Bambini invisibili: storie di un’infanzia negata
La situazione penitenziaria in Italia è da sempre estremamente complessa, si registra un record di sovraffollamento, condizioni di vivibilità talvolta al limite, nonché una costante violazione di diritti, di uomini, donne e bambini.
Il presente elaborato approfondisce una tematica attuale e, purtroppo, estremamente triste, riguardante quella presenza minoritaria, e per questo marginale, delle donne detenute in carcere, talvolta madri, che decidono di crescere il proprio figlio con sé, fra le mura di cemento.
Si tratta dei cd. bambini invisibili, condannati a vivere i loro primi anni di vita, e costretti a pagare gli errori della propria madre, senza aver alcuna colpa.
Emerge dalle ricerche condotte dall’associazione Antigone per la tutela dei diritti e le garanzie del sistema penale uno squarcio di verità della detenzione femminile relativa proprio alle problematicità del legame madre-bambino che si viene ad instaurare all’interno del contesto carcerario e la possibile influenza che l’ambiente può avere su entrambi i soggetti, determinando in loro i risvolti negativi sul piano affettivo, psicologico e relazionale.
Essere una madre detenuta. È noto come il problema della relazione madre detenuta – figlio sia sempre stato oggetto di attenzione da parte del legislatore, che mediante le leggi sopra citate, ha dato la possibilità di ristabilire in modo emblematico la situazione critica, secondo la quale “gli effetti dell’esecuzione penale non si riversano esclusivamente sul soggetto condannato, ma colpiscono indirettamente anche i familiari, vittime dimenticate, la cui sfera affettiva inevitabilmente si comprime per effetto della sentenza di condanna” o dell’esecuzione di una misura cautelare.
Il carcere non è un luogo dove poter essere madri, non è possibile poter gestire i propri figli, crescerli secondo criterio perché i tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove.
Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri.
L’istituto di pena è un elemento ostacolativo tra il bambino e il genitore, che determina delle strette limitazioni nel ruolo genitoriale, precludendo un sano legame tra la madre e il bambino oltre a ripercuotersi sul suo vissuto psicologico ed emotivo: la condizione di carcerazione, infatti, se aggravata da una scarsa attenzione ai suoi bisogni può comportare conseguenze sia psicologiche che comportamentali di tale complessità e gravità che, in seguito, può divenire ancor più difficile realizzare programmi di aiuto sociale, se non integrandoli con interventi specificatamente psicoterapeutici.
Il ruolo della madre risulta limitato dalle norme vigenti all’interno del carcere, in quanto le regole sono dettate dall’esterno e dipendono dalle concessioni del sistema penitenziario.
Da ciò è possibile comprendere quanto l’educazione materna dei bambini in carcere sia condizionata dal contesto in cui viene esercitata, in quanto impone loro le stesse limitazioni e ritmi di vita rigidi degli adulti, influenzando inevitabilmente il legame madre-bambino.
L’infanzia negata. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi e angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi.
Ai minori in carcere viene negata un’infanzia serena, spensierata, bensì fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente, gli vengono negati gli affetti più cari, la possibilità di socializzazione, e ancora la possibilità di conoscere il mondo e di assaporare la curiosità.
L’infanzia di un minore fra le sbarre può determinare, talvolta, difficoltà nel linguaggio, di apprendimento e di comprensione, in quanto un bambino che vive da piccolo una realtà che solo un adulto può comprendere e accettare, può inevitabilmente nutrire aggressività e iperattività, segni di chiusura e di insofferenza nei confronti del mondo esterno.
La vita del bambino, figlio di madre detenuta, è segnata da un passaggio, da un legame eccessivo con la figura materna caratterizzato da una totale dipendenza dalla madre, ad un completo distacco da essa, dove l’influenza istituzionale gioca un ruolo chiave nel determinare il nuovo ruolo genitoriale. L’istituzione, mediante la presenza degli assistenti sociali e dei volontari del Telefono azzurro, infatti si sostituisce alla madre in tutte le attività esterne previste per i bambini, come le passeggiate e gli accompagnamenti al nido, inevitabilmente escluse alla madre.
Tutele nella relazione madre – figlio nell’assiologia dell’ordinamento giuridico. Il tema del rapporto tra le madri ed i figli è stato esaminato sotto una pluralità di profili nell’ambito del diritto costituzionale, come il diritto della persona, benché in carcere, a non essere lesa nella sua dignità (art. 27.3 Cost.), la garanzia della duplice finalità della pena, com’è noto, di tipo punitivo e preventivo ma anche rieducativo (art. 27.3 Cost.), nella prospettiva di vita futura del soggetto nella funzione genitoriale, il dovere dei genitori di educare i figli (art. 30.1 Cost.), il diritto del bambino, minore, a essere accudito dalla madre (art. 30.1 Cost.), il suo diritto a vivere, con la madre (i genitori), in un contesto esterno a quello carcerario idoneo a garantire la sua integrità psico-fisica e la sua salute (art. 32 Cost.), fortemente condizionate dalla qualità dei primi anni di vita del bambino (art. 31.2 Cost.).
A tutela di tali soggetti ulteriormente colpiti dalla pena, in particolare dei figli minori, molte sono le norme di riferimento sul piano nazionale, internazionale e comunitario. L’art. 3, della Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia del 1989, stabilisce che «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private, dei tribunali o degli organi legislativi […] l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Agli articoli 64 e 65 delle Regole penitenziarie europee adottate nel 2006 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, è previsto che «ogni sforzo deve essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano regolati e gestiti in maniera da […] mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della famiglia e con la comunità esterna al fine di proteggere gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie».
Il 21 marzo 2014 è stata firmata, per la prima volta in Europa, la Carta dei figli dei genitori detenuti quale «riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto del medesimo alla genitorialità».
La Carta è il risultato del protocollo d’intesa fra il Ministro della Giustizia, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dal Presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre, volto a promuovere i diritti dei minori, proiettata nell’interesse superiore del bambino.
Tali aspetti del percorso verso la tutela del fanciullo dimostrano che, fondamentalmente, soltanto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, si è assistito ad un processo di graduale sensibilizzazione nei confronti della tutela del minore.
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Margherita Biundo
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