Biotestamento: il parere del Consiglio di Stato
Con la legge numero 219 del 22 dicembre 2017, sono state introdotte nel nostro sistema ordinamentale le norme concernenti il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento.
Il provvedimento in questione ha finalmente affrontato la tematica delicata e riferita al c.d. consenso informato disciplinandone, altresì, le modalità di espressione e di revoca nonché le condizioni e le disposizioni anticipate di trattamento, c. d. DAT, già regolamentate nell’articolo 9 della Convenzione di Oviedo per il quale “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.
Il Ministero della Salute, con relazione n. 7237 del 15 giugno 2018, ha inteso formulare taluni quesiti al Consiglio di Stato in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.
La risposta è arrivata il primo agosto scorso dall’Adunanza della Commissione speciale del 18 luglio 2018, numero affare 01298/2018.
Il Ministero ha formulato alcuni quesiti che hanno ad oggetto la prevista istituzione della banca dati nazionale, ex art. 1, comma 418, legge numero 205 del 2017, destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT).
Le D.a.t. vanno incluse nella banca dati nazionale?
Con il primo quesito, il Ministero ha evidenziato la necessità di interpretare l’articolo 1, comma 418, legge numero 205 del 2017 coordinandola con l’art. 4 l. n. 219/2017 che, recando la disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento, al comma 7 prevede che “le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili”.
Il supremo Consiglio, al fine di fornire una esaustiva risposta, ha svolto una attenta e chiara analisi che trova inizio dal concetto di salute.
Afferma lo stesso, infatti, che tale concetto “non è più inteso esclusivamente come antitesi del concetto di malattia, ma assume, come rilevato dalla Corte di Cassazione, il significato più ampio di stato di completo benessere psico-fisico, parametrato e calibrato anche, e soprattutto, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, alle proprie concezioni di identità e dignità, nonché con un’idea di persona non accolta apoditticamente in astratto, bensì valutata giuridicamente nelle sue reali e concrete sfumature”.
Per capire come si è arrivati a tale definizione appaiono necessarie alcune analisi.
Se soffermiamo l’attenzione sul concetto odierno di salute, si evince che tradizionalmente erano presenti due differenti concezioni per intendere la stessa: la prima, considerava quest’ultima come un diritto assoluto attribuito all’individuo nel rispetto della propria integrità fisica, mentre, la seconda, concerneva l’attribuzione all’individuo di un diritto all’assistenza sanitaria intesa come
posizione giuridica soggettiva da far valere nei confronti dello Stato.
La prima concezione, poc’anzi accennata, è stata oggetto di varie critiche in quanto la salute, oltre a rilevare dal punto di vista esclusivamente fisico dell’individuo, viene a rilevare anche da un ulteriore punto di vista, quello non esclusivamente fisico ma anche psichico, in considerazione del fatto che la
persona viene ad essere considerata come unica e indissolubile unità psico-fisica, a evidenza del fatto che la salute non è un aspetto meramente statico, ma dinamico perché direttamente ricollegabile allo sviluppo della persona.
Anche la seconda concezione, pur se da un versante differente, è criticabile con riferimento al fatto che il diritto alla salute non riguarda solo il campo sanitario, ma concerne anche altri campi, come quello comportamentale, sociale e ambientale e non viene ad essere inteso solo come una posizione giuridica da far valere nei confronti dell’apparato burocratico dello Stato, in cui si articola il servizio sanitario, ma anche nei vari rapporti intersoggettivi.
Ulteriormente, si rileva che la salute, sostanzialmente, è qualificabile come un bene inseparabile dalla persona, come un interesse sostanziale giuridicamente e sostanzialmente rilevante non solo con riferimento all’articolo 32 della Costituzione ma, anche, con riferimento agli articoli 2 e 3 della stessa Carta come equilibrio psichico, mentale e fisico, poichè non è prospettabile una visione della salute come autonoma concettualmente, come aspetto inseparabile della persona umana, in quanto è necessariamente intesa come un valore unitario.
Così intesa, la salute può essere assunta come referente sia di norme di azione, di condotta o di relazione, disseminate un po’ dovunque nell’ordinamento, sia come un diritto da far valere erga omnes riconducibile ad una tendenza interpretativa che lo riconosce come il c.d. Drittwirkung dei diritti fondamentali.
Importante e parimenti rilevante è il versante concernente la tutela del bene salute, tutela che può essere garantita oltre che direttamente anche indirettamente attraverso una attenta lettura di ulteriori disposizioni normative.
Ciò si evince, per esempio, dalla lettura dell’articolo 844 del codice civile 144, il quale, come avviene con l’azione di enunciazione prevista a difesa della situazione reale e del possesso, si può tradurre in un indiretto mezzo di tutela della salubrità dei luoghi afferenti alla persona, e quindi della salute di chi vi abita. Ciò avviene anche nell’articolo 2087 del codice civile, il quale impone all’imprenditore di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Tale limitazione della proprietà, in sintesi, è giustificata dalla protezione di un interesse superiore: il diritto alla salute, che troverebbe fondamento nell’articolo 32 con una duplice posizione soggettiva: quella di un diritto di libertà, inteso come libertà di salute, e quella di un diritto a prestazioni dirette a tutelare la salute.
Vi è da notare che, con il trascorrere degli anni, si è evidenziata una netta contrapposizione tra un’idea produttivistica e autarchica del concetto di salute, che vede l’interesse dell’individuo non prevalere sull’interesse patrimoniale in quanto non vi è una gerarchia di valori e giudizi di prevalenza, e un’idea nella quale la persona è posta all’apice della gerarchia dei valori; in questo secondo caso
parliamo della interpretazione odierna del concetto di salute.
Proprio perché tale concetto assume un significato dinamico e non statico è fondamentale l’autodeterminazione in base alla quale i trattamenti sanitari sono liberi.
Lo strumento attraverso il quale il diritto alla salute si concilia con il diritto alla libertà di autodeterminazione è il consenso informato.
Per prestare un consenso pienamente informato l’interessato, capace di intendere e di volere, deve essere messo a conoscenza della patologia da cui è affetto, dei possibili sviluppi della malattia stessa, delle diverse opportunità terapeutiche e anche delle conseguenze e dei rischi di eventuali interventi terapeutici.
Dal codice di Deontologia Medica, a tal proposito, emerge una interessante dichiarazione che stabilisce che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente”; dalla lettura di queste righe emerge, già, la possibilità di cogliere il peso attribuito a tale forma di consenso mirante, in primo luogo, a fornire una forma di tutela alla persona.
Tale tutela trova affermazione anche a livello internazionale, esempio ne è l’articolo 3, comma secondo, della Convenzione di Oviedo che prevede, nel rispetto della dignità umana, l’affermazione, quale imprescindibile presupposto per qualsiasi trattamento sanitario, del consenso libero e informato della persona interessata, che può essere in qualunque momento ritirato e considerato, addirittura, come diritto fondamentale del cittadino europeo, in tal modo, sovrastando i confini e i limiti nazionali. Antecedente necessario è la tutela della persona interessata, che viene tutelata in quanto portatrice di dignità che, attraverso il consenso, può auto-tutelarsi.
La necessità del c. d. consenso informato, si evince, in generale, dall’articolo 13 Costituzione, il quale afferma l’inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica, escludendone ogni restrizione, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge.
Il cammino verso la piena affermazione del diritto del paziente di esprimere il proprio consenso o il proprio rifiuto alle cure mediche è stato segnato da due vicende giuridiche note come il “caso Welby” ed il “caso Englaro”.
Piergiorgio Welby, malato di grave distrofia muscolare progressiva diagnosticatagli nel 1963, si impegnò per il riconoscimento legale del diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico in Italia e per il diritto all’eutanasia. Il 16 dicembre del 2006 il Tribunale di Roma respinse la sua richiesta di porre fine all’accanimento terapeutico, dichiarandola inammissibile per via del vuoto legislativo presente in materia, in quanto per il giudice decidente il diritto di richiedere l’interruzione della respirazione assistita, previa somministrazione della sedazione terminale, è un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento.
Tale vicenda scatenò l’opinione pubblica, in quanto, nella stessa giornata si svolsero in 50 diverse città delle veglie a sostegno della volontà di Welby.
Nonostante ciò, il dottor Mario Riccio, confermò, durante una conferenza stampa, di averlo aiutato a morire, dopo avergli staccato la respirazione previa somministrazione del sedativo, ciò avvenne in presenza della moglie e di alcune figure politiche di spicco, quali Marco Pannella ed Emma Bonino. Successivamente, il 1 febbraio 2007, l’Ordine dei medici di Cremona ha riconosciuto che il dottor Mario Riccio ha agito nella piena legittimità del comportamento etico e professionale, ponendo fine alla procedura aperta nei suoi confronti. Nonostante tutto, l’otto giugno 2007, il giudice per le indagini preliminari ha imposto al pm l’imputazione del medico per omicidio del consenziente, respingendo la richiesta di archiviazione del caso. Successivamente il GUP di Roma lo ha definitivamente prosciolto in quanto il fatto non costituisce reato.
Ad aggravare il tutto, si aggiunse il rifiuto, giunto da parte delle autorità cattoliche, di svolgere il funerale secondo il rito religioso, in quanto “a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volonta del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, cio che contrasta con la dottrina cattolica”.
Emblematico fu anche il caso di Eluana Englaro, nell’ambito del quale la Corte d’Appello di Milano ha ricostruito la volontà di Eluana, desumendola dalla sua personalità e dal suo stile di vita accertamento una corrispondenza con la richiesta avanzata dal tutore che chiedeva l’interruzione dell’alimentazione e della idratazione artificiale.
La Corte, tracciando implicitamente i principi generali ai quali avrebbe dovuto attenersi la disciplina sulle disposizioni anticipate di trattamento, ha affermato “il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma – atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) – altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”.
Sul punto è intervenuto anche il Consiglio di Stato stesso, Terza sezione, 21 giugno 2017, n. 3058, con affermando che “deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’ “alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Ciò posto, non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche”.
Con le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), invece, ciascun individuo, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, può decidere “ora per allora” su eventuali trattamenti sanitari che potrebbero riguardarlo e sui quali in futuro non sarà in condizione di prestare il consenso; ciò avviene manifestando la propria volontà mediante la redazione di un atto all’uopo previsto e nel rispetto delle previsioni di legge.
Le Dichiarazioni anticipate di trattamento, sono un tema la cui rilevanza è andata costantemente crescendo negli ultimi anni e che, nella letteratura bioetica nazionale e internazionale, viene per lo più indicato con l’espressione inglese living will, variamente tradotta con differenti espressioni quali: testamento biologico, testamento di vita, direttive anticipate, volontà previe di trattamento, eccetera.
Tali diverse denominazioni fanno riferimento, in una prima approssimazione, a un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato.
Per far acquisire rilievo pubblico (anche se non necessariamente legale) a questi documenti viene richiesto che essi siano redatti per iscritto, che non possa sorgere alcun dubbio sulla identità e sulla capacità di chi li sottoscrive, sulla loro autenticità documentale e sulla data della sottoscrizione e che siano eventualmente controfirmati da un medico, che garantisca di aver adeguatamente informato il sottoscrittore in merito alle possibili conseguenze delle decisioni da lui assunte nel documento.
Se da un lato si dà valore giuridico alle dichiarazioni anticipate per tutelare le persone dall’accanimento terapeutico, dall’altro, vengono tuttavia escluse le dichiarazioni di volontà che implichino “finalità eutanasiche”.
Le DAT hanno fatto ingresso ufficiale nel nostro ordinamento con l’art. 4 della legge n. 219/2017.
Il suddetto articolo si occupa delle DAT prevedendo tre requisiti: il primo concerne la capacità del disponente e stabilisce che lo stesso deve essere un soggetto maggiorenne e capace di intendere e di volere; il secondo concerne il presupposto in presenza del quale il soggetto può esprimere le proprie disposizioni ossia “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi”; il terzo, infine, concerne il momento che precede le DAT aossia “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte“.
Il disponente ha la possibilità di indicare una persona di sua fiducia, fiduciario, maggiorenne e capace di intendere e di volere, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie
L’accettazione da parte del fiduciario avviene mediante la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo che alle stesse va allegato.
A dire del Consiglio “il fiduciario è, dunque, un mandatario cui l’autore delle DAT assegna l’incarico di assicurare che tali dichiarazioni siano rispettate ove questi non sia più in grado d’autodeterminarsi a causa della patologia. Il mandato è revocabile ad nutum osservando le medesime forme stabilite per il suo conferimento. La sopravvenuta rinuncia, morte o incapacità del fiduciario non si ripercuote sull’efficacia delle DAT, giacché la nomina non partecipa della natura di elemento «strutturale» della fattispecie; in ogni caso, il giudice tutelare può nominare un amministratore di sostegno allorché le circostanze fattuali lo suggeriscano (comma 4)”.
Per quanto concerne la natura delle DAT, osserva la dottrina che si tratta di un negozio giuridico a contenuto non patrimoniale, unilaterale, non recettizio, sottoposto a condizione sospensiva che produrrà quindi i suoi effetti in un momento successivo, con la precisazione che, con riguardo alla nomina del fiduciario, la clausola di designazione è inefficace finché non è accettata da quest’ultimo, con sottoscrizione coeva o atto successivo.
Ai sensi dell’art. 4, comma 5, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, che tuttavia possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.
Nel caso in cui sussista un conflitto tra il medico e il fiduciario la decisione spetterà al giudice tutelare.
Con tali norme il legislatore ha preso esplicita posizione sulla rilevanza delle DAT.
A differenza del semplice consenso informato, le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie.
Le stesse possono essere, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che permettano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.
Il comma 7 stabilisce inoltre che “le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili”.
Da qui la risposta al quesito avanzato dal Ministero.
Il Ministero, avanzando dubbi interpretativi dovuti alla parziale mancanza di coordinamento tra l’art. 4, comma 7, l. n. 219/2017 e l’art. 1, comma 418, l. n. 205/2017, ha chiesto al Consiglio:
1. “se la banca dati, istituita presso questo Ministero, debba intendersi solo quale strumento finalizzato ad annotare ed attestare solo l’avvenuta espressione delle DAT nonché ad indicare ove la stessa sia reperibile, ovvero contenere essa stessa copia della disposizione anticipata di trattamento eventualmente resa“.
Precisa il Supremo Consiglio che per il Ministero, “la prima interpretazione appare più aderente alla formulazione letterale della disposizione della legge di bilancio, ove si recita che la predetta banca dati è “destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT)” e confortata dal raffronto della medesima con il testo dell’art 4, comma 7, della legge 22 dicembre 2017, n. 219, laddove si prevede espressamente che le regioni che adottano modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al servizio sanitario nazionale (SSN) possono regolamentare “la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati”. La seconda interpretazione, sempre per il Ministero, apparirebbe invece meramente desumile da una presunta – ma non esplicitata – intenzione del legislatore di assicurare una più estesa attuazione, con le disposizioni recate dalla legge di bilancio 2018, alla specifica normativa in materia di DAT”.
Al riguardo, il Consiglio osserva che è pur vero che il termine “registrazione” utilizzato nella legge di bilancio, confrontato con il termine “raccolta”, previsto dall’art. 4, comma 7, della legge n. 219/2017, potrebbe far propendere per un’interpretazione restrittiva, così come proposto dal Ministero richiedente; tuttavia detto termine sembra sia stato utilizzato dal Legislatore in senso atecnico, in quanto lo scopo indubbio della legge è quello di istituire un registro nazionale ove poter raccogliere le DAT.
Ciò del resto è confermato dalle seguenti considerazioni:
a) è vero che la tutela della salute, ex art. 117, comma 3, Cost., rientra nella potestà legislativa concorrente, ma è anche vero che, sulla base del quadro costituzionale sopra delineato, le DAT possono essere inquadrate, per un verso, nella materia dell'”ordinamento civile” di competenza esclusiva dello Stato (trattandosi di diritti fondamentali della persona umana) e, per altro verso, nella materia dei “livelli essenziali delle prestazioni”, anche questa di competenza esclusiva; conseguentemente il registro previsto dalla legge di bilancio, ad avviso del Consiglio, non può servire solo a registrare ciò che è stato raccolto dai registri regionali (che peraltro sono sostanzialmente facoltativi) o dai registri ex lege facoltativi istituiti presso i comuni né può limitarsi a contenere la semplice annotazione o registrazione delle DAT comunque esistenti; al contrario, tale registro nazionale deve svolgere l’importante compito di dare attuazione ai principi costituzionali prima ricordati – in un quadro di competenze legislative statali che per questo aspetto sono di tipo esclusivo – anche raccogliendo le DAT, consentendo, in tal modo, che le stesse siano conoscibili a livello nazionale ed evitando che abbiano una conoscibilità circoscritta al luogo in cui sono state rese. Il che vanificherebbe, con tutta evidenza, l’applicazione concreta della normativa;
b) peraltro, se il registro nazionale avesse unicamente il compito di registrare le DAT senza raccoglierle, vi sarebbe il concreto rischio di dar vita ad un sistema incompleto e privo di utilità: la legge 219/2017 – come si è visto – non prevede l’obbligatorietà né del registro regionale (le regioni “possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta delle DAT”) né di quello comunale (l’art. 4, comma 6, parla di “apposito registro, ove istituito”), con la conseguenza che potrebbe mancare a livello locale un registro che raccolga le DAT; anche per tale ragione appare necessario un registro nazionale completo e efficiente, al quale gli interessati possono direttamente trasmettere le DAT che hanno reso;
c) è opportuno che siano raccolte anche le DAT delle persone non iscritte al SSN: se, infatti, il registro regionale può raccogliere solo le DAT degli iscritti al SSN, l’unico modo per garantire i medesimi diritti fondamentali della persona umana anche a coloro che non sono iscritti al SSN è l’istituzione di un effettivo ed efficiente registro nazionale.
Sul punto la Commissione speciale rileva che occorrerà prevedere, su richiesta dell’interessato, l’invio alla banca dati nazionale delle DAT da parte dell’ufficiale dello Stato civile o dalla struttura sanitaria ai quali sono state consegnate e del notaio che le ha ricevute. Detto incombente è necessario per consentire al medico, in caso di bisogno, di conoscere se il paziente ha reso o meno le disposizioni in questione.
In conclusione, afferma lo stesso, la risposta al quesito è nel senso che la banca dati nazionale deve, su richiesta dell’interessato, poter contenere copia delle DAT stesse, compresa l’indicazione del fiduciario e l’eventuale revoca.
Il Registro è aperto anche ai non iscritti al SSN?
Col secondo quesito il Ministero chiede “se la banca dati nazionale sia destinata al solo “iscritto al SSN” cui si rivolgono le banche dati regionali ovvero ad ogni persona maggiorenne anche se non iscritta al SSN come sembra doversi dedurre dalla diversa terminologia utilizzata dal legislatore nei due casi“.
Il Consiglio di Stato, nel dare risposta a tale ulteriore quesito, ha inteso riaffermare che è preferibile una apertura del registro nazionale anche a tutti coloro che non sono iscritti al SSN. La tutela costituzionale garantita a questo diritto, infatti, non permette di subordinare il riconoscimento alla suddetta iscrizione.
Sì a linee guida ma con nessun vincolo di contenuto
Il terzo dubbio interpretativo formulato è “se sia esclusa – alla luce della lettura coordinata delle disposizioni richiamate – la possibilità di imporre, ai fini di conservazione elettronica, la standardizzazione delle DAT, la cui formulazione, sia pure con l’avallo dei notai o degli Ufficiali dello Stato civile, sembra doversi consentire senza schemi preordinati, configurandosi le stesse come atti a contenuto libero”.
In ordine a tale quesito, il Consiglio esprime il parere che, in via generale, vada mantenuta la possibilità di rendere le DAT senza un particolare vincolo di contenuto in quanto l’interessato deve poter essere libero di scegliere il contenuto da attribuire alle stesse.
Resta ferma la possibilità per il Ministero di mettere a disposizione un modulo tipo facoltativo, al fine di meglio facilitare il cittadino a rendere le DAT.
Di fatto, è da escludere la possibilità di generare una standardizzazione delle DAT a fini di migliore conservazione elettronica.
Le informazioni spettanti al paziente
Considerato che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge n. 219/2017, l’assistito esprime le DAT “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”, con il quarto quesito il Ministero chiede se l’acquisizione di siffatta informativa possa essere dichiarata dall’interessato, ai sensi del d.P.R. n. 445/2000, contestualmente alla disposizione anticipata.
Osserva il Consiglio che appare necessario che vi sia certezza in ordine alla “adeguatezza” delle informazioni mediche acquisite dall’interessato e riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate.
Pertanto, è opportuno che tale circostanza venga attestata.
Il medico e fiduciario possono avere accesso alla banca dati?
Col quinto quesito è stato chiesto “se la legittimazione ad accedere alla banca dati per verificare l’esistenza di una DAT e, ove riprodotto, il contenuto della stessa, debba intendersi limitata al personale medico (considerato che l’art 4, comma 5, della legge n. 219 del 2017 impone esplicitamente al “medico” il rispetto delle DAT) in procinto di iniziare o proseguire un trattamento sanitario nei confronti di un paziente in situazione di “incapacità di autodeterminarsi”, e se quest’ultima condizione debba essere attestata con idonea certificazione da trasmettere e acquisire alla menzionata banca dati.
Al riguardo, il Consiglio ha osservato che la normativa in materia di DAT deve essere coordinata con le disposizioni normative a tutela del diritto alla riservatezza quale diritto fondamentale della persona umana; pertanto, nell’attesa dell’intervento necessario del Garante per la protezione dei dati personali, si è stabilito che alle DAT può accedere il medico che lo ha in cura il soggetto allorché sussista una situazione di incapacità di autodeterminarsi del paziente; deve potervi accedere il fiduciario, salvo revoca.
Il Consiglio di Stato, alla conclusione del parere reso, conclude affermando la necessità che il Governo verifichi, dopo un primo periodo di applicazione, se vi siano profili da modificare o migliorare con interventi di carattere amministrativo o normativo.
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