Associazione di stampo mafioso: è sufficiente l’affiliazione ad integrare il reato?
L’art. 416-bis c.p. disciplina il reato di associazione di tipo mafioso, anche straniere, il quale fu introdotto solo nel 1992 per far fronte ad un fenomeno già ben noto, che è quello mafioso: ci si rese conto che l’art. 416 c.p. non fosse sufficiente a prevenire un fenomeno di così ampia portata e, pertanto, per contrastare il c.d. “metodo mafioso” fu pensata una disciplina a sé stante. Per completezza, si noti che costituisce ius receptum il principio secondo il quale il reato in parola può concorrere con il delitto di associazione per delinquere ex art. 416 c.p.: di talché, ne consegue che è possibile la coesistenza di due diverse organizzazioni criminali, anche con una parziale coincidenza oggettiva e soggettiva, che integrino gli estremi di entrambi i reati associativi[1].
Una questione che si ripropone cadenzatamente è quella che riguarda la distonia tra due diversi orientamenti, l’uno che considera come tale reato associativo si perfezioni con la mera affiliazione all’associazione mafiosa, l’altro che ritiene necessario un apporto causale alla causa dell’associazione, senza il quale non verrebbe a crearsi alcuna partecipazione, stante l’assenza di una condotta attiva.
La prima tesi è nota con il nome di modello organizzatorio, secondo cui per integrare la condotta non è necessario che ciascuno dei membri appartenenti al sodalizio compia specifici atti esecutivi dell’azione criminosa programmata, poiché il contributo di un membro può anche essere dato dalla mera “messa a disposizione” ad agire come “uomo d’onore”. Chiaramente, tale qualità soggettiva non deve essere meramente passiva, presupponendo una certa permanenza della volontà di contribuire, anche materialmente, a qualsiasi impiego criminale sia richiesto: in tal modo, l’obbligo assunto rafforza certamente il proposito criminoso degli altri consociati e dell’organizzazione stessa, poiché ne accresce le potenzialità, garantendone una maggiore forza, che di conseguenza comporta anche maggiore capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale dell’associazione criminale[2].
La seconda tesi, invece, è nota con il nome di modello causale, secondo cui per integrare la condotta non è sufficiente la mera affiliazione formale, ma vi sia bisogno di un apporto causale che si concreti nella realizzazione di un qualsivoglia apporto alla vita e all’esistenza dell’associazione: tale apporto è l’unico in grado, secondo tale orientamento, di dimostrare la permanenza di un membro all’interno di un sodalizio mafioso.
La scrivente, unitamente con la parte maggioritaria della giurisprudenza, è concorde con il primo orientamento, poiché l’art. 416-bis c.p. descrive un reato a forma libera e di pura condotta, il quale si perfeziona attraverso il compimento di determinate azioni e, tra queste, ben può ricondursi l’entrare a far parte di un sodalizio mafioso. Quanto al bene protetto, si configura certamente come un reato di pericolo presunto: in tal caso, è coerente con l’ampiezza del fenomeno l’anticipazione della tutela che si richiede qualora si venga a conoscenza dell’appartenenza di un nuovo membro alla vita dell’associazione criminale: se si sostenesse il contrario, ci si troverebbe di fronte alla necessità di trasformare l’illecito in parola da reato di pericolo presunto a reato di evento e, pertanto, si renderebbe necessario altresì provare il nesso causale tra la condotta, dunque la partecipazione, e l’evento, che coincide con il rafforzamento dell’associazione mafiosa.
Ebbene, la mera qualità soggettiva di “socio” è di per sé sola una condotta tipica sanzionata penalmente, poiché al solo fatto di far parte di un data associazione si ricollega il rafforzamento di quest’ultima: è chiaro che nel momento in cui si viene a far parte di un’associazione, gli altri consociati fanno affidamento sull’apporto che, anche potenzialmente, quel membro potrebbe dare.
Tale orientamento è in linea con la sentenza più importante che l’ordinamento giudiziario abbia prodotto sul tema, ovvero sia le Sezioni Unite Mannino: i giudici di legittimità sostennero che non vi fosse bisogno di qualificare il ruolo di un affiliato, poiché ciò che rileva è la messa a disposizione – di natura durevole – delle proprie energie, proprio al fine di rafforzare l’attività dell’associazione: le Sezioni Unite Mannino sono state chiare, pertanto l’essere parte di un’associazione di stampo mafioso fa sì che il soggetto possa essere considerato partecipe dell’associazione stessa.
In cosa consiste la messa a disposizione? È un comportamento che si concretizza nel momento in cui al consociato viene richiesto di attuare una determinata condotta, la quale dovrà essere prestata al fine di agevolare la prestazione; non è concesso al consociato il diritto di rifiutare la messa in atto della condotta criminosa: il rifiuto è conseguenza di pesanti ritorsioni che non possono escludere l’eliminazione del soggetto che intende avvalersene. La messa a disposizione, pertanto, si concretizza in modo diverso in base alla condotta che si richiede al consociato, nonché in base al ruolo che esso assume all’interno del sodalizio.
[1] Cass., n. 27672/2019, che specifica che “Il caso classico è quello per cui nell’ambito del contesto di operatività di una fazione dell’associazione di stampo mafioso nota come ‘Cosa Nostra’, attiva in un determinato quartiere, borgata, mandamento, vi sono una serie di soggetti, alcuni dei quali persino non affiliati a quella famiglia mafiosa, che danno vita ad un’autonoma associazione per delinquere finalizzata alla commissione di più delitti relativi all’acquisto, alla importazione, alla detenzione, al commercio, al trasporto ed alla distribuzione di sostanze stupefacenti del tipo hashish e cocaina (Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258163 – 01)”.
[2] Cfr, Cass, n. 56088/2017
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Julia Sarno
Rome, Italy
Julia Sarno nasce l'11 luglio 1995. È laureata in Giurisprudenza all'università di Bologna e attualmente svolge il tirocinio ex art. 73 d.l. 69/2013 presso gli uffici giudiziari.
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