Autonomia negoziale e diritto di famiglia: la cessazione dei rapporti familiari
Il processo di esaltazione dell’autonomia negoziale, tradizionalmente legata al diritto contrattuale, ha fatto sì che essa tracimasse il suo campo elettivo, per giungere a riguardare ambiti ulteriori del diritto civile.
Questa tendenza, per certi versi, tra l’altro, sorretta dalla concomitante diffusione cui il principio di buona fede è andato incontro in tutti i campi del diritto privato, ha riguardato, sebbene non senza svariate difficoltà, l’ambito dei diritti reali, in cui la tradizionale tipicità ed il principio del numerus clausus hanno sempre reso difficile la configurabilità di un qualche spazio da concedere all’autonomia dei privati (si pensi al negozio di cessione di cubatura, alla multiproprietà, ai patrimoni destinati); lo stesso è avvenuto, peraltro, anche nel diritto delle successioni, al cui interno parecchie sono le questioni che hanno, nel corso degli ultimi anni, agitato dottrina e giurisprudenza (come è avvenuto con riguardo alle discussioni sul divieto di patti successori, ai patti di famiglia, alla clausola di diseredazione).
Il fenomeno di diffusione dell’autonomia negoziale, tuttavia, è giunto a riguardare altresì il diritto di famiglia, nonostante la tradizionale antitesi che caratterizza quest’ambito rispetto a quello contrattuale, da sempre ritenuti “antagonisti”.
Ed infatti, la particolare delicatezza del diritto di famiglia, unitamente alla sua peculiarità di riguardare non di rado lo status dei soggetti coinvolti, ha da sempre reso tendenzialmente incomunicabile questo mondo con quello della libera esplicazione dell’autonomia delle parti, normalmente volta alla regolamentazione di aspetti inerenti la patrimonialità.
Se questo è vero, però, è altrettanto innegabile che, già all’interno del codice civile, svariati siano gli esempi che dimostrano come detta incomunicabilità non sia assoluta, ma, anzi, derogata in particolari situazioni nelle quali il diritto dei contratti comunica ed “aiuta” il diritto di famiglia.
Il riferimento è, ad esempio, alla disciplina di cui all’art. 144, c.c., a quella di cui all’art. 316, 2, c.c., ma anche a quella in materia di rappresentanza legale e, almeno fino a poco tempo fa (ma, forse, tuttora), a quella riguardante gli accordi di convivenza extraconiugale, alla luce del processo di parificazione, per il viatico dell’art. 2, Cost., tra famiglia “di fatto” e famiglia fondata sul matrimonio.
Da altro punto di vista, poi, contratto e famiglia “comunicano” anche nelle occasioni in cui il legislatore ha evidenziato la precarietà di alcuni atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro (art. 184, c.c.).
Tuttavia, la mancanza di un’espressa disciplina di riferimento volta a regolare gli interessi dei coniugi nella fase della crisi, in vista della cessazione dei rapporti familiari, ha fatto sì che, nel corso del tempo, l’autonomia negoziale tendesse ad acquisire un certo spazio proprio in quest’ambito, pur dovendo necessariamente confrontarsi con l’indisponibilità (almeno tradizionale) di alcune situazioni giuridiche soggettive che in questo frangente vedono la loro origine.
E’ certamente vero che tracce della presenza di un accordo si rinvengano, a questo riguardo, in ambito legislativo. Basti pensare alle condizioni concernenti la prole e i rapporti patrimoniali contenute nella domanda di separazione consensuale ex art. 711, c. 3, c.p.c., o ex artt. 4, c. 13 e 5, c. 8, l. n. 898/70.
Proprio su tali basi normative, dunque, è andato diffondendosi il dibattito sulla configurabilità dei cd. negozi della crisi familiare, volti alla regolamentazione di aspetti puramente patrimoniali sospensivamente condizionati allo scioglimento del vincolo matrimoniale.
Le prime discussioni in materia, per la verità, hanno riguardato la natura stessa di tali accordi, da taluno ritenuti accordi atipici a titolo oneroso, finalizzati a definire la crisi e contenenti prestazioni di vario genere, da valutare a seconda del caso concreto, da altri, per contro, identificabili con una vera e propria obbligazione legale di mantenimento.
La Suprema Corte, in più di un’occasione, ha avuto modo di precisare che la natura giuridica di tali accordi non è ascrivibile né alla donazione, né alla vendita, giacché essi presentano caratteristiche che valgono a differenziarli da entrambe le fattispecie; tuttavia, tali accordi risultano comunque dotati di una propria tipicità, da “colorarsi” nella specificità del caso concreto. Più in particolare, essi sarebbero caratterizzati da una più generale “connotazione solutorio – compensativa”, che può essere onerosa ovvero gratuita, a seconda della modalità con cui i coniugi abbiano inteso regolare i propri rapporti, caratterizzandosi, dunque, per una forma “versatile”, dipendente, sostanzialmente, dal dovere del coniuge di compensare e/o ricompensare l’altro.
A questa impostazione, peraltro, se ne è affiancata un’altra, avallata allo stesso modo dalla Corte di Cassazione, per cui tali accordi sarebbero veri e propri contratti atipici, ferma restando, comunque, la causa familiare.
Risulta, allora, evidente la differenza tra questi negozi e le convenzioni matrimoniali, volte alla regolazione, non già di aspetti successivi allo scioglimento del vincolo matrimoniale, ma della convivenza matrimoniale in corso.
La sussistenza di una disciplina legale finalizzata alla regolamentazione dello scioglimento del matrimonio, peraltro, ha fatto sì che si discutesse della compatibilità tra detta disciplina e tali accordi, frutto dell’autonomia negoziale dei coniugi.
A tal fine, dunque, si è diffusa una prima distinzione tra accordi preventivi, concomitanti e successivi, con riferimento tanto alla separazione, quanto al divorzio.
Con riguardo alla separazione, più in particolare, è necessario distinguere. Ed infatti, gli accordi preventivi e concomitanti non hanno posto alcun problema quando riguardanti materie estranee rispetto a quelle regolate dalla separazione, per il principio cd. di non interferenza (artt. 158, c.c.e 711 c.p.c.). Gli accordi preventivi e concomitanti riguardanti, invece, le stesse materie della separazione erano inizialmente considerati nulli, in quanto la regolamentazione della futura vita dei coniugi separati si riteneva dovesse essere necessariamente rimessa al vaglio del giudice; a tale impostazione se ne è opposta un’altra, volta, invece, ad esaltare la centralità dell’autonomia e del consenso, in un’ottica, peraltro, di tutela del coniuge debole.
Gli accordi successivi, per contro, sono sempre stati ritenuti campo elettivo di estrinsecazione dell’autonomia negoziale, nel rispetto dell’art. 1322, c.c. e, evidentemente, dell’art. 160. Essi sono, dunque, validi e vincolanti per i coniugi anche laddove modificativi delle condizioni stabilite dal giudice, con la sola precisazione che, qualora essi fossero incidenti sulla prole, possono ritenersi validi solo se migliorativi rispetto alle condizioni giudizialmente stabilite.
L’autonomia negoziale, che tanto spazio ha acquistato in quest’ambito, per contro, ha subito una notevole compressione con riferimento agli accordi precedenti il divorzio (cd. accordi predivorzili), ritenuti invalidi dall’orientamento dominante, per illiceità della causa, data la contrarietà con l’ordine pubblico per l’indisponibilità di diritti e doveri oggetto dell’accordo, ovvero per violazione del diritto di difesa, che sarebbe pregiudicato nel giudizio di divorzio.
La caratteristica del divorzio, invero, è quella di incidere definitivamente sullo status personale dei coniugi, laddove pure la separazione reca in sé la peculiarità di afferire allo status, ma in maniera solo temporanea. Proprio questa particolarità del divorzio rispetto alla separazione, allora, ha spinto la Suprema Corte ad abbracciare l’orientamento maggioritario sull’invalidità degli accordi predivorzili.
Tuttavia, da tempo si affianca a questa impostazione, sebbene timidamente ed in maniera ancora minoritaria, un contrario orientamento (sostenuto essenzialmente da alcuni Tribunali di merito), che vede le proprie basi proprio nell’esaltazione dell’autonomia negoziale, la cui espansione, anche nel diritto di famiglia, pare, ormai, innegabile.
Detta impostazione, in particolare, fonda il proprio convincimento su una serie di constatazioni che renderebbero irragionevole e contraddittorio restare ancora assestati sull’orientamento preclusivo. In particolare, si dice, si sostiene pacificamente la validità di accordi predivorzili stipulati tra cittadini stranieri residenti in Italia, se ciò è permesso dalla loro legge nazionale; sarebbe, inoltre, del tutto irragionevole sostenere la nullità di questi accordi, ma la validità di quelli poi trasfusi nel cd. divorzio congiunto, ma non solo. Non si comprende, infatti, il motivo per cui in quest’ambito la preclusione sarebbe fondata sull’incisione che il divorzio realizza sugli status dei coniugi, laddove in altri ambiti la stessa caratteristica non vale a ritenere l’accordo stipulato parimenti invalido (il riferimento è non solo alla separazione, che, come evidenziato, pure incide sullo status dei coniugi, sebbene solo temporaneamente, ma anche alle convenzioni matrimoniali, stipulate in vista del matrimonio, che, evidentemente, è assolutamente idoneo ad incidere sullo status dei nubendi). Ancora, la validità della donazione obnuziale, l’assenza di incertezza sul carattere futuro nel rispetto dell’art. 1348, c.c., la compatibilità con l’art. 160 e, non da ultimo, la rilevanza che la buona fede ha guadagnato nel diritto civile, varrebbero a ritenere i tempi maturi per un cambiamento di impostazione circa la validità degli accordi predivorzili, in piena compatibilità con l’ormai innegabile irruzione della negozialità in tutti i campi afferenti i rapporti patrimoniali dei coniugi.
In linea con questa impostazione, la Suprema Corte ha ritenuto tali negozi contratti atipici, frutto di autonomia negoziale, nel cui ambito è inserita la condizione sospensiva (non meramente potestativa) del fallimento del matrimonio, quale fattore oggettivo, incerto ed indipendente da eventuali responsabilità addebitabili ai coniugi, sempre nel rispetto, chiaramente, di norme imperative ed ordine pubblico.
Del resto, le coordinate ermeneutiche fornite dalle Sez. Un. n. 4628/15, nella nota pronuncia in materia di preliminare di preliminare, suggeriscono chiaramente che, in linea con la crescente esaltazione dell’autonomia negoziale è concesso alle parti tutto ciò che è a loro utile, anche se socialmente futile, purché nel rispetto della legge.
Ad ulteriore conferma, poi, del crescente spazio guadagnato dall’autonomia negoziale anche nel diritto di famiglia, si pone il recente intervento legislativo, con l. n. 162/14, che ha previsto la negoziazione assistita della crisi familiare, con cui, in sostanza, si concede spazio a nuove modalità di scioglimento del vincolo coniugale, nel cui ambito è concessa piena centralità all’accordo dei coniugi, subordinato solo a controlli successivi (autorizzazioni, nulla osta ecc.) più o meno pregnanti, da parte dell’autorità giudiziaria, a seconda della presenza o meno di figli minori o maggiorenni con disabilità.
Tale negozio, qualificato a pieno titolo di diritto familiare, è incentrato sul principio di buona fede e lealtà, non può riguardare diritti indisponibili, segue le norme generali sul contratto ed è applicabile solo al divorzio preceduto da separazione, a dimostrazione del fatto che, sebbene volto all’esaltazione dell’autonomia negoziale, non è idoneo ad introdurre nel nostro ordinamento, una sorta di divorzio consensuale.
Il rapporto tra autonomia negoziale e cessazione dei rapporti familiari, tuttavia, non può esaurirsi alla regolamentazione della crisi coniugale, in particolare alla luce dell’entrata in vigore della l. n. 76/16, che introduce la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, e quella della convivenza more uxorio, definita tuttora “di fatto”, sebbene oggetto di una precipua disciplina.
Con riguardo alle unioni civili, più in particolare, la disciplina è parificata, in molteplici aspetti, a quella del matrimonio, per cui le stesse considerazioni svolte potrebbero essere trasposte anche in quest’ambito, con la sola precisazione che, con riferimento alle unioni civili, lo scioglimento dell’unione richiama la normativa in materia di divorzio.
Più complesso è, invece, il discorso con riguardo alla convivenza more uxorio, giacché, prima dell’entrata in vigore della Legge Cirinnà, tutto era affidato all’autonomia negoziale, che ha, dunque, subito quasi una compressione con l’introduzione di detto provvedimento legislativo.
Il grande merito della legge in parola, invero, è senza dubbio stato quello di disciplinare il regime patrimoniale tra conviventi, che, in passato, non potevano concludere accordi volti alla regolamentazione di quest’aspetto, per l’assenza della necessaria pubblicità a tutela dei terzi.
Ed infatti, il rapporto di convivenza era, in passato, impiantato sulla struttura delle obbligazioni naturali (a seguito del superamento dell’impostazione che rinveniva, nel rapporto di convivenza, la sussistenza di una donazione remuneratoria), con conseguente soluti retentio di quanto prestato nel corso della stessa.
Oltre questa impostazione, peraltro, frequenti erano gli accordi conclusi dai conviventi stessi, volti a regolare, tanto la convivenza in sé, con la previsione della condizione risolutiva dello scioglimento della stessa, quanto i rapporti successivi alla convivenza, mediante l’apposizione di una condizione sospensiva.
L’autonomia negoziale, dunque, era sovrana in un ambito nel quale nulla era prestabilito dal legislatore, al punto che si ritenevano ammissibili anche accordi finalizzati alla regolazione di aspetti successori, che utilizzavano lo schema del contratto a favore di terzo, onde evitare di incappare nel divieto di patti successori.
Con l’entrata in vigore della L. Cirinnà, peraltro, si è introdotto nel nostro ordinamento il contratto di convivenza, quale contratto tipicamente previsto, il cui contenuto può essere variamente modulato dalle parti, nel rispetto della legge in parola. Tuttavia, è vero che proprio questa legge nulla prevede con riguardo alla regolamentazione degli aspetti successivi allo scioglimento della convivenza. Ci si è, quindi, posti il dubbio sul se potesse residuare, in capo ai conviventi, un qualche spazio da assegnare alla loro autonomia, per la gestione della cessazione del rapporto.
Più in generale, per la verità, ci si è chiesti se, a seguito della tipizzazione del contratto di convivenza, fosse ancora possibile stipulare contratti atipici, ulteriori e diversi rispetto a quello tipizzato dalla L. Cirinnà. Si è sotenuto, invero, che limitare l’autonomia negoziale in questo campo sarebbe del tutto in controtendenza rispetto alle moderne istanze volte all’esaltazione di detta autonomia, per cui non sembrerebbe che possano sussistere limitazioni alla stipula di contratti atipici di convivenza, in linea, del resto, con quanto affermato dalla già citata sent. S. Un. 2015 sul preliminare di preliminare.
Peraltro, se questo è vero, a maggior ragione non si vede quale possa essere il motivo per limitare l’esplicazione dell’autonomia negoziale nella previsione di accordi, sia preventivi che successivi, che possano regolare la fine del rapporto di convivenza, alla luce, tra l’altro, della constatazione per cui, a ben vedere, quello che rappresenta il più grande ostacolo nell’ambito degli accordi in vista dello scioglimento del matrimonio, ovverosia l’incisione sugli status personali dei coniugi, non si ripropone con riguardo alla convivenza.
Certamente, poi, se nessun problema si pone con riferimento alle prestazioni aventi contenuto patrimoniale, maggiore attenzione è necessaria qualora gli accordi riguardino anche la prole. A questo proposito, peraltro, sembra opportuno continuare a seguire l’orientamento formatosi precedentemente all’entrata in vigore della legge Cirinnà, in base al quale si fa riferimento alle previsioni legislative in tema di separazione e divorzio (anche alla luce, tra l’altro, della parificazione tra filiazione legittima e filiazione naturale di cui alla l. n. 219/12).
L’autonomia negoziale, dunque, è andata incontro ad un processo di espansione che l’ha condotta ben oltre il suo tradizionale campo elettivo, ovverosia quello contrattuale. Il fondamento costituzionale in essa rinvenuto, inoltre, ha fatto sì che tutte le limitazioni apposte alla sua espansione dovessero necessariamente essere ragionevoli, congrue, proporzionate, non arbitrarie e poste dalla legge.
Alla luce di queste considerazioni si sono, dunque, delineati quelli che oggi rappresentano i limiti interni ed esterni alla stessa, che si sostanziano nella meritevolezza di interessi che essa persegue, ex art. 1322, c. 2, c.c. e nel rispetto delle norme imperative poste dall’ordinamento.
Se queste condizioni risultano rispettate, dunque, non si vede il motivo per cui, anche in ambiti ulteriori del diritto civile, quale il diritto di famiglia, in particolare con riguardo agli aspetti di regolamentazione dello scioglimento dei rapporti familiari, l’autonomia delle parti non possa trovare un suo spazio, che, peraltro, si dimostra sempre crescente, proprio in considerazione degli interessi di particolare rilevanza – e certamente meritevoli di tutela – che essa è volta, in questo campo, a perseguire.
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Alessia Annunziata
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