Azione giudiziale di accertamento della maternità – parto cd. anonimo
Cass. Civ., sez. I, 22/09/2020, n. 19824
Con la sentenza n. 19824 del 22/09/2020 la Corte di Cassazione ha tracciato i rapporti tra il diritto all’ anonimato della madre ed il diritto del figlio all’accertamento dello status di filiazione, svolgendo un diverso bilanciamento tra i due diritti, a seconda che l’azione sia proposta durante la vita della madre, oppure, dopo la sua morte.
Esattamente, è stato stabilito che l’ azione giudiziale di accertamento della maternità ex art. 269 c.p.c., laddove la madre abbia esercitato il diritto al cd. parto anonimo, è sottoposta alla condizione della sopravvenuta revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della madre, ovvero alla morte di quest’ultima, non essendovi più in entrambi i casi elementi ostativi per la conoscenza del rapporto di filiazione ed ha enunziato il seguente principio di diritto: “ Venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione (come affermato da Cass. 15024/2016 e Cass. 22838/2016), ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 c.c.”.
La Corte di Cassazione, ha ricostruito i fondamenti del diritto della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto. Tale diritto, è riconosciuto infatti da una pluralità di disposizioni normative:
– il D.P.R. 3 novembre 2000, art. 30, comma 1, secondo cui “la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”;
– il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 1 (codice in materia di dati personali), secondo cui “il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”;
– La L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, secondo cui “L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”;
– l’allegato del D.M. 16 luglio 2001, n. 349, prescrive in caso di donna che vuole partorire in anonimato
(figlio non riconosciuto o di filiazione ignota) che si deve indicare il codice 999 per “Donna che non vuole essere nominata”.
Inoltre, il diritto della madre all’anonimato nel 2013 è stato anche oggetto di un intervento della Consulta, che nella sentenza n. 278/2013, nel riconoscerne il fondamento costituzionale, ha precisato che riposa sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenirenelle condizioni migliori possibili.
La Corte, ha esaminato poi, i fondamenti del diritto all’accertamento dello stato di figlio osservando che:
-il procedimento di accertamento dello status di figlio, attraverso il quale è possibile risalire alla verità biologica della propria nascita, salvaguarda una componente del diritto all’identità personale, necessaria alla persona per il corretto instaurarsi e svolgersi della propria vita di relazione e della propria personalità. Il diritto al riconoscimento dello status di figlio, pertanto, trova fondamento pertanto nell’art. 2 della Costituzione e nell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
La piena tutela di tale diritto è peraltro desumibile anche dalle previsioni normative degli arti. 269 c.c. e 270 c.c., che stabiliscono che la prova dello status di figlio possa essere data con ogni mezzo, e che l’azione giudiziaria finalizzata al riconoscimento dello status è imprescrittibile.
Nel bilanciamento tra i due diritti, entrambi di rango primario, la Corte di Cassazione ha ritenuto in ogni caso prevalente il diritto all’anonimato della madre, finalizzato a tutelare la vita e la salute della stessa e del nascituro. Per tale motivo, il diritto alla propria identità personale, rimane compresso per tutta la durata della vita della madre, con l’ eccezione che sia lei stessa a revocare successivamente la volontà espressa al momento del parto.
Al contrario , dopo la morte della madre, il diritto del figlio alla propria identità personale acquista prevalenza.
La Corte ha infatti individuato i diritti in gioco dopo la morte della stessa che sono costituiti, da un lato, dall’interesse degli eredi della donna alla conservazione della di lei identità sociale, in relazione al nucleo familiare costituito in epoca successiva al parto, e dall’altro lato, dal diritto del figlio alla propria identità personale.
La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per se stessa, la genitorialità naturale.
Peraltro, nel 2014 la Corte Costituzionale con una pronunzia, ha cercato di conciliare l’esigenza di riservatezza della identità della madre con il diritto del figlio a conoscere le proprie origini (che è riconosciuto dall’art. 8 CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 25 settembre 2012), giungendo a dichiarare costituzionalmente illegittimo ( L. n. 184 del 1983) l’ art. 28 comma 7, come sostituito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, comma 2, nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre (che ha dichiarato di non voler essere nominata) su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione, tuttavia, ferma restando la pienezza del diritto all’anonimato riconosciuto alla madre.
Infatti, da un lato, è si è tenuto conto della possibilità di revoca di tale scelta solo se ciò corrisponde alla vera ed effettiva volontà della stessa genitrice, e, dall’altro, è stato rilevato che la previsione della irreversibilità della scelta può non corrispondere al reale interesse della stessa madre.
Nell’esame degli interessi che devono contemperarsi, non secondario è diritto all’accertamento dello status filiationis.
In argomento, già in passato la giurisprudenza (Cass. n. 24292/2016; Cass. n. 11887/2015, Cass. n. 4020/2017) aveva stabilito che “il diritto del figlio ad uno “status” filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una delle componenti più rilevanti del diritto all’identità personale che accompagna senza soluzione di continuità la vita individuale e relazionale non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi” ciò in quanto, si era ritenuto che l’incertezza su tale “status” potesse determinare una condizione di disagio ed un “vulnus” allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità riferibile ad ogni stadio della vita.
Del resto, è chiaro che il diritto al riconoscimento di uno status filiale- corrispondente a verità -attiene al nucleo dei diritti inviolabili della persona (sul punto, art. 2 Cost. e art. 8 CEDU) intesi nella dimensione individuale e “relazionale”.
Nel bilanciamento dei valori ( di rango costituzionale) che si impone all’interprete, al cospetto del diritto al riconoscimento dello status di filiazione, quello della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto si pone comunque in posizione preminente.
Dunque, in tale ottica ed al fine di garantire ampia tutela alla donna che compie tale (non semplice) scelta, il diritto all’anonimato non può in alcun modo venir meno od esser compresso per tutta la durata della vita della madre.
Al massimo, tale regola può essere derogata (consentendo quindi l’esercizio dell’accertamento giudiziale della maternità) solo ove fosse stata proprio la madre con una propria ed inequivocabile condotta ( ad esempio, accogliendo nella propria casa il bambino come un figlio), ad aver manifestato la volontà di voler revocare la scelta fatta ed, a suo tempo presa, di rinuncia alla genitorialità giuridica.
Ma al di fuori di una situazione del genere, la tutela del diritto all’anonimato della madre, per tutta la durata della vita della stessa, deve essere massima.
Dopo la morte della madre, si deve, invece, giungere a diverse conclusioni, in relazione alle quali, il diritto all’anonimato di cui si parla è suscettibile di essere compresso, o “indebolito”, in considerazione della necessità di fornire piena tutela al diritto all’accertamento dello status di filiazione.
Precisando tuttavia che, già nel 2016 con la sentenza n. 22838/2016, la Corte aveva espressamente affermato che ogni profilo di tutela dell’anonimato non si esaurisce con la morte della madre, non dovendosi escludere la protezione dell’identità “sociale” costruita in vita da quest’ultima, in relazione al nucleo familiare e/o relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all’anonimato.
In conclusione, venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione (come affermato da Cass. 15024/2016 e Cass. 22838/2016), ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 c.c..
Tale soluzione è doverosa anche per una lettura costituzionalmente orientata della norma sopra citata – alla luce degli artt. 2 e 30 Cost., ma anche art. 24 Cost. – oltre che, internazionalmente, orientata (art. 117 Cost.).
Internazionalmente orientata in quanto, l’art. 8 CEDU, nella lettura datane dalla Corte EDU (Corte EDU, 22/09/2012, Corte EDU, 13/02/2003 tende essenzialmente a proteggere l’individuo contro ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, precisando obblighi positivi afferenti ad un rispetto effettivo della vita privata; tra questi quindi, non può non rientrare il diritto a proporre le azioni che lo stesso ordinamento nazionale offre per il riconoscimento dello status di figlio naturale di una persona.
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