Asta giudiziaria su immobile pignorato: ecco i motivi di opposizione più frequenti
La triste realtà economica che stiamo vivendo vede purtroppo molti imprenditori e altrettante famiglie in gravi difficoltà finanziarie, con proprietà immobiliari spesso soggette a procedure di esecuzione forzata finalizzate alla loro vendita all’asta giudiziaria.
Ciò comporta che un’improvvisa e repentina crisi economica -tale da ridurre drasticamente la capacità reddituale dei debitori malcapitati- rischi di fatto di dilapidare in breve tempo i sacrifici di una vita intera.
Fermo restando che i creditori hanno il pieno diritto di agire per il recupero forzoso del credito vantato, sono altrettanto legittimi i diritti del debitore al regolare svolgimento della procedura esecutiva, in conformità alle norme del codice di procedura civile ed in forza di un credito realmente dovuto.
Il presente elaborato intende illustrare una rassegna di potenziali motivi di opposizione all’esecuzione immobiliare, mirati nello specifico ad interrompere o ad estinguere la procedura esecutiva, sulla base di casistiche precedentemente analizzate sia dalla giurisprudenza di merito, sia da quella della Corte di Cassazione.
E’ comunque essenziale precisare che tale articolo non può sostituire il parere di un professionista qualificato, il quale dovrà valutare attentamente le peculiarità del caso concreto.
* * *
1) ILLEGITTIMITÀ DEL CREDITO PER APPLICAZIONE DI INTERESSI USURARI SUL CONTRATTO DI MUTUO EX ART. 1815, COMMA 2, C.C.
Un primo potenziale motivo di opposizione all’esecuzione riguarda l’eventuale applicazione, da parte del creditore procedente, di interessi usurari su un contratto di mutuo fondiario.
Come è noto, l’art. 644 c.p. prevede che si configuri il reato di usura ogniqualvolta taluno si faccia dare o promettere, per sé o per altri, interessi o altri vantaggi usurari, sotto qualsiasi forma ed in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità.
Da un punto di vista prettamente civilistico, l’art. 1815, comma 2, c.c. dispone che “Se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.
E’ quindi evidente l’importanza di verificare l’eventuale pattuizione sin dall’origine di tassi di interesse usurari, giacché l’eventuale accertamento del tasso usurario potrebbe rideterminare il reale rapporto dare/avere tra le parti.
Ciò in quanto la pattuizione di interessi usurari comporta che per effetto del citato 2° comma dell’art. 1815 c.c. non sarà più dovuto al creditore procedente alcun interesse corrispettivo, né tantomeno saranno dovuti interessi moratori.
Al riguardo, è il caso di rilevare che la verifica dell’eventuale sconfinamento del tasso di usura dovrà interessare non solo gli interessi corrispettivi, bensì anche quelli previsti a titolo moratorio, nell’ipotesi di mancato pagamento dei ratei del mutuo entro i termini concordati.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è difatti orientata nel senso che “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e 1815, comma 2, c.c. si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori” (v. Cass. Civ., 9.1.2013, n. 350).
Per verificare la presenza non soltanto dell’usura ma anche di ulteriori ed eventuali illeciti bancari, è necessario essere in possesso di un’analitica relazione peritale redatta da un esperto contabile (ragioniere/commercialista) e -nell’ipotesi in cui dovessero essere rilevate delle anomalie nel rapporto di mutuo- sarà auspicabile allegarla all’atto di opposizione all’esecuzione volto ad interrompere la procedura esecutiva.
In particolare, il Giudice potrà decidere di sospendere l’esecuzione e di nominare un consulente tecnico d’ufficio, affinché quest’ultimo verifichi la legittimità dei tassi di interesse riportati nel contratto di mutuo, in virtù delle contestazioni avanzate sulla scorta della perizia di parte.
Va precisato che per la giurisprudenza maggioritaria la verifica dell’usura in sede di opposizione all’esecuzione può riguardare soltanto i contratti di mutuo su cui si fonda l’esecuzione, e non anche eventuali decreti ingiuntivi non opposti, o sentenze di condanna del debitore al pagamento di somme di denaro, poiché in relazione a questi ultimi si è ormai formato irrimediabilmente il giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c.
Qualora lo sforamento dei tassi soglia di usura risulti di entità particolarmente consistente, potrebbe prospettarsi un’ulteriore possibilità per il debitore.
Egli, infatti, potrebbe non solo presentare un ricorso in opposizione all’esecuzione immobiliare ma anche sporgere una denuncia-querela nei confronti del creditore procedente, potendosi in tal caso configurare il reato di usura ex art. 644 c.p.
In quest’ultima ipotesi, si aprirebbero due procedimenti paralleli, ovvero il giudizio civile di opposizione all’esecuzione ed il procedimento penale per il reato di usura.
Nell’ambito del procedimento penale, il debitore potrà richiedere la sospensione di tutte le procedure esecutive immobiliari in corso per la durata massima di trecento giorni ai sensi e per gli effetti della disciplina normativa antiusura e, in particolare, dell’art. 20, comma 4, della Legge n. 44/1999.
Ai fini dell’accoglimento della richiesta di sospensione, sarà comunque decisivo il parere positivo del pubblico ministero il quale, presumibilmente, terrà in debita considerazione l’esito della perizia contabile effettuata da un consulente tecnico da lui stesso nominato.
2) ILLEGITTIMITÀ E/O IMPROCEDIBILITÀ DELL’ESECUZIONE POICHÉ NON FONDATA SU VALIDO TITOLO ESECUTIVO EX ART. 474 C.P.C.
Affinché un contratto di mutuo possa esplicare la valenza di titolo esecutivo ex art. 474, comma 2 n. 3 c.p.c. -in virtù del quale: “Sono titoli esecutivi: (…) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli”– e dunque fondare legittimamente un’esecuzione immobiliare, è necessario che esso abbia un contenuto descrittivo idoneo a documentare in modo autosufficiente l’avvenuta erogazione della somma data a mutuo.
Al riguardo, una parte consistente della giurisprudenza di merito e di legittimità ritiene che il mutuo non possa valere quale idoneo titolo esecutivo, qualora dal testo contrattuale non emerga l’immediata acquisizione in favore del mutuatario della disponibilità della somma erogata, poiché condizionata all’adempimento di una serie di formalità -da parte del mutuatario- di cui non viene fornita la prova nella forma dell’atto ricevuto da un notaio, o da un altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge (cfr. Trib. Fermo, 23/10/2019, n. 602; Trib. Avezzano, 26/08/2019, n. 410; Trib. Ancona, 05/08/2019; Trib. Cassino, 16/05/2019; Trib. Tivoli, 05/04/2019; Trib. Trento, 30/01/2018; Trib. Pescara, 05.04.2017; Trib. Genova, 23/05/2018; Trib. Pistoia, 03.11.2017; Trib. Arezzo, 18/07/2017; Trib. Massa, 23/10/2015).
Un contratto di mutuo che presenti queste caratteristiche è anche detto “mutuo condizionato” in quanto la dazione di denaro è subordinata al verificarsi di una serie di condizioni e di alcuni adempimenti posti a carico del mutuatario, per cui in realtà il Notaio rogante non ha affatto attestato il concreto passaggio di denaro tra la banca mutuante ed il proprio cliente.
Ciò in quanto -come precisato dalla Suprema Corte- ove si debba accertare non solo se sia stato concluso un contratto reale di mutuo ma anche se esso costituisca titolo esecutivo, l’accertamento demandato al giudice di merito non si limiterà alla natura ed all’effettivo contenuto del contratto, integrato con l’atto di quietanza a saldo, bensì comporterà anche la verifica del requisito formale richiesto affinché l’atto possa integrare la funzione di titolo esecutivo (Cass. Civ. n. 17194/2015).
Il principio di diritto illustrato dalla Corte di Cassazione è, quindi, il seguente: “al fine di verificare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo, ai sensi dell’articolo 474 c.p.c., occorre verificare, attraverso l’interpretazione di esso integrata con quanto previsto nell’atto di erogazione e quietanza o di quietanza a saldo ove esistente, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo e di erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge”.
Ne consegue in buona sostanza che il creditore non avrebbe dovuto avviare l’esecuzione immobiliare in forza del mutuo condizionato, ma avrebbe dovuto ottenere prima un decreto ingiuntivo o una sentenza fondati sul mutuo stesso e, poi, avviare l’esecuzione forzata.
La conseguenza dell’avvio di un’esecuzione immobiliare in forza di un mutuo condizionato sarà invece quella dell’improcedibilità della procedura, a causa dell’insussistenza del titolo esecutivo fondante la medesima.
Peraltro, in base alla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, l’impossibilità di prosecuzione dell’intera procedura vale anche nei confronti di eventuali creditori intervenuti, per cui la caducazione del titolo del creditore procedente travolge inevitabilmente l’intera procedura, senza che possa rilevare la presenza di altri creditori intervenuti ugualmente titolati (v. Cass. Civ., S.U., n. 61/2014).
3) ILLEGITTIMITÀ DELL’ESECUZIONE POICHÉ L’IMMOBILE È GRAVATO DA UN FONDO PATRIMONIALE EX ART. 170 C.C. O DA UN “TRUST” O DA ALTRO ATTO DISPOSITIVO DEL PATRIMONIO EX ART. 2645 TER C.C.
Come è noto, l’attuale ordinamento giuridico consente di porre in essere taluni strumenti di separazione del patrimonio appartenente ad un dato soggetto, purché essi siano volti a perseguire interessi meritevoli di tutela.
In buona sostanza, detti atti segregativi del patrimonio consentono di impedire ai creditori -i quali vantino crediti che non abbiano nulla a che vedere con gli interessi meritevoli di tutela perseguiti- di aggredire determinati beni oggetto del vincolo patrimoniale.
Ad esempio, il più noto di questi strumenti -anche se ormai un po’ desueto- è il fondo patrimoniale disciplinato dall’art. 170 c.c., il quale consente di segregare uno o più beni di un compendio patrimoniale, così da destinarli esclusivamente al perseguimento delle esigenze della famiglia, per cui, in definitiva, solo i titolari di crediti sorti per perseguire esigenze della famiglia potranno aggredire mediante pignoramento i suddetti beni.
A tal riguardo, si osservi che per “bisogni familiari” devono intendersi le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della capacità lavorativa familiare, restando esclusi da tale nozione le sole esigenze di natura voluttuaria, o caratterizzate da interessi meramente speculativi, oppure -in base alla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione- le esigenze familiari “indirette”.
A quest’ultimo proposito, per “esigenze familiari indirette” si intende che qualora il credito per cui si procede sia solo indirettamente destinato alla soddisfazione delle esigenze familiari del debitore, rientrando nell’attività professionale da cui quest’ultimo ricava il reddito occorrente per il mantenimento della famiglia, non sarà consentita ai sensi dell’art. 170 c.c., la sua soddisfazione sui beni costituiti in fondo patrimoniale (v. Cass. Civ. 27/04/2020, n. 8201).
In merito poi ad altri atti segregativi del patrimonio, come ad esempio il “trust” o gli atti dispositivi di cui all’art. 2645 ter c.c., essi consentono di vincolare il patrimonio del disponente anche in forza di interessi diversi dalle esigenze della famiglia, purché detti interessi possano reputarsi “meritevoli di tutela” per l’ordinamento giuridico, conseguendone, altrimenti, la nullità del vincolo dispositivo.
Per quanto interessa nello specifico l’istituto del trust, la giurisprudenza ha rilevato che esso non gode di alcuna soggettività giuridica e che, pertanto, il destinatario del pignoramento dovrà essere il beneficiario del trust, ossia il c.d. “trustee”, derivandone in caso contrario l’illegittimità della procedura esecutiva avviata nei confronti del trust.
Infatti, poiché il trust non è titolare di diritti e tanto meno può essere destinatario di un’esecuzione, i beni conferiti in un trust devono essere pignorati nei confronti del trustee e il Giudice dell’esecuzione potrà verificare, anche d’ufficio, l’esistenza del soggetto nei cui confronti è stata intentata la procedura esecutiva (Cass. Civ., 27.01.2017, n. 2043).
Senza soffermarsi in questa sede sulle caratteristiche e sui requisiti di ciascun atto di segregazione del patrimonio, ci basti sapere che qualora il titolare di un credito estraneo agli interessi perseguiti dal vincolo aggredisca -mediante atto di pignoramento- un immobile parte di un vincolo dispositivo, il debitore potrà fondatamente presentare un’opposizione all’esecuzione, allo scopo di fare interrompere e fare dichiarare l’illegittimità della procedura.
4) NULLITÀ DEL MUTUO PER SUPERAMENTO DEL LIMITE DI FINANZIABILITÀ EX ART. 38 T.U.B. E CONSEGUENTE IMPROCEDIBILITÀ DELLA PROCEDURA ESECUTIVA
L’art. 38 del Testo Unico Bancario, al 2° comma, e la delibera CICR di attuazione del 22/04/1995 impongono un limite massimo di finanziabilità del credito fondiario che è pari all’80% del valore dei beni ipotecati o del costo delle opere da eseguire sugli stessi, elevabile fino al 100% soltanto qualora vengano prestate adeguate garanzie integrative (come ad es. fideiussioni bancarie o polizze fideiussorie).
A tal riguardo, la normativa comunitaria (v. direttiva 2000/12/ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 marzo 2000; direttiva 2006/48/ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006; Regolamento (ue) n. 575/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013) pone come elemento fondante ai fini del superamento del limite di finanziabilità il Mortgage Lending Value (MLV).
Quest’ultimo criterio deve intendersi come il valore cauzionale effettivo dell’immobile nella prospettiva futura dell’eventuale inadempimento del cliente in caso di mancata restituzione del prestito e della conseguente necessità di realizzo forzoso come netto realizzo in sede di vendita giudiziale, secondo il prudente apprezzamento della futura negoziabilità, tenuto conto degli aspetti durevoli a lungo termine e delle condizioni del mercato, dell’uso corrente e dei suoi appropriati usi alternativi.
Il predetto importo “limite” non coincide dunque con il prezzo pattuito tra le parti, né è riconducibile al valore di mercato in un determinato momento, né a considerazioni speculative.
Occorre domandarsi, quindi, quali conseguenze si verifichino laddove la banca creditrice non osservi il più volte menzionato “tetto” massimo di finanziabilità.
Sul punto, la Corte di Cassazione si è di recente pronunciata, con un’ordinanza del 13 novembre 2019 -21 gennaio 2020, n. 1193, con la quale si è stabilito che il limite di finanziabilità ex art. 38, secondo comma T.U.B. è un elemento essenziale del contenuto del contratto ed il suo mancato rispetto determina la nullità del contratto stesso, costituendo un limite inderogabile all’autonomia privata in ragione della natura pubblica dell’interesse tutelato, volto a regolare il quantum della prestazione creditizia, per favorire la mobilizzazione della proprietà immobiliare ed agevolare e sostenere l’attività di impresa.
Tale pronuncia costituisce un orientamento ormai consolidato da parte della giurisprudenza di legittimità che già si era così espressa sull’argomento: “In tema di credito fondiario, il limite di finanziabilità previsto dal D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 38, comma 2 come stabilito dalla Banca d’Italia su delibera del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, non esaurisce i suoi effetti sul piano della condotta dell’istituto di credito mutuante, ma è elemento essenziale per la valida qualificazione del contratto di mutuo come fondiario e quindi per l’applicabilità della relativa disciplina di privilegio, sostanziale e processuale, in favore del creditore; pertanto, il superamento di tale limite comporta certamente, tanto ove sia necessario inferirne la nullità dell’intero contratto […]” (Cass. Civ., sez. III, sent. n. 17439 del 28/06/2019; in senso conforme Cass. Civ. 16/03/2018, n. 6586; Cass. Civ. 12/04/2018, n. 9079; Cass. Civ. 9/05/2018, n. 11201; Cass. Civ. 26/05/2018, n. 13286; Cass. Civ. 24/09/ 2018, n. 22446; Cass. Civ. 19/11/ 2018, n. 29745).
A tal proposito si segnala che anche la giurisprudenza di merito prevalente pare essersi orientata nel ritenere nullo il mutuo fondiario nella predetta ipotesi di violazione del limite di finanziabilità (v. Tribunale Pistoia, 14/01/2020, n. 25; Tribunale Roma sez. XVII, 28/09/2020, n. 12972; Corte appello Torino, 27/08/2020, n. 872; Tribunale Pordenone, 17/02/2020, n. 120; Tribunale S.Maria Capua V. sez. IV, 14/11/2019; Tribunale Milano sez. III, 30/05/2019; Tribunale Monza, 05/10/2018; Tribunale Trento, 16/07/2018, n. 689; Corte appello Napoli sez. V, 07/12/2017, n. 5073).
Tuttavia, l’eventuale nullità del mutuo fondiario non preclude alla banca creditrice di richiedere alla prima difesa utile la conversione del mutuo fondiario in mutuo ipotecario, ai sensi dell’art. 1424 c.c., così rendendo vana ogni contestazione in merito alla legittimità della prosecuzione della procedura.
Ne consegue che il presente motivo di opposizione pare più calzante in sede di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., da spiegarsi entro il termine perentorio di venti giorni dalla notifica dell’atto di precetto, in quanto in tal caso -anche in ipotesi di conversione del mutuo fondiario in mutuo ipotecario- non potrebbe essere avviata nessuna legittima azione esecutiva senza che venga notificato anche il contratto di mutuo.
Come è noto, infatti, una delle caratteristiche principali del mutuo fondiario è quella sancita dall’art. 41, comma 1, del T.U.B., in base al quale “Nel procedimento di espropriazione relativo a crediti fondiari è escluso l’obbligo della notificazione del titolo contrattuale esecutivo”.
L’avvenuta conversione del mutuo fondiario nullo in mutuo ipotecario avrebbe invece come conseguenza pratica che l’atto di precetto notificato senza il contratto di mutuo risulterebbe anch’esso nullo e che esso, quindi, sarebbe del tutto inidoneo a consentire l’avvio di una procedura esecutiva.
Riepilogando, in conclusione, la qualificazione del credito come fondiario o come ipotecario assume rilevanza ai soli fini della ritualità o della legittimità dell’esenzione dall’obbligo di previa notifica del titolo esecutivo e assume importanza soprattutto in ipotesi di opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di precetto.
In sede di opposizione all’esecuzione, la violazione del limite di finanziabilità consente invece di interrompere la procedura ma nel solo caso in cui il creditore -entro la prima difesa utile- non chieda di convertire il mutuo fondiario in mutuo ipotecario a norme dell’art. 1424 c.c.
5) IMPIGNORABILITÀ DELLA PRIMA CASA DA PARTE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE EX ART. 52 DEL C.D. DECRETO DEL FARE
L’articolo 52 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “Decreto del fare”, convertito in con legge 9 agosto 2013, n. 98) ha modificato la formulazione dell’articolo 76 del d.P.R. 602/1973 (Espropriazione immobiliare), stabilendo che “l’agente della riscossione non dà corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso, (…) è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente”.
Dunque si tratta di una nuova ipotesi di impignorabilità soggetta però ad alcuni tassativi requisiti:
1) innanzitutto deve trattarsi di un pignoramento avviato o proseguito dall’Agenzia delle Entrate;
2) l’immobile deve essere ad uso abitativo e deve essere quello dove il debitore ha la residenza e non deve essere un’abitazione di lusso;
3) deve essere l’unico immobile di proprietà del debitore.
La disposizione normativa sopra citata è entrata in vigore il 22 giugno 2013 ma la giurisprudenza di legittimità ritiene che essa abbia effetto retroattivo e che pertanto trovi applicazione anche alle procedure esecutive immobiliari avviate o proseguite dall’Agenzia delle Entrate prima del 22 giugno 2013.
Si è difatti ritenuto che “dal momento che la norma disciplina il processo esecutivo esattoriale immobiliare, e non introduce un’ipotesi di impignorabilità sopravvenuta del suo oggetto, la mancanza di una disposizione transitoria comporta che debba essere applicato il principio per il quale, nel caso di successione di leggi processuali nel tempo, ove il legislatore non abbia diversamente disposto, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 11 delle preleggi, la nuova norma disciplina non solo i processi iniziati successivamente alla sua entrata in vigore, ma anche i singoli atti ad essa successivamente compiuti, di processi iniziati prima della sua entrata in vigore, quand’anche la nuova disciplina sia più rigorosa per le parti rispetto a quella vigente all’epoca di introduzione del giudizio (così Cass. n. 3688/2011)” (Cass. Civ., 12.09.2014, n. 19270).
In conclusione, ne consegue che qualora l’Agenzia delle Entrate abbia eseguito il pignoramento immobiliare mediante la trascrizione e la notificazione dell’avviso di vendita, ai sensi dell’art. 76 del d.P.R. n. 602 del 29 settembre 1973 -ed il processo sia ancora pendente alla data del 21 agosto 2013- l’azione esecutiva non potrà più proseguire e la trascrizione del pignoramento dovrà essere cancellata, se l’espropriazione ha ad oggetto l’unico immobile di proprietà del debitore, che non sia bene di lusso e sia destinato ad abitazione del debitore, il quale vi abbia la propria residenza anagrafica (v. ancora Cass. Civ., 12.09.2014, n. 19270).
6) ESTINZIONE ANTICIPATA DEL PROCESSO ESECUTIVO PER INFRUTTUOSITÀ DELLA VENDITA
Durante il procedimento di esecuzione immobiliare può accadere che l’immobile pignorato subisca un notevole deprezzamento del suo valore a causa dei continui ribassi del prezzo d’asta, con grave pregiudizio soprattutto per il debitore esecutato, il quale si vedrebbe portar via l’immobile di sua proprietà ad un prezzo così basso da risultare assolutamente inidoneo a soddisfare le pretese dei suoi creditori.
Proprio in riferimento a tali casistiche, l’art. 164 bis disp. att. c.p.c. -derubricato “Infruttuosità dell’espropriazione forzata”– stabilisce che “quando risulta che non è più possibile un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo” e ciò indipendentemente dalla volontà del creditore.
La disposizione sopra citata tutela in sostanza l’interesse pubblico alla ragionevole durata del processo esecutivo ai sensi dell’art. 111 Cost., 2° comma, quello privato alla fruttuosità dell’esecuzione per la soddisfazione del creditore, nonché l’interesse del debitore a non subire un’ingiusta esecuzione.
Non esistono dunque criteri prestabiliti per determinare quando la procedura possa dirsi “infruttuosa” ma ad ogni modo la norma sopra citata menziona due parametri da valutare:
1) in primo luogo, la circostanza che il bene non abbia suscitato interesse nel mercato malgrado i molteplici esperimenti di vendita e ciò nonostante la pubblicità attuata ed il fatto che sia stato posto in vendita ad un prezzo estremamente modesto;
2) in secondo luogo, la considerazione che la prosecuzione dei tentativi di vendita non consentirebbe un soddisfacimento “ragionevole” delle pretese dei creditori.
Sul punto, la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ha difatti rilevato che “la peculiare ipotesi di chiusura anticipata della procedura ex art. 164 bis disp. att. c.p.c. ricorre e va disposta ove, invano applicati o tentati ovvero motivatamente esclusi tutti gli istituti processuali tesi alla massima possibile fruttuosità della vendita del bene pignorato, risulti, in base ad un giudizio prognostico basato su dati obiettivi anche come raccolti nell’andamento pregresso del processo, che il bene sia in concreto invendibile o che la somma ricavabile nei successivi sviluppi della procedura possa dare luogo ad un soddisfacimento soltanto irrisorio dei crediti azionati ed a maggior ragione se possa consentire esclusivamente la copertura dei successivi costi di esecuzione” (Cass. Civ., sez. III, 10/06/2020, n. 11116).
Con tale pronuncia, inoltre, si è chiarito che “La relativa valutazione non deve avere luogo in modo espresso prima di ogni rifissazione, specie qualora il numero ne sia stato stabilito con l’ordinanza di vendita o altro provvedimento, ma una motivazione espressa è necessaria in caso di esplicita istanza di uno dei soggetti del processo oppure quando si verifichino o considerino fatti nuovi, soprattutto in relazione alle previsioni dell’ordinanza ai sensi dell’art. 569 c.p.c.” (Cass. Civ., sez. III, 10/06/2020, n. 11116).
In definitiva, si tratta di un’ipotesi che si verifica in casi alquanto rari, non essendo di per sé sufficiente il vano esperimento di uno o più aste giudiziarie ai fini di poter invocare l’estinzione per infruttuosità del processo esecutivo.
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Un’ulteriore possibilità per il debitore per bloccare l’esecuzione immobiliare: la procedura di sovraindebitamento ex Legge n. 3/2012
Laddove il debitore non abbia modo di far valere nessuno dei profili di illegittimità sopra descritti, egli avrà ancora un’ulteriore possibilità per ottenere la sospensione della procedura esecutiva, ripianando nel contempo la propria esposizione debitoria.
La legge n. 3/2012 ha difatti introdotto la possibilità -riservata a chi si trovi in stato di sovraindebitamento, ovvero in una situazione di grave squilibrio tra la propria esposizione debitoria ed il proprio patrimonio/reddito- di presentare presso il Tribunale competente e con l’ausilio di professionisti un piano di ristrutturazione dei debiti, che potrà prevedere lo stralcio del debito e la rateazione del residuo.
Affinché detto piano di ristrutturazione venga approvato, se il debitore riveste la qualifica di consumatore, sarà sufficiente che esso venga omologato e reso esecutivo dal Giudice con una propria autonoma decisione, anche a prescindere dal mancato consenso dei creditori del soggetto sovraindebitato.
Altrimenti, se il debitore non è consumatore, sarà indispensabile il consenso dei creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dell’esposizione debitoria complessiva.
Sul punto, l’art. 6 comma 2 lett. b) della L. n. 3/2012 precisa che per “consumatore” deve intendersi il debitore persona fisica che abbia assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta e tale qualifica, in effetti.
Al riguardo, si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità, la quale ha sancito che per qualificare come “consumatore” la persona fisica che intenda accedere alla procedura di cui alla legge n. 3/2012 bisogna considerare le esigenze personali o familiari, o della più ampia sfera attinente agli impegni derivanti dall’estrinsecazione della propria personalità sociale, “anche a favore di terzi, ma senza riflessi in un’attività d’impresa o professionale propria” (Cass. Civ. n. 1869/2016; a cui ha fatto seguito Tribunale di Padova 27 giugno 2018).
In buona sostanza, la Suprema Corte sembra aprire alla procedura del consumatore anche per quei debiti derivanti da impegni presi a favore di terzi, quali garanzie o fideiussioni, purché gli stessi non abbiano riflessi in una propria attività d’impresa.
Per quanto ci interessa, occorre rilevare che in entrambe le procedure di sovraindebitamento summenzionate il Giudice adito dovrà disporre la sospensione di tutte le esecuzioni in corso per il termine massimo di 120 giorni, ai sensi dell’art. 10, comma 2 lett. c), della Legge 27 gennaio 2012, n. 3.
Anche attraverso l’esperimento della suddetta procedura di sovraindebitamento, pertanto, sarà possibile ottenere la sospensione del processo esecutivo.
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