tale situazione. La Cassazione ha dunque deciso di valorizzare il principio di autoresponsabilità economica, prediligendo una lettura fortemente restrittiva del carattere assistenziale, in ragione della considerazione che con lo scioglimento del vincolo coniugale i due individui tornano a essere persone singole.
L’evoluzione giurisprudenziale sulla natura e sulla funzione dell’assegno divorzile si è arricchita di un ulteriore fondamentale passaggio: la pronuncia a Sezioni Unite del 2018 (n. 18287) con la quale, a fronte di una complessiva riconsiderazione della questione, si è sostenuta la natura composita dell’assegno, riconoscendone il carattere assistenziale nonché perequativo-compensativo, fondandosi il medesimo su un raffronto tra le condizioni economico patrimoniali degli ex coniugi. Lo storico criterio del tenore di vita è stato così definitivamente abbandonato in favore di un concetto di autosufficienza economica concreto, parametrato all’effettivo contributo apportato dal coniuge più debole al menage familiare, nel rispetto del principio di solidarietà post-coniugale derivante dagli artt. 2 e 29 della Costituzione. La funzione assistenziale non viene negata ma assume una differente fisionomia, in quanto si è statuito che l’assegno non mira a ricostruire il tenore di vita endoconiugale, bensì a valorizzare il contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla costituzione del patrimonio familiare e di quello personale degli ex coniugi. A livello pratico, si configurano dunque i seguenti passaggi: il giudice dovrà innanzitutto verificare se il soggetto che richiede l’assegno divorzile non disponga di mezzi adeguati o versi nell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, situazione che sarà ponderata alla luce dei criteri di cui alla prima parte dell’art. 5 co.6, elementi questi perfettamente equiordinati, che rilevano sia ai fini dell’attribuzione che ai fini della corresponsione dell’assegno; il giudizio dovrà essere conclusivamente espresso comparando le condizioni economiche patrimoniali dei coniugi e tenendo in considerazione l’apporto fornito dal richiedente al funzionamento della vita familiare.
Così ripercorse, sia pur per sommi capi, le soluzioni elaborate dalla giurisprudenza in ordine alla natura e alla funzione dell’assegno divorzile, è possibile soffermarsi sulla questione analizzata dalla recentissima sentenza della Prima Sezione civile, ovverosia se, ai fini di un’eventuale domanda di revisione dell’assegno, i nuovi principi espressi in questa materia possano costituire ex se giustificati motivi sopravvenuti valutabili a mente dell’art. 9 co. 1 della legge sul divorzio. A tale interrogativo, il Collegio ha dato una risposta negativa, adducendo vari argomenti.
Va precisato innanzitutto che il testo dell’art. 9 co. 1 della citata legge dispone che “qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, in camera di consiglio… può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni.. relative alla misura e alla modalità dei contributi da corrispondere ai sensi dei commi 5 e 6”. In merito alla interpretazione di questa disposizione, la giurisprudenza concorda nel sostenere che solo un sopravvenuto mutamento delle condizioni economiche patrimoniali dei coniugi tale da incidere sull’assetto delineatosi a seguito della determinazione dell’emolumento è in grado di suffragare una richiesta di revisione; quest’ultima, non lascia spazio a nuove o autonome valutazioni in merito ai presupposti o all’entità dell’assegno, bensì consente al giudice di accertare, nel rispetto delle valutazioni espresse in sede di attribuzione di tale assegno, se i sopraggiunti mutamenti patrimoniali provati dalle parti, abbiano alterato l’equilibrio raggiunto e, pertanto, di adeguare a tale situazione l’importo dello stesso.
Ciò posto, dato che le decisioni in tema di corresponsione dell’assegno hanno carattere “determinativo”, il giudicato è destinato a formarsi “rebus sic stantibus”: esso soggiace, dunque, alle eventuali variazioni fattuali che saranno veicolate nell’apposito procedimento di revisione, fermo restando che finché non sarà disposta l’effettiva modifica del provvedimento, le statuizioni adottate manterranno la loro efficacia, non rilevando il momento in cui siano venuti ad esistenza i presupposti che giustificano la modifica o l’eliminazione dell’assegno.
Si è aggiunto, inoltre, facendo leva sul fatto che la giurisprudenza assolve a una funzione ricognitiva e non già creatrice della regola di diritto, nonché sull’assunto che l’attività ermeneutica svolta dalla Corte di cassazione tenda, specie in funzione nomofilattica, ad assicurare la stabilità e l’uniformità dell’interpretazione ma pur sempre in chiave persuasiva e giammai cogente, che un eventuale mutamento giurisprudenziale, non è soggetto al canone di irretroattività. Ne consegue che esso non può essere paragonato allo ius superveniens ed è pertanto suscettibile di essere disatteso dal giudice di merito.
Alla luce di tali rilievi, si perviene alla conclusione che il mutamento giurisprudenziale espresso in ordine alla natura e alla funzione dell’assegno divorzile, non costituisca un motivo sopraggiunto idoneo a suffragare di per sé la richiesta di revisione e ciò, malgrado la locuzione impiegata dal legislatore (giustificati motivi) sia piuttosto vaga e generica.
La revisione dell’assegno divorzile postula, di contro, la sussistenza di sopravvenuti mutamenti patrimoniali degli ex coniugi che costituiscono elementi di fatto rimessi alla valutazione del giudice, da rendersi poi “al lume del diritto vivente”, ossia tenendo conto dei rinnovati principi giurisprudenziali affermatisi nella materia.
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Arianna Franceschi
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