Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti
Tale libro, curato da Patrizio Gonnella e Dario Ippolito nasce come una riedizione di un vecchio numero della rivista “Il ponte” di Pietro Calamandrei. «Bisogna aver visto» diceva Calamandrei delle carceri italiane, sottintendendo l’umanità dolente di questi luoghi e chiedendo l’avvio di un’inchiesta all’interno delle carceri, con l’obiettivo di realizzare delle riforme. Calamandrei, uno dei principali giuristi del 900, pur avendo una formazione procedural-civilista, mostra una straordinaria sensibilità costituzionale evidenziando il bisogno di visitare le carceri. Nel caso di specie ci si rifà a quelle del regime fascista, ma si tratta di un discorso applicabile anche alla contemporaneità e che è importante riprendere alla porte del 25 aprile.
All’interno del testo vengono riportate le lettere e le biografie dei militanti politici, dei membri della Resistenza italiana e viene anche tracciato il percorso fatto dal diritto penitenziario durante il periodo fascista. È importante fornire prima di continuare qualche riferimento storico. Nel 1926 venne istituito il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato e questo portò a schedare e sorvegliare gli antifascisti[1]. Inoltre, contro le sentenze di tale Tribunale non era possibile né il ricorso, né l’impugnazione. In questo modo l’antifascismo militante veniva esercitato clandestinamente. Tra il 1930 e il 1932 vennero introdotti provvedimenti, che appesantirono il carattere punitivo della detenzione introducendo un’ampia casistica di atti e comportamenti vietati e una altrettanto articolata gamma di misure punitive. Un aspetto rilevante di questa stretta repressiva riguardò la separazione tra detenuti politici– che dal 1932 vennero concentrati principalmente nei penitenziari di Civitavecchia, Fossano e Castelfranco Emilia– e comuni, per evitare il rischio di trasformare le carceri in luoghi di propagazione del dissenso attraverso l’opera di condizionamento dei maggiori dirigenti politici reclusi[2]. I detenuti politici, secondo Augusto Monti, scrittore e professore, il quale fu arrestato con Vittorio Foa e Leone Ginzburg per appartenenza a Giustizia e Libertà, erano coloro che pur essendo «vestiti come gli altri, ammanettati come gli altri apparivano diversi perché avvocati, professori, studenti, operai e qualche contadino. Non hanno ammazzato, né truffato, né rubato»[3].
Un esempio in questo senso è il caso di Alterio Spinelli, accusato di cospirazione contro i poteri dello Stato rimase in carcere 10 anni, tra Viterbo e Civitavecchia, per poi essere mandato al confino per altri 8 anni a Ponza e Ventotene. Durante il periodo del confino si allontanò dal comunismo, avvicinandosi al federalismo. Spinelli inoltre nella sua testimonianza denuncia le ipocrisie del regime penitenziario fascista, il quale aveva trasformato la buona condotta in un miraggio di futura libertà per i detenuti. Per questo gli ergastolani diventavano spesso «servitori abbietti dei guardiani, spie della direzione», perché vivevano con la speranza di ottenere la grazia un giorno attraverso la buona condotta[4]. Tale visione dell’ergastolano trova conferma in altre testimonianze, come quella di Riccardo Bauer, professore, che dopo alcune pubblicazioni organizzò il movimento antifascista Giustizia e Libertà, e definisce la psicologia dell’ergastolano «torbida»[5].
Le testimonianze private concordano in modo unanime nell’individuare le maggiori problematiche carcerarie nelle condizioni igienico-sanitarie dei penitenziari, nella scarsa quantità e qualità dell’alimentazione e nella violenza del personale di custodia. Rispetto al primo punto si può ricordare la testimonianza di Emilio Lussu, avvocato e scrittore, esponente del Partito Sardo D’Azione, fuggì dal confino e fu uno dei maggiori esponenti di Giustizia e Libertà, il quale denuncia la presenza massiccia delle cimici nelle celle definendole «un aggravamento di pena, non contemplato dai codici»[6].
Coerentemente con quanto detto finora si riporta la testimonianza di Marco Vinciguerra, giornalista arrestato a più riprese con l’accusa di complotto a mano armata contro i poteri dello Stato, sottolinea come l’ambiente carcerario, fatto di privazioni, rafforzi due categorie di mali, ossia la follia e la tubercolosi. Per quanto riguarda la follia Vittorio Foa, prima militante del Partito d’Azione e poi del Partito Socialista Italiano, parla di «alterazione psicologica» del recluso rispetto alla concezione del tempo, perché «coll’attutirsi dei ricordi (…) il tempo si vuota e si fa geometrico e spaziale»[7].
Vinciguerra commenta l’art. 148 del Codice Rocco il quale parlava specificatamente di infermità mentale e implicava la possibilità per il soggetto di essere internato in manicomio fino all’esaurirsi di tale condizione, per poi riprendere con il computo della pena. Inoltre, mette in luce la necessità di provvedere alla creazioni di riforme, definendo la legislazione penitenziaria italiana «una malattia organica»[8]. La necessità di muoversi per attuare una riforma viene sostenuta fortemente più meno da tutti i soggetti all’interno del testo. Rispetto alla questione dell’alimentazione dalle testimonianze riportate questa si configura insufficiente e dieteticamente sbagliata, in quanto composta da pane e da una minestra giornaliera. Il cibo risulta scadente e la carne è distribuita una sola volta alla settimana in piccole quantità e durante le festività[9]. Questo a causa delle società appaltatrici che tendono a voler ottenere il massimo del guadagno, offrendo la minore qualità possibile[10]. Infine è utile riportare le testimonianze di due donne che restituiscono in maniera molto vivida la violenza del personale penitenziario, oltre la presenza di alcune pratiche consolidate come il santantonio. Adele Bei, operaia comunista condannata alla detenzione per 18 anni e poi confinata fu una partigiana combattente, che denunciò la violenza della polizia fascista (OVRA) e la pratica dei «letti di forza», ossia letti di ferro, concepiti per le detenute considerate più aggressive e fissati nel pavimento con cinghie per tenerle legate mani, piedi e collo[11]. Inoltre sottolinea come le detenute venissero sfruttate dalla Direzione del carcere per il loro lavoro (ricamo e cucito), poiché erano svalutate essendo pagate con miseri compensi. L’altra testimonianza è quella di Ester Parri, moglie di Ferruccio Parri, arrestata dalle S.S. tedesche, che denuncia la sporcizia e il malfunzionamento del carcere, nel quale manca l’attenzione per le persone, il tentativo di rieducare perché vi è solo il desiderio di punire e bisogna diventare «fredda pietra» per riuscire a sopportarlo[12]. L’insieme di queste testimonianze risulta estremamente attuale, perché mette in luce l’esigenza di superare il populismo penale e la conseguente visione del carcere come istituzione totale, tramite riforme settoriali, che dovrebbero mettere al centro la persona, il suo valore, i suoi bisogni e la necessità di garantire la creazione di un percorso rieducativo e risocializzante.
[1]https://www.cidra.it/museo-cidra/fascismo-e-antifascismo/antifascismo-carcere-confino-clandestinita-ed-esilio/
Consultato il 17/04/2024.
[2] Albanese C., “Le nostre prigioni. Storie di dissidenti nelle carceri fasciste” di Giovanni Taurasi, in Pandora rivista, Roma, 2021, p. 298.
[3] Monti A., Rieducazione carceraria, in in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
[4] Spinelli A., Esperienze di prigionia, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
[5] Bauer R., Il regime carcerario italiano, in Esperienze di prigionia, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
[6] Lussu E., Una tortura, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
[7] Foa V., Psicologia carceraria, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
[8] Vinciguerra M., Chiarimenti, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
[9] Bauer R., Il regime carcerario italiano, in Esperienze di prigionia, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti.
[10] Ibidem.
[11] Bei A., Episodi di vita in un carcere femminile, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
[12] Parri E, Quando si è di fredda pietra, in Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Ippolito D. & Gonnella P., edizioni Asino, Milano, 2019.
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Chiara Ottaviano
Dottoressa in giurisprudenza. Ho conseguito la laurea presso il dipartimento di Roma tre, ad ottobre 2022, con una tesi in diritto missionario, analizzando gli Acta Apostalicae Sedis dal 1918 al 1963. Attualmente, praticante avvocato in diritto civile, con attenzione al diritto di famiglia ed al diritto fallimentare. A settembre 2023 ho conseguito un Master di II livello in diritto penitenziario e Costituzione, presso il dipartimento di Roma tre, discutendo una tesi sulla condizione delle recluse transgender all'interno dell'amministrazione penitenziaria e sviluppando un grande interesse per la normativa concernente la comunità LGBTQAI+. Ho da poco terminato, presso il dipartimento di Giurisprudenza di Roma tre il corso in materia diritti umani e ONG curato in collaborazione con CILD. Attualmente collaboro come volontaria presso Antigone nell'ufficio del Difensore civico.
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