Azioni di risparmio e fusione: la Cassazione conferma il vuoto di tutela

Azioni di risparmio e fusione: la Cassazione conferma il vuoto di tutela

Cass. Civ. Sez. I, n. 7920 del 20/04/2020

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il caso in esame – 3. La questione di diritto – 4. Osservazioni critiche – 5. Altre soluzioni astrattamente ammissibili – 6. Conclusione

 

1. Introduzione

Con la sentenza in oggetto la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente sul tema delle azioni di risparmio e della valorizzazione delle medesime in fase di operazioni societarie straordinarie. Le azioni di risparmio, come noto, sono una categoria speciale di azioni prevista dalla disciplina delle società quotate dall’art. 145 del Testo Unico della Finanza, D.Lgs 58/1998, ma già introdotte dal legislatore sin dal 1974, con la legge 216/1974. Per la verità secondo l’orientamento tradizionale, esse sarebbero l’unica categoria speciale di azioni ammessa nelle società quotate[1], a differenza delle società c.d. “chiuse” dove invece l’art. 2348 codice civile affida ampia libertà agli statuti nel disciplinare il contenuto delle categorie speciali di azioni[2]. Si discute inoltre se le azioni di risparmio possano essere introdotte anche in società non quotate: al quesito può essere data risposta positiva[3] nella misura in cui si ammette che le società “chiuse” possano appunto disciplinare come meglio ritengano il contenuto delle categorie speciali di azioni, potendo quindi anche emulare la disciplina del TUF introducendo azioni dello stesso tipo delle azioni di risparmio previste per le società quotate, nel rispetto dei limiti fissati per la disciplina delle categorie speciali di azioni di società chiuse[4].

Le azioni di risparmio in particolare si caratterizzano per essere azioni al portatore[5] dotate di particolari privilegi di natura patrimoniale ma totalmente prive del diritto di voto. Il legislatore ha inteso valorizzare quella componente della compagine sociale di una società quotata che tratti l’acquisto di azioni come forma di mero investimento, senza alcun interesse alla gestione concreta della società. L’azionista di risparmio pertanto, diviene socio della società con partecipazione al capitale sociale in misura perfettamente identica all’azionista ordinario, con la differenza che egli non avrà il diritto di voto in assemblea e pertanto non parteciperà alle decisioni sociali. Tale privazione sul piano dei diritti amministrativi fa da contraltare a privilegi di natura patrimoniale di cui l’azionista di risparmio gode.

La casistica ha offerto innumerevoli variabili di azioni di risparmio: esse, prive del diritto di voto, possono ad esempio essere preferite nella distribuzione degli utili; postergate nella sopportazione delle perdite; soddisfatte in maniera più che proporzionale rispetto ai dividendi; favorite nell’assegnazione dell’acconto su dividendi[6]. In generale insomma, gli statuti delle società quotate possono favorire l’acquisto di azioni di risparmio dotandole dei più svariati privilegi di natura patrimoniale, capitalizzando così la società senza il rischio per il gruppo di maggioranza di perdere il controllo della gestione o comunque di far subentrare soggetti che in posizione totalmente minoritaria, potrebbero rendere più gravoso il processo decisionale assembleare.

La tutela offerta all’azionista di risparmio è data principalmente dalla previsione circa l’esistenza di un’assemblea speciale degli azionisti di risparmio di cui all’art. 146 T.U.F. e 2376 Codice civile. Trattasi di un vero e proprio organo deliberativo distinto dall’assemblea generale degli azionisti, la cui delibera è necessaria qualora l’assemblea generale voglia adottare una delibera che crei pregiudizio agli azionisti di risparmio. Essa opera secondo i quorum dell’assemblea straordinaria salve le maggioranze fissate dall’art. 146 del T.U.F. e non presuppone pertanto che gli azionisti di risparmio siano all’unanimità d’accordo sull’adozione della delibera pregiudizievole[7]. La dottrina ritiene che la scelta legislativa sia volta a far prevalere l’interesse di gruppo degli azionisti di risparmio sull’interesse del singolo azionista, ritenendo che sia sufficiente la tutela quale collettività per garantire un’adeguata rappresentanza[8]. Ove utilizzato come strumento ispirato ad un’effettiva tutela degli azionisti di risparmio contro possibili abusi dei soci ordinari, che hanno invece diritto di voto in assemblea generale, lo strumento si rivelerebbe un metodo efficace potenzialmente idoneo a bloccare qualunque delibera pregiudizievole dei soci ordinari, quantomeno a maggioranza degli azionisti di risparmio secondo il principio maggioritario cui tutta la disciplina delle società di capitali si ispira.

Tuttavia il concetto di “delibera che arrechi pregiudizio alla categoria” richiamato dall’art. 2376 Codice civile e 146 T.U.F. è interpretato dalla dottrina maggioritaria in senso restrittivo: solo il pregiudizio diretto e attuale, e quindi la delibera che abbia direttamente ad oggetto le azioni di risparmio, necessita del placet dell’assemblea speciale[9]; non anche il pregiudizio indiretto o di fatto[10]. Qualora una delibera abbia ad oggetto tutte le azioni e quindi solo indirettamente coinvolga in senso negativo l’azionista di risparmio, essa non necessita dell’ulteriore delibera di assemblea speciale per divenire efficace. Ad esempio la delibera che opta per non distribuire gli utili, che spetterebbero principalmente agli azionisti di risparmio ma anche agli azionisti ordinari seppure in misura minore, non ha ad oggetto le sole azioni di categoria ma tutte le azioni, ed è pertanto considerata delibera che arreca un pregiudizio solo indiretto: questo tuttavia rischia di eliminare qualunque tutela per l’azionista di risparmio, che non potrà opporsi a decisioni che abbiano un’incidenza notevole sulle proprie condizioni di partecipazione. La giurisprudenza ha confermato che il concetto di “pregiudizio” non va esteso ai casi di pregiudizio anche indiretto[11].

E’ inoltre discusso quale sia la sorta degli altri diritti di natura amministrativa tradizionalmente correlati al possesso di azioni e subordinati al diritto di voto: ci si riferisce al diritto di intervenire in assemblea, al diritto di impugnare le delibere assembleari, al diritto di convocare l’assemblea e al diritto di chiedere integrazioni o chiarimenti sull’ordine del giorno. Mentre sul diritto di intervento in assemblea non vi sono dubbi, in quanto tale diritto è tradizionalmente correlato al diritto di voto, motivo per il quale le azioni senza voto non hanno diritto di intervenire in assemblea e non sono conteggiate ai fini del quorum costitutivo o deliberativo[12], qualche dubbio sorge circa le altre fattispecie. Il diritto di impugnare le delibere dell’assemblea si ritiene sufficientemente surrogato dall’esistenza di un’assemblea speciale degli azionisti di risparmio, la cui delibera è necessaria ogni qualvolta la delibera dell’assemblea generale possa creare pregiudizio alla categoria degli azionisti di risparmio: tale scelta favorita dalla formulazione dell’art. 2377 comma 2 Codice civile in tema di annullamento delle delibere non è in discussione per la chiara formulazione legislativa, che richiede che le azioni “abbiano diritto di voto per la delibera da impugnare”, ma è soggetta a critiche, in quanto l’azionista di risparmio potrebbe essere contrario alla delibera, e votare in senso contrario nell’assemblea speciale, ma trovarsi poi in minoranza nell’assemblea medesima e quindi subire la delibera di assemblea generale senza poterne contestare la validità in Tribunale[13]. Sugli altri diritti amministrativi minori, essi sono tendenzialmente ammessi a favore dell’azionista di risparmio: risulta tuttavia di difficile immaginazione un azionista di risparmio che, senza ricevere comunicazione sull’assemblea, ne chieda integrazioni o chieda di convocarla.

Insomma l’azionista di risparmio si trova molto spesso in una situazione di scarsa tutela della propria posizione di socio: egli non solo non partecipa all’assemblea generale, ma nemmeno ha il diritto di far valere giudizialmente eventuali invalidità delle decisioni dei soci, salvo per l’appunto impedire l’entrata in vigore di una delibera con la propria assemblea di categoria, che tuttavia con l’interpretazione restrittiva del concetto di “pregiudizio” diviene strumento troppo spesso insufficiente.

L’unica tutela offerta all’azionista di risparmio è perciò una tutela di tipo patrimoniale: egli riceve più degli azionisti ordinari e tale diritto non potrebbe essergli limitato o privato. Ciò è vero però solo in linea puramente teorica: un’interpretazione eccessivamente restrittiva del concetto di “pregiudizio” che farebbe scattare la tutela dell’assemblea speciale nella prassi permette alle società di limitare, all’occorrenza, i privilegi di natura patrimoniale degli azionisti di risparmio senza nemmeno che essi possano pronunciarsi sul punto.

2. Il caso in esame 

Chiarito quanto l’azionista di risparmio si trovi in una posizione debole sul piano delle scelte societarie che potrebbero riguardare la propria posizione di socio, si analizza il caso oggetto della  recente decisione della Suprema Corte.

Il signor S.F. era socio titolare di 170.000 azioni di risparmio del valore di mercato (alla data del fatto contestato) di lire 3.874,27 ciascuna per un valore complessivo di mercato di lire 658.625.730 della società Banca Nazionale dell’Agricoltura S.P.A., quotata a Piazza Affari sul Mercato telematico azionario presso Borsa Italiana S.P.A. Nel 1999 la società partecipò ad un’operazione di fusione per incorporazione mediante la quale essa veniva incorporata dalla società Banca Popolare Antoniana Veneta S.P.A. con effetti dal 1 gennaio 2000, che avrebbe così dato vita alla nuova banca Banca Antonveneta S.P.A.

La delibera di fusione, approvata dalle assemblee straordinarie di entrambe le banche a norma del Testo Unico Bancario, conseguiva al progetto di fusione redatto dagli amministratori delle due società e presentato nella versione identica quale progetto di delibera per entrambe le assemblee. All’interno del progetto di fusione, e quindi della delibera di fusione, veniva fissato dagli amministratori il rapporto di cambio, come previsto dall’art. 2501-ter codice civile, assegnando ai soci titolari di azioni ordinarie della Banca Nazionale Agricoltura 0,1 azioni ordinarie della nuova Banca Antonveneta S.P.A. per ogni azione BNA posseduta, mentre agli azionisti di risparmio venivano assegnate 0,045 azioni ordinarie della nuova Antonveneta per ogni azione di risparmio BNA posseduta. La Nuova Banca Antonveneta non prevedeva pertanto nel proprio statuto azioni di risparmio, motivo per il quale era necessario valorizzare in azioni ordinarie anche le azioni di risparmio. E’ necessario precisare che, a norma di legge, il valore nominale delle azioni ordinarie della società di partenza era assolutamente identico al valore nominale delle azioni di risparmio.

Tale disparità di trattamento veniva giustificata nella relazione degli amministratori approvata dalle rispettive assemblee e nel parere reso dal collegio sindacale sulla congruità del rapporto di cambio, mediante la differenziazione delle posizioni dei soci ordinari rispetto ai soci di risparmio. Infatti il valore di mercato delle azioni di risparmio, veniva considerato nettamente inferiore rispetto al valore di mercato delle azioni ordinarie, e ciò perché le prime sono totalmente sprovviste di diritti amministrativi a differenza delle seconde, che sono dotate del diritto di voto in assemblea. I privilegi di natura patrimoniale assegnati alle azioni di risparmio, venivano considerati non sufficientemente rilevanti per il caso concreto secondo la disciplina fissata dallo statuto di BNA S.P.A., per giustificare una rivalutazione in senso accrescitivo del valore delle medesime. Nella specie si trattava di un privilegio sulla distribuzione degli utili più che proporzionale, che tuttavia veniva valutato, nel complesso della posizione dell’azionista di risparmio, un privilegio minore rispetto all’assenza di diritti amministrativi delle azioni medesime.

All’esito dell’operazione pertanto, il signor S.F. si ritrovava titolare di 7.727,27 azioni ordinarie di Banca Antonveneta S.P.A., del valore di mercato di lire 47.464,20 ciascuna e pertanto di un valore complessivo di mercato pari a lire 366.768.680, con un decremento patrimoniale pari al 44,31% della propria partecipazione complessiva.

Va precisato inoltre che il socio S.F. non aveva ovviamente partecipato all’assemblea generale che aveva deliberato sulla fusione, essendo socio di risparmio privo del diritto di voto, ma anche che l’assemblea speciale degli azionisti di risparmio non aveva potuto pronunciarsi sulla fusione, in quanto l’interpretazione dominante della dottrina e della prassi ritiene che il “pregiudizio” subito dagli azionisti di categoria per cui scatterebbe il loro diritto ad approvare la delibera in assemblea speciale, debba essere diretto. Ciò non accade nel caso delle delibere di fusione, in cui esse hanno riguardo a tutte le azioni e non soltanto alle azioni di risparmio e costituiscono perciò un pregiudizio soltanto indiretto per gli azionisti di categoria[14]. Addirittura S.F. non poteva nemmeno impugnare la delibera di fusione: in primo luogo perché la dottrina dominante nega all’azionista senza voto tale diritto, ed in secondo luogo poiché in ogni caso dall’art. 2377 Codice civile è richiesta una minima maggioranza di partecipazione al capitale sociale per impugnare le delibere, che nella specie il socio S.F. non aveva ai sensi dell’art. 2377 Codice civile.

Il socio S.F. conveniva pertanto in giudizio la neonata Banca Antonveneta S.P.A., oggi Monte dei Paschi di Siena S.P.A. a seguito di ulteriore fusione per incorporazione, dinanzi al Tribunale di Padova proponendo azione di risarcimento danni. Oggetto dell’accertamento del giudice era principalmente la legittimità del differente valore di concambio applicato alle due diverse tipologie di azioni. Il Tribunale di Padova e la Corte di Appello di Venezia, statuivano circa la legittimità e la correttezza della scelta degli amministratori poi approvata dall’assemblea, di applicare un differente valore di concambio alle azioni di risparmio.

Ricorrendo per Cassazione, il socio chiedeva di accertare la falsa applicazione dell’art. 2348 Codice civile e dell’art. 14 della Legge 216/1974 (allora vigente in tema di azioni di risparmio) che imporrebbero un egual valore tra tutte le azioni; la violazione degli artt. 2350, 2247 e 2252 Codice civile nella parte in cui le azioni di risparmio non sono valorizzate correttamente quale partecipazione al capitale sociale; ed infine falsa applicazione dell’art. 2501-ter Codice civile in tema di fusione, nella parte in cui parla di “rapporto” di concambio e non di “rapporti” di concambio, con ciò ulteriormente favorendo una valorizzazione unitaria di tutte le azioni in fase di fusione.

I tre motivi sono stati analizzati congiuntamente dalla Suprema Corte, in quanto una è la questione di diritto alla base del ricorso e dell’intero contenzioso.

3. La questione di diritto 

La questione di diritto alla base del caso in esame è se in fase di fusione per incorporazione possa essere attribuito un diverso valore di concambio tra azioni ordinarie e azioni di risparmio e quindi se i soci di risparmio abbiano un “diritto al rango”[15], o comunque generalmente parlando tra azioni di diverse categorie. Infatti pur trattandosi di azioni di risparmio, anche considerandole le uniche categorie speciali di azioni ammesse per le società quotate, nulla impedisce di estendere la questione di diritto anche alle altre categorie speciali di azioni previste nelle società non quotate, ove è lasciato ampio margine di discrezionalità agli statuti.

La Corte di Cassazione analizza il rapporto di cambio in fase di fusione: esso non assolve ad una funzione astratto-matematica volta a calcolare l’esatto rapporto tra il patrimonio netto della società incorporata e quello della società incorporante[16]. Esso invece è elemento strutturale della disciplina delle operazioni straordinarie tra società caratterizzato da una discrezionalità tecnica degli amministratori, che nel valutarlo, anche sentito il collegio sindacale, possono ed anzi debbono tenere in considerazione anche elementi complessivi esterni alle società dati dalla valorizzazione commerciale al momento della fusione. Gli amministratori delle due o più società partecipanti alla fusione insomma, sono liberi di determinare il rapporto di cambio senza alcun criterio matematico di riferimento, fermo restando la responsabilità che potrebbero assumere nel caso in cui il concambio si manifesti come arbitrario o manifestamente iniquo[17]. Addirittura la Cassazione valorizza, secondo la classica logica di autonomia privata tipica del diritto civile e più nello specifico del diritto commerciale, la fase delle trattative tra le società nell’elaborazione del progetto di fusione. La decisione di procedere alla fusione è infatti preceduta da complesse valutazioni che ben potrebbero portare ad una netta svalutazione delle partecipazioni in una delle due società, prescindendo dal valore del patrimonio netto e dei singoli cespiti iscritti a bilancio. La necessità di “congruità del rapporto di cambio” richiesta dall’art. 2501-sexies Codice civile (all’epoca art. 2501-quinquies Codice civile, ma in identica formulazione) è insomma intesa in senso estensivo da questa giurisprudenza, che considera congruo anche un rapporto di cambio anche differenziato tra diverse tipologie di azioni[18].

In tema di impugnazione della delibera assembleare di fusione è principio costantemente affermato quello secondo cui la contestazione in giudizio del rapporto di cambio può essere oggetto di sindacato del giudice di merito soltanto quando esso non sia stato determinato con valutazione attenta di elementi che ivi possano emergere e che siano suscettibili di una complessiva e razionale valutazione. In sostanza una discrezionalità tecnica molto simile a quella sviluppata nell’ambito della giurisprudenza amministrativa. Il tentativo di S.F. potrebbe pertanto apparire addirittura un modo per aggirare tale giurisprudenza proponendo azione di risarcimento danni, fermo restando che nel caso di specie è altamente probabile che il socio non riuscisse a raggiungere le maggioranze richieste per impugnare la delibera o per proporre azione di responsabilità contro gli amministratori.

Pertanto a questo punto risultava già difficile per il socio provare l’ingiustizia del danno, sulla base della svalutazione patrimoniale subita dalla propria complessiva partecipazione.

Stabilito ciò, occorre però chiedersi se nell’ambito di questa libertà così ampia, sia concesso agli organi gestionali di disporre di un rapporto di cambio differenziato tra azionisti ordinari e azionisti di risparmio. La valorizzazione delle due diverse tipologie di azioni deve necessariamente vagliare il rapporto tra diritti patrimoniali e diritti amministrativi ivi contenuti. La Corte afferma correttamente che il valore “perduto” dalle azioni senza voto, non deve essere necessariamente bilanciato in senso di sua matematica valorizzazione con privilegi di natura patrimoniale. Semplicemente detti privilegi di natura patrimoniale andranno valutati, nell’ambito della discrezionalità tecnica, nella complessa posizione di socio titolare di diritti patrimoniali e amministrativi.

Nessuno ha mai contestato in dottrina o nella prassi che le azioni di risparmio possano avere un valore di mercato differente dalle azioni ordinarie, non fosse altro per la valorizzazione che il “voting premium” ottiene sul piano della quotazione internazionale[19]. E’ la stessa normativa secondaria regolamentare della CONSOB che consente alle società quotate una differente valorizzazione nelle offerte al pubblico e nei prospetti di quotazione[20]. L’ “identico valore tra le azioni” che l’art. 2368 Codice civile richiamato dal ricorrente impone, si riferisce ovviamente al solo valore nominale quale partecipazione al capitale sociale, che è infatti identico. Oltre a ciò lo stesso art. 2501-ter n.7) consente che il progetto di fusione contenga “il trattamento riservato a particolari categorie di soci”, con ciò ammettendo, a detta della Corte, un differente rapporto di cambio tra azioni ordinarie e categorie speciali. E d’altronde la stessa situazione patrimoniale allegata al progetto di fusione, redatta con criteri tecnici e con il supporto di revisori legali esterni e non contestata in giudizio, valorizzava diversamente le due categorie di azioni.

Pertanto in conclusione secondo la Corte, non dovendosi far riferimento ai fini del rapporto di cambio al valore nominale delle azioni, ma al loro valore di mercato peraltro rivalutato alla luce della discrezionalità tecnica degli organi amministrativi[21], è legittimo un rapporto di cambio che valorizzi in maniera diversa le azioni ordinarie dalle azioni di risparmio, fermo restando che tale valutazione discrezionale deve essere posta sulla base di attente valutazioni non meramente legate al rapporto matematico azioni/capitale nominale.

4. Osservazioni critiche

La Corte di Cassazione si trova a pronunciarsi sullo spinoso tema delle categorie speciali di azioni e della loro tutela, senza tuttavia far emergere direttamente tale aspetto. La tutela dell’azionista di categoria è infatti argomento ampiamente trattato in dottrina[22] e che impegna spesso la giurisprudenza di merito[23]: le poche norme in tema di assemblea speciale, sembrano attribuire una tutela troppo debole per il socio titolare di azioni speciali.

Il “pregiudizio” richiamato dall’art. 2376 Codice civile, secondo cui l’assemblea speciale deve deliberare per conferire efficacia alle delibere di assemblea generale qualora esse possano recare agli azionisti di categoria un pregiudizio, è interpretato dalla dottrina maggioritaria già richiamata solo come pregiudizio diretto. In sostanza una delibera di assemblea generale necessita del placet dell’assemblea speciale soltanto qualora l’oggetto sia direttamente incidente sulla disciplina delle azioni speciali, e non anche quando esso riguardi tutti gli azionisti. In tal caso infatti il pregiudizio è soltanto indiretto, nel senso che l’oggetto della delibera è una modifica valida per tutti i soci e non solo per i soci di risparmio.

Il caso che ci occupa dunque poteva essere un’opportunità per il Supremo Collegio di fornire una risposta chiara e definitiva sul tema del “pregiudizio” dell’azionista di categoria, che come interpretato tradizionalmente ha fornito sino ad oggi una tutela sostanzialmente nulla per tale tipologia di soci, di fatto vanificando la volontà legislativa di introdurre addirittura un’assemblea speciale che li rappresenti e tuteli[24].

Sul punto la dottrina notarile[25], osserva come in una delibera di operazione straordinaria, ad esempio di fusione, il socio di categoria si trova totalmente escluso dalla decisione e potrebbe subire un pregiudizio patrimoniale maggiore dell’azionista ordinario, senza nemmeno poter intervenire in assemblea sul punto.

E’ corretto il ragionamento della Cassazione: le azioni ordinarie e le azioni di categoria ben possono avere valori di mercato differenti, fermo restando il loro valore nominale che deve essere identico. Tuttavia tale assunto crea evidenti problemi di tutela nel caso di rapporto di cambio in un’operazione di fusione: con la fusione infatti i soci della società incorporata divengono soci della società incorporante, partecipando nominalmente al capitale sociale della neonata società fusa. Il valore nominale identico tra azioni ordinarie ed azioni di categoria porterebbe prima facie a ritenere che la partecipazione al capitale sociale, identica nell’incorporata, non potrebbe da un giorno all’altro divenire inferiore nell’incorporante[26]. Il peso che il socio di categoria ha nella società incorporata sul piano patrimoniale, potrebbe infatti essere ben maggiore di quello che egli vanterà nella nuova società[27].

Così ragionando tuttavia l’azionista di risparmio rischia di subire un duplice pregiudizio: da un lato egli è privo dei diritti amministrativi. Dall’altro, i suoi privilegi di natura patrimoniale finirebbero col condannarlo ad una minore patrimonializzazione della propria partecipazione, subendo anche sul piano squisitamente patrimoniale un ulteriore pregiudizio. Doppia limitazione quindi: sia sul piano dei diritti amministrativi, come per legge e statuto, sia sul piano dei diritti patrimoniali, a causa della delibera di fusione che fissa un rapporto di cambio a lui sfavorevole. A nulla varrebbero le osservazioni che giustificano tale riduzione con l’assegnazione di azioni ordinarie della nuova società: l’azionista di risparmio si ritroverà sì socio ordinario, con diritto di voto, nella nuova società, ma ciò non coincide minimamente con l’interesse sociale che ab origine gli aveva permesso di valutare l’ingresso in società.

Sul piano dei rapporti interni tra azionista ordinario e di categoria, si pensi che sino al giorno precedente l’azionista di categoria aveva diritto a ricevere il doppio degli utili dell’azionista ordinario nella società incorporata e che dal giorno successivo non solo essi potrebbero avere lo stesso diritto agli utili nella società incorporante, ma addirittura l’azionista di categoria potrebbe trovarsi con meno azioni dell’azionista ordinario, così ritrovandosi addirittura in posizione di minor considerazione di quest’ultimo nell’assegnazione dei dividendi, unico vero interesse del socio di risparmio.

Un ripensamento di questa valorizzazione delle azioni di risparmio appare però strada impossibile da percorrere alla luce dell’ampia libertà che è concessa alle società in fase di fusione. La tutela  dell’assemblea speciale di cui all’art. 2376 Codice civile insomma resta lo strumento maestro da percorrere per permettere agli azionisti di risparmio di partecipare alle decisioni che li riguardano e che depotenziano notevolmente la loro partecipazione alla società. Occorre però per permettere ciò, che la Cassazione si pronunci definitivamente sulla portata del “pregiudizio” ex art. 2376 Codice civile, così da permettere alle assemblee speciali di pronunciarsi ogni volta in cui l’azionista di risparmio si ritrovi sprovvisto di ulteriori tutele.

5. Altri rimedi astrattamente ammissibili

In questa situazione di svalutazione patrimoniale pressoché certa, l’unico rimedio che l’ordinamento attualmente potrebbe offrire, a meno di un revirement giurisprudenziale improvviso  sul “diritto al rango”, che appare però difficilmente immaginabile, è quantomeno il consenso degli azionisti speciali all’operazione mediante l’assemblea speciale. Di ciò si è già ampiamente trattato. Anche tale forma di tutela, che comunque avrebbe bisogno di norme chiare per evitare di valutare il tipo di pregiudizio al caso concreto come oggi accade di fatto trattando situazioni identiche in misura dissimile, non sarebbe forse sufficiente per una vera tutela espressione del principio sociale di parità di trattamento tra i soci. Ricordiamo infatti che il socio di risparmio potrebbe trovarsi in minoranza anche in tale assemblea speciale.

Lo strumento ulteriore potrebbe essere l’impugnabilità della delibera, che nel caso di specie anche ove si ritenga ammissibile avrebbe effetti concreti notevolmente limitati dall’interpretazione che la giurisprudenza dà del rapporto di cambio. Come infatti già anticipato, il giudice del merito non può sindacare valutazioni degli amministratori che non siano arbitrarie. Sul punto in ogni caso, la già richiamata dottrina maggioritaria esclude che l’azionista di categoria goda del diritto di impugnativa. Oltre a ciò le maggioranze richieste, specialmente nelle società quotate, e la legittimità pressoché incontestabile di un rapporto di cambio che si ancori a criteri non totalmente irragionevoli, renderebbero prescindendo da ogni osservazione sul punto questo rimedio uno strumento debole per il socio di categoria.

Valida alternativa invece, potrebbe essere individuata nel diritto di recesso che spetta ai soci “assenti, dissenzienti o astenuti” che non abbiano concorso ad approvare delibere che, ex art. 2437 Codice civile comma 1 lett. g), le quali modifichino “lo statuto circa il diritto di voto o di partecipazione”. L’interpretazione che parte della dottrina e della giurisprudenza fornisce di tale clausola è un’interpretazione che tende a restringere l’ambito di applicazione alla fusione[28]. Diversamente interpretando, in ogni delibera di fusione di SPA vi sarebbe diritto di recesso, posto che una modifica dei diritti di voto e di partecipazione in una fusione per incorporazione è quasi sempre presente, così di fatto aggirando la voluta differenziazione del legislatore tra SPA e SRL, ove soltanto in quest’ultima è ammesso diritto di recesso in tema di fusione.

Nel caso che ci occupa tuttavia, non sembra una soluzione tanto remota quella di utilizzare il diritto di recesso ex lettera g) per tutelare l’azionista di risparmio: egli subisce una netta modifica dei propri diritti di partecipazione, non soltanto in termini astratto-patrimoniali ma anche sostanziali. Difficile appare al momento aprire a tale soluzione, ma essa potrebbe essere una buona alternativa allo scoglio dell’art. 2376 Codice civile, che sembra al momento non attirare l’attenzione della giurisprudenza in maniera tanto decisa da permettere una tutela effettiva che passi attraverso la delibera di assemblee speciali.

Nemmeno sarebbe troppo complesso regolare la valutazione delle azioni del socio recedente, considerando che la disciplina del recesso è già pienamente applicabile in forza dell’art. 2473 Codice civile in tema di SRL per le fusioni.

6. Conclusioni

A fronte di una decisione di Cassazione che pare ineccepibile sul piano logico-giuridico, ciò che si vuole portare all’attenzione dell’interprete è questo vuoto di tutela che si è andato generandosi per l’azionista di risparmio, quasi come fosse una categoria di “serie b”. Il rischio è che il ricorso alle azioni di risparmio, ma in generale alle categorie di azioni, venga sempre meno utilizzato dalla prassi societaria, mentre esse appaiono un ottimo strumento, specialmente per le società quotate, per favorire una rapida capitalizzazione delle medesime senza il ricorso al finanziamento presso terzi.

Senza una vera tutela sul piano patrimoniale, che è di difficile immaginazione alla luce di questa rigorosa interpretazione del rapporto di cambio, le tutele sul piano amministrativo devono necessariamente essere ampliate: diversamente il socio di risparmio rischia di essere degradato in una posizione in cui molto difficilmente qualunque investitore vorrebbe doversi trovare.

 

 

 

 


[1] In questo senso SANTORO V., sub art. 2351, in SANDULLI M. – SANTORO V. (a cura di), La riforma delle società. Società per azioni, I, Torino, 2003, 148; CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, II – Delle società, UTET Giuridica, Torino, 2015, 345 ss.; COSTANTINO F.S., Le azioni e gli strumenti finanziari partecipativi, in CAGNASSO O. – PANZANI L. (a cura di), Le nuove S.p.a., Bologna, 2010, 388 ss.; GENGHINI L. – SIMONETTI P., Le società di capitali e le cooperative, I, CEDAM, Padova, 2015, 219.
[2] Ma nel senso che anche per le società quotate vi sia questa libertà CIVITELLI M., La riforma delle società di capitali e le azioni di risparmio, in Giur. Comm., 2004, I, 491 ss.; BLANDINI A., Le azioni a voto limitato nella riforma, in MONTAGNANI C. (a cura di), Profili patrimoniali e finanziari della riforma, Milano, 2004, 17 ss.
[3] Ex multis NICCOLINI G. – STAGNO D’ALCONTRES A., Società di capitali. Commentario, JOVENE, Napoli, 2004, sub. art. 2351, 305 ss.; MAGLIULO F., Le categorie di azioni e strumenti finanziari nella nuova S.p.a., Milano, 2004, 193 ss.
[4] Tra i limiti imposti vi sono i divieti legislativi assolutamente inderogabili, tra cui: l’uguaglianza di diritti a parità di categoria ex art. 2348 cc, il divieto di patto leonino ex art. 2265 cc, il principio di integrità del capitale sociale ex art. 2346 cc.
[5] Unica tipologia di azioni al portatore ammesse nell’ordinamento in virtù della nominatività obbligatoria dei titoli azionari imposta dall’art. 1 r.d.l. 1148/1941, insieme alle azioni emesse dalle SICAV ex art. 35-quater IV comma del T.U.F.
[6] La tipologia di azioni di risparmio più diffuse prevede una prelazione sulla distribuzione degli utili secondo un criterio di assegnazione dei medesimi più che proporzionale: in particolare lo statuto può prevedere che una percentuale fissa di utile venga distribuito agli azionisti di risparmio in maniera maggiore a quello che loro spetterebbe (ad esempio ove le azioni di risparmio costituiscano il 10% del capitale sociale, lo statuto potrebbe prevedere che il 30% degli utili spettino agli azionisti di risparmio) oppure che l’utile sia distribuito a stock prefissati (ad esempio i primi 200.000 euro distribuiti agli azionisti di risparmio e gli altri distribuiti proporzionalmente, così da garantire comunque somme maggiori agli azionisti di risparmio).
[7] Si discute se la delibera di assemblea speciale sia condicio iuris dell’efficacia della delibera di assemblea generale o sia addirittura elemento costitutivo della medesima che ne condizioni la validità. Nel primo senso GENGHINI L. – SIMONETTI P., Le società di capitali e le cooperative, I, CEDAM, Padova, 2015, 213; CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, II-Delle società, UTET Giuridica, Torino, 211; GRIPPO G., L’assemblea nella società per azioni, in Trattato di diritto privato, RESCIGNO P. (diretto da), XVI, Torino, 1991, 407 ss. Nel secondo senso la giurisprudenza con Cass. Civ. Sez. I, n. 883 del 20/04/1961, in Giurisprudenza italiana, 1961, I, 1, 1115 ss. e la dottrina con GALGANO F., La società per azioni, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, GALGANO F. (diretto da), VII, Padova, 1988, 154 ss.
[8] In questo senso CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, II-Delle società, UTET Giuridica, Torino, 210.
[9] CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, II-Delle società, UTET Giuridica, Torino 212; MAGLIULO F., Le categorie di azioni e strumenti finanziari nella nuova S.p.a., Milano, 2004, 194 ss.
[10] Contra, ritenendo invece che ogni pregiudizio anche indiretto necessiti dell’approvazione dell’assemblea speciale COSTA C., Le assemblee speciali, in Trattato delle società per azioni, COLOMBO G.E. – PORTALE G.B. (diretto da), III, 2, Torino, 1993, 541 ss.
[11] Cass. Civ. Sez. I, n. 13875 del 01/06/2017 in tema di recesso ma con motivazione che può essere estesa alle azioni di categoria
[12] Sul punto GENGHINI L. – SIMONETTI P., Le società di capitali e le cooperative, I, CEDAM, Padova, 2015, 214; DI SABATO F., Diritto delle società, 2011, 206 ss.; CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, II-Delle società, UTET Giuridica, Torino, 215.
[13] Sostengono che l’azionista di risparmio non abbia alcun diritto di impugnativa CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, II-Delle società, UTET Giuridica, Torino, 215; DE ACUTIS M., Le azioni di risparmio, Milano, 1981, 132 ss.
[14] Il punto è in verità discusso, in quanto in dottrina vi è chi ritiene che nei casi di fusione con concambio inferiore il pregiudizio sia diretto e non indiretto e quindi spetti il diritto di pronunciarsi dell’assemblea speciale. In questo senso MAGLIULO F., Le categorie di azioni e strumenti finanziari nella nuova S.p.a., Milano, 2004, 193 ss.
[15] Termine coniato da Trib. Milano, 8 luglio 2004, in Giur.it., 2005, 307 ss.
[16] Cass. Civ. Sez. , n. 15025 del 21/07/2016
[17] Cass. Civ. Sez. , n. 15599 del 11/12/2000
[18] Non pare dello stesso avviso la Massima LD/1 del Comitato Triveneto dei Notai
[19] Per un’analisi strutturata LINCIANO N., Azioni di risparmio e valore del controllo: gli effetti della regolamentazione, in Quaderni di Finanza CONSOB, Studi e ricerche, 2002
[20] Ci si riferisce alla normativa regolamentare attuativa dell’art. 132 del T.U.F.
[21] Sul punto anche Trib. Milano, 8 luglio 2004, in Giur.it., 2005, 307 ss.
[22] SACCO GINEVRI A., Le azioni di risparmio (quarant’anni dopo), in Il nuovo diritto delle società, IV, Giappichelli, Torino, 2015; TOMBARI U., Le categorie speciali di azioni, in Riv. soc., 2007, 966 ss.; MAUGERI M., Azioni di risparmio e assemblee di categoria: prime note sul coordinamento tra T.U.F. e nuovo diritto societario, in Giur. comm., 2004, 1302 ss.
[23] Sul punto Trib. Torino, 24 novembre 2000, in Società, 2001, 991 ss.; Trib. Roma, 20 marzo 1995, in Dir. fall., 1995, II, 910 ss.; Trib. Milano, 26 maggio 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, 590 ss.
[24] Critico in questo senso LIBERTINI M., Un dialogo su voto plurimo e diritto di recesso, in Riv. dir. comm., 2015, I, 1 e ss.
[25] GENGHINI L. – SIMONETTI P., Le società di capitali e le cooperative, I, CEDAM, Padova, 2015, 216.
[26] In questo senso pare anche la Relazione al d.lgs n. 6/2003, par. 14, “Della fusione e della scissione”; in dottrina SANTAGATA R. – SCOGNAMIGLIO G., Fusione, scissione, Torino, 2004, 112 ss.
[27] La legittimità di tale pregiudizio è però affermata da Cass. Civ. Sez. I, n. 22489 del 19/10/2006; Cass. Civ. Sez. I, n. 8100 del 27/08/1997, in Giust. civ., 1997, 1537 ss.
[28] In questo senso sembra CNN Quesito n. 190/2007/I, Recesso da s.r.l. in caso di fusione; SANTAGATA C., La fusione tra società, Napoli, 1964, 469; App. Brescia, sentenza del 2/07/2014, Pres. Bitonte A., Rel. Miglio A.; Trib. Bergamo, sentenza n. 357/2012 del 27/02/2012; una visione più estensiva sul recesso in ambito di fusione è invece favorita da Massima LA/9 Comitato Triveneto dei Notai; CIVERRA E., Le operazioni straordinarie, Aspetti civilistici, contabili e procedurali, Milano, 2008, 442; MAGLIULO F., La fusione delle società, Milano, 2005, 1389.

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Luca Sbaraini

Laurea in Giurisprudenza presso Università degli studi di Trento. Espletata pratica notarile in Brescia. Iscritto attualmente a Scuola Notarile.

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