Autonomia negoziale e usura sopravvenuta
La disponibilità di denaro genera la produzione di interessi quali frutti derivanti dal possesso materiale di disponibilità economica. Ciò comporta che ad un’obbligazione pecuniaria si aggiunge un’ulteriore rapporto obbligatorio caratterizzato dall’onere di corresponsione dei medesimi.
Trattasi di un meccanismo – giuridico-economico – che si rintraccia nel generale principio di fecondità del denaro. Già nel diritto romano, infatti, gli interessi (dal latino usus) costituivano i frutti maturati alla luce della detenzione di una somma di liquidità monetaria.
È evidente, dunque, che gli stessi soddisfano prima di tutto un’esigenza di tipo compensativo.
Il pagamento degli interessi da parte del debitore fa si che quest’ultimo remuneri il creditore compensandolo per lo svantaggio che questi subisce in seguito alla privazione di una parte del proprio capitale, in considerazione del vantaggio che egli ha, al contrario, ottenuto dall’erogazione della somma di denaro.
Dagli interessi compensativi, tuttavia, si distinguono quelli moratori che emergono in considerazione del ritardo del debitore nell’esecuzione della prestazione dedotta nell’obbligazione.
Essi, in altri termini, soddisfano una finalità tipicamente sanzionatoria.
Orbene, l’art. 1284 c.c. suole distinguere gli interessi legali da quelli convenzionali. I primi sono individuati direttamente dalla legge, ovvero, calcolati in misura d’anno e definiti con decreto ministeriale; i secondi, al contrario, sono stabiliti dalle parti attraverso la determinazione di uno specifico accordo.
La norma in parola, infatti, prevede che gli interessi diversi dal saggio legale possono essere determinati convenzionalmente dalle parti per iscritto.
In quest’ultimo caso, dunque, si assiste ad un richiamo indiretto al principio dell’autonomia negoziale di cui all’art. 1322, comma 2, c.c. ed al relativo limite individuato dalla legge. Le parti possono stipulare un contratto ed inserirvi una clausola che, espressione della loro attività negoziale, prevede la corresponsione di interessi in una misura diversa dal saggio legale. Tuttavia, quando questi ultimi superano il limite identificato dalla legge presentano un profilo di usura tale da pregiudicare l’equilibrio economico e giuridico del contratto stipulato.
L’ipotesi in esame si verifica, soventemente, nella disciplina dei contratti di mutuo ove, onde garantire la tutela del mutuatario dal rischio di sopravvenienze idonee a influire negativamente sul sinallagma contrattuale, trova applicazione l’art. 1815, comma 2, c.c..
La disposizione in parola prevede che laddove gli interessi da corrispondere al mutuante siano usurari, la relativa clausola è nulla con conseguente liberazione del debitore dell’obbligo di esecuzione della prestazione medesima.
La ratio sottesa alla norma è finalizzata a riconoscere la conservazione del negozio giuridico posto in essere, attraverso la dichiarazione della nullità della sola clausola.
Il debitore contraente debole, infatti, potrebbe essere leso dall’eventuale affermazione della nullità dell’intero contratto, non potendo beneficiare in alcun modo della somma di denaro richiesta.
Pertanto, l’invalidità della clausola deve ritenersi espressione di una forma di tutela protezionistica che il legislatore ha inteso attribuire al mutuatario in questione.
Ora, se sembra essere pacifica la disciplina appena richiamata, profili di incertezza assume l’istituto dell’usura sopravvenuta.
La dottrina più avveduta e la giurisprudenza, infatti, si è imbattuta nella definizione di problemi che emergono quando il tasso di interesse convenzionalmente stabilito dalle parti diventa usurario durante l’esecuzione del negozio giuridico stipulato, in considerazione del mutamento del saggio legale.
Invero, il nodo gordiano si è formato successivamente alla riforma della disciplina in materia di usura sopravvenuta con l’entrata in vigore della legge n. 108/1996.
Considerata l’identità dei presupposti fondamentali per la sussistenza del fenomeno in considerazione, tra disciplina civilistica e penalistica ex art. 644 c.p., il problema sorge dalla non esplicita menzione nel testo della legge dell’istituto in analisi.
Più precisamente, il dettato legislativo considera usurari gli interessi che superano il limite previsto dalla legge nel momento in cui essi sono pattuiti dalle parti, ovvero, nel momento in cui il contratto viene stipulato.
L’annosa questione, quindi, non si pone per quei rapporti obbligatori costituiti prima dell’entrata in vigore della legge di riforma e conclusi immediatamente dopo, ma per quelle tipologie negoziali aventi carattere differito nel tempo.
In tale scenario, dunque, è comparsa la necessità di capire quale fosse la sorte di tali accordi, in virtù di una clausola che prevede tassi di interessi nettamente superiori al limite legale.
Il tema, quindi, tocca differenti ambiti che vedono coinvolti: la sindacabilità dell’autonomia negoziale ad opera del giudice; lo spirito solidaristico che pervade la materia dei contratti, da tempo ispirata ad una visione “personocentrica”; la gestione delle sopravvenienze ed, infine, la tutela del contraente minacciato da uno squilibrio economico venutosi a realizzare.
Ciò posto, secondo una parte della letteratura dottrinale e giurisprudenziale, in presenza dell’ipotesi di usura sopravvenuta, non può trovare applicazione né l’art. 644 c.p., né l’art. 1815, comma 2, c.c..
Il generale divieto di abuso del diritto, corollario della buona fede oggettiva, infatti, dovrebbe ritenersi che sia automaticamente ineseguibile la pretesa di chi pretenda un vantaggio ed un interesse che la legge ritiene eccessivo.
Più esattamente, il riconoscimento di un’autonomia negoziale che incontra il limite del principio solidaristico ex art., 2 Cost., determina l’obbligo per entrambe le parti del rapporto obbligatorio, di agire seguendo la regola della leale cooperazione.
Se è vero, cioè, che ciascun contraente agisce perché mosso da uno spirito egoistico (costituito dal perseguimento di un interesse economico) è, però, necessario che non venga in alcun modo pregiudicata la posizione della controparte esposta ad un’oggettiva situazione di pericolo. Circostanza che può verificarsi allorché nel contratto viene inserita una clausola che prevede la corresponsione di interessi usurari. Fenomeno che si traduce in un pregiudizio per lo stesso mutuatario che, trovandosi in una posizione di difficoltà economica, sarebbe costretto a non poter eseguire la prestazione , con conseguenziale risoluzione del negozio giuridico.
Questa impostazione, in ogni caso, non è stata l’unica ad operare nel panorama giurisprudenziale.
La riflessione giuridica, infatti, si è concentrata sulla distinzione degli interessi usurari in base alla loro natura giuridica, a seconda che questi ultimi perseguano una funzione compensativa-remuneratoria, ovvero, sanzionatoria.
Una prima tesi , partendo dal presupposto per il quale i primi presentano un valore meramente compensativo e non afflittivo, ha ritenuto che in caso di usura sopravvenuta, per gli interessi di mora non sia possibile dare applicazione all’art. 1815, comma 2, c.c. bensì al solo art. 1384 del codice di merito.
Nel compiere questo ragionamento, la dottrina, ha ribadito che la clausola che prevede interessi moratori usurari sia espressione dell’attività negoziale delle parti. Quest’ultima, dunque, quando si traduce nella lesione del principio di solidarietà sociale, è sottoposta al sindacato del giudice che può intervenire riducendo il tasso di interesse in conformità al saggio legale. In aggiunta, potrebbe ravvisarsi una nullità dell’intero contratto, in considerazione del fatto che lo stesso, prevedendo termini ristretti per il pagamento dell’obbligazione in danno del debitore, sia da ritenersi nullo ex art. 1344 c.c., perché in frode alla legge.
Di avviso diverso, invece, è stato l’orientamento maggioritario che, suffragato anche dalla giurisprudenza, ha ritenuto considerevole il ragionamento pocanzi compiuto.
La Corte di Cassazione, infatti, con recenti pronunce ha chiarito che né la l. n. 108/1996, né l’art. 644 c.p. nel definire l’istituto dell’usura optino per la distinzione tra interessi compensativi e interessi moratori.
Ne consegue che ,ogni volta in cui la misura degli interessi pattuiti sia superiore al saggio legale, è ammesso il sindacato giudiziale sull’autonomia negoziale con dichiarazione di nullità della singola clausola ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c..
Solo quando il tasso di interessi è elevato, ma non in maniera tale da superare il limite previsto dalla legge, il giudice potrà intervenire ex art. 1384 c.c. riducendone l’ammontare.
Mentre nel primo caso opera, quindi, la nullità della clausola in quanto contraria alla legge; nella seconda ipotesi si assiste ad una circostanza differente. Quella in cui il contratto può divenire eccessivamente oneroso per una delle parti del rapporto tale per cui, onde evitare di giungere alla risoluzione del negozio , il giudice è chiamato a ripristinare l’equilibrio originario riducendo l’ammontare degli interessi medesimi.
In tale ultima ipotesi, quindi, viene in risalto la violazione della regola comportamentale della buona fede oggettiva che spinge i contraenti ad operare secondo una prospettiva solidaristica.
Orbene, lo spunto fornito dall’orientamento in parola è stato ulteriormente confermato dalla stessa legge n. 108/1996 che menziona il concetto di interesse senza distinguere, tuttavia, a seconda della funzione da quest’ultimo espletata.
Pertanto, seguendo questa impostazione si giungerebbe alla conclusione per la quale, dichiarata la nullità della clausola che prevede interessi usurari, il debitore non sarà più tenuto al pagamento di alcuna somma di denaro.
Ancora una volta, però, può emergere una sostanziale difficoltà interpretativa se si considerano le differenti categorie che talvolta esercitano una funzione remuneratoria, altre sanzionatoria.
Più precisamente, un’ulteriore questione sulla quale dottrina e giurisprudenza si sono imbattute attiene alla liberazione del debitore dall’obbligo di esecuzione della prestazione, quando ad essere dichiarata nulla sia la sola clausola che prevede interessi usurari moratori.
In questo caso, dunque, potrebbe riconoscersi la permanenza dell’obbligo di pagamento dei diversi interessi corrispettivi.
Una parte della giurisprudenza di merito ( Tribunale di Napoli) ha, infatti, ritenuto che la diversa natura di questi comporterebbe che la nullità della clausola ex art. 1815, comma 2, c.c. non possa estendersi indirettamente a tutte le pattuizioni.
Cosicché, il debitore se anche non dovrà eseguire il pagamento degli interessi di mora sarà, in ogni caso, obbligato alla corresponsione di quelli compensativi.
È evidente, tuttavia, che questa impostazione non possa trovare riscontro nel contesto valutativo in esame. L’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., come già detto, prescinde dalla distinzione compiuta in virtù della natura degli interessi. Ne consegue, secondo un filone dottrinale consolidato, che la nullità della clausola comporta la liberazione totale del debitore da ogni obbligo di prestazione.
Si tratta di una concezione più garantista, ispirata alla logica del favor debitoris. Il fine perseguito dal legislatore consiste nell’arginare forme di abuso del diritto. La tutela del creditore, in altre parole, non può tradursi nell’ammissione di comportamenti che attentino la posizione del debitore, parte debole del rapporto contrattuale.
D’altro canto, la riflessione in esame trova ulteriore riconoscimento nella disciplina consumeristica ove , si riscontra la presenza di una normativa specialistica posta a tutela del consumatore.
Il codice del consumo sancisce, infatti, l’automatica nullità delle clausole vessatorie ossia di quelle clausole che pongono il contraente debole in una posizione di inferiorità rispetto al professionista. Sussiste, in altri termini, una presunzione di vessatorietà in vantaggio del consumatore stesso che non sarà tenuto a dover fornire alcuna prova sulla natura della clausola inserita nel contratto stipulato.
Le argomentazioni compiute, dunque, conducono ad affermare che il sindacato giudiziale sull’autonomia negoziale dei privati (espressione della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost.) è ammesso oggi in funzione del riconoscimento del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.
La libera determinazione del contenuto negoziale, non può connotarsi di condotte tali da alterare l’equilibrio economico e giuridico del negozio in danno di uno dei contraenti.
La giurisprudenza maggioritaria, infatti, seguendo questa impostazione non contesta la violazione di regole di validità del contratto, bensì, di una regola comportamentale che ciascun contraente è chiamato ad osservare in funzione di un “nuovo” diritto dei contratti, che pone sempre più al centro della riflessione giuridica la tutela dei diritti inviolabili.
Si assiste, in altri termini, all’abbandono di una visione egoistica, meramente economica delle vicende obbligatorie e al riconoscimento di nuovi parametri costituzionalmente orientati dediti alla tutela della persona nelle vicende contrattuali.
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Giuseppe Bisceglia
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