“Black Axe”: la mafia nigeriana
Con sentenza n. 4258 del 20 luglio 2016 la II Sez. Pen. del Tribunale di Palermo ha riconosciuto la sussistenza dell’aggravante dell’ utilizzo del “metodo mafioso” (art. 7 del D.L. n. 152/1991 convertito in legge n. 203 del 1991), in relazione ai reati commessi da tre cittadini di nazionalità nigeriana a danno di alcuni connazionali.
I Giudici palermitani – riservandosi di depositare entro i termini previsti dal codice di rito la motivazione – hanno ritenuto penalmente responsabili tre dei quattro imputati per aver commesso gravi reati contro la persona e contro il patrimonio (tentato omicidio, lesioni gravi, violenza privata, rapina, ricettazione), aggravati i primi dalla circostanza di essersi avvalsi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p.
Trattasi di una pronuncia storica per il Tribunale del capoluogo siciliano, atteso che è stata la prima volta che i giudici di Palermo – e più in generale i Giudici siciliani – hanno riconosciuto la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso, riconducendo le condotte degli imputati a schemi operativi propri di un’associazione criminale di stampo mafioso differente rispetto a Cosa Nostra.
Comunemente qualificata come culto, anche se priva di matrice religiosa, l’associazione mafiosa Black Axe, nasce in Nigeria agli inizi degli anni ’70 presso l’Università di Benin City, operando dapprima come confraternita di studenti, dedita alla risoluzione dei problemi di categoria, e successivamente come vera e propria gang criminale.
Tale culto, infatti, imponendo proprie regole ed utilizzando metodi violenti, abbandona ben presto il mondo universitario, per approdare in tutti gli aspetti della vita economica, politica e sociale del paese, lasciando una scia di sangue tale da spingere il legislatore nigeriano a vietare la costituzione di tali tipologie di associazioni.
Il fenomeno dei cults nigeriani, tuttavia, non rappresenta una realtà legata esclusivamente alla Nigeria, avendo trovato diffusione in tutta Europa e, negli ultimi anni, anche in Italia.
Giova, infatti, segnalare che il fenomeno “Black Axe”, come anche quello “Eiye” [1], non risulta estraneo alla nostra giurisprudenza, la quale in più occasioni ha avuto modo di occuparsene.
Ed invero, soprattutto nel nord Italia in città quali Torino, Brescia e Verona ma anche Napoli, sono stati numerosi i casi in cui gli appartenenti a tali sodalizi criminosi, insieme alle loro condotte, hanno costituito oggetto d’indagini da parte della magistratura requirente, con particolare riferimento a gravi delitti contro la persona (tentati omicidi, risse, lesioni, sfruttamento della prostituzione) o contro il patrimonio (rapine ed estorsioni).
In particolare, i processi torinesi e bresciani, hanno accertato come questi gruppi siano connotati dal carattere della segretezza e da una struttura di tipo gerarchica, ove ciascun membro ricopre un ruolo specifico.
L’ingresso nel cult – come si legge nelle pronunce – avviene mediante appositi riti affiliativi ai quali non è possibile sottrarsi, a meno di subire le efferate violenze punitive dei membri della cosca.
Inoltre, è stato evidenziato come il modus operandi degli appartenenti ai suddetti sodalizi criminali sia contraddistinto dall’utilizzo di atti vessatori a carico dei soli membri della comunità nigeriana, nonché dalla intimidazione, necessaria per ottenere obbedienza e omertà.
L’affermazione del loro potere in capo ai connazionali si estrinseca, altresì, attraverso liti ed aggressioni istaurate per futili motivi, proprio per imporre la supremazia del culto all’interno della comunità stessa.
Le sentenze del Tribunale piemontese e di quello lombardo, infine, hanno accertato come questi cults costituiscano una realtà ben conosciuta tra le comunità nigeriane, e che ciascuna di queste nutre profondo timore di poter essere destinatario delle loro violenze, al punto da evitare di denunciare tali soggetti alle forze dell’ordine.
Con particolare riferimento al cult Black Axe, la giurisprudenza torinese ha, altresì, individuato la presenza di simboli i quali, oltre a costituire simbologia di appartenenza per i relativi membri, rappresentano segni distintivi della cosca criminale stessa.
Più precisamente, trattasi del cappello nero (generalmente un basco) non indossabile da coloro i quali non risultano associati alla cosca, dell’ascia (arma utilizzata per delinquere e dalla quale il cult prende il nome) e del saluto con i polsi incrociati (Cfr. Trib. di Torino, Sent. n. 1945 del 9 ottobre 2007).
A dissipare ogni dubbio circa la natura di associazione criminale di stampo mafioso della consorteria Black Axe è intervenuta la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione.
Ed infatti, i Giudici di legittimità hanno confermato la piena sussistenza di tutti i requisiti qualificanti la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., sia con riferimento alla struttura sia alle modalità operative del gruppo ed, in particolare, in relazione alla forza d’intimidazione derivante dal vincolo associativo, alla condizione di assoggettamento ed omertà che ne consegue e alla gestione e al controllo delle attività economiche.
Il Supremo Collegio, inoltre, ha evidenziato come le condotte criminose poste in essere dai membri dei culti siano tutte accomunante dall’unica finalità di conservare e rafforzare l’imposto predominio socio-territoriale (ambientale) e, con ciò, la vitalità dell’associazione stessa, integrando appieno la fattispecie del reato associativo.
I Giudici delle Cassazione, infine, hanno sottolineato come i “cultisti” in questione “non intendevano certo estendere le loro influenze ai cittadini italiani, ma semplicemente nell’ambito della comunità nigeriana” e che “tali profili non inficiano le regole interpretative accreditate dalla giurisprudenza di legittimità, giacché, in relazione alle loro comunità, i gruppi perseguivano forme di dominio territoriale e la loro implementazione numerica” (Cfr. Cass. Pen. Sez. I, Sent. n. 24803/2010 e Cass. Pen. Sez. I, Sent. n. 16353/2015).
In ordine alla mancanza di volontà da parte dei membri della consorteria nigeriana di estendere le proprie influenze ai cittadini italiani, giova menzionare quanto riscontrato durante la laboriosa fase istruttoria dibattimentale celebrata innanzi al collegio del Tribunale del capoluogo siciliano.
Ed invero si è fatto riferimento ad una conversazione intercettata tra l’allora capo mandamento di Porta Nuova, Giuseppe Di Giacomo, ed il fratello ergastolano Giovanni, nella quale veniva descritto il rispetto che i membri del gruppo nigeriano mostravano nei confronti degli esponenti della consorteria mafiosa locale, con particolare riguardo allo svolgimento dell’attività di cessione degli stupefacenti, confermando l’intento di predominio esclusivamente mirato sui propri connazionali.
Tale ultimo aspetto, allo stato, consente altresì di escludere ogni possibile ipotesi di commistione tra la mafia nigeriana e quella siciliana, rendendo infondato qualsiasi tentativo volto a ricondurre i membri di Black Axe alla manovalanza di Cosa Nostra.
Ed infatti, da quanto sinora emerso nei processi celebratisi, alcuna condotta degli appartenenti alla consorteria nigeriana è riconducibile agli interessi o, comunque, alla mano di Cosa Nostra, la quale continua ad imporsi sul territorio senza subire concorrenza.
Tutto ciò, dunque, consente di affermare come i culti nigeriani costituiscano una realtà criminale di tipo associativo ben salda ed ampiamente diffusa nel nostro paese, paragonabile alle mafie locali, di cui non appare più possibile dubitare, e la cui presenza trova riscontro persino nelle pronunce dei Giudici civili (Cfr. Trib. Milano, I Sez. Civ., Sent. n. 4998/2009) [2].
La diffusione di tali nuovi fenomeni associativi criminali, differenti rispetto alle mafie “storiche” conosciute e ben radicate nel nostro paese comporta profonde e rilevanti riflessioni sotto il profilo probatorio, da cui appare impossibile prender le distanze.
Giova rilevare, infatti, come in ordine alle mafie “tradizionali” non risulti necessario dimostrare di volta in volta il ricorrere degli elementi caratterizzanti la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., essendo ormai ben consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte la sussistenza del carattere della “mafiosità” nelle predette associazioni.
Medesime conclusioni non possono essere tratte per le nuove consorterie, per le quali, al contrario, si rende necessario fornire prova della sussistenza dei presupposti della forza d’intimidazione derivante dal vincolo associativo, della condizione di assoggettamento ed omertà che ne consegue, della gestione e controllo delle attività economiche e di tutto quant’altro occorre ad integrare la fattispecie di associazione di stampo mafioso.
In maniera ancora differente si atteggia l’onere probatorio, allorquando si tratti di un’associazione mafiosa “storica” operante in un determinato, e limitato, ambito storico-geografico del territorio dello Stato, come ad esempio accade quando la ‘ndrangheta svolge la propria attività criminale in regioni del nord Italia.
Orbene, in casi simili, l’onere della prova si presenta meno complesso e laborioso, non essendo necessario dare atto della prova relativa alla capacità intimidatrice o alla condizione di assoggettamento od omertà, essendo sufficiente la dimostrazione dello stretto collegamento tra la struttura mafiosa “decentrata” in altra regione e quella “centrale”, in modo tale che la prima possa operare quale longa manus della seconda.
Risulterebbe, infatti, impensabile che una struttura delocalizzata di un’associazione mafiosa “storica” possa in qualche modo operare con metodi non mafiosi, posto che il sistema mafioso costituisce l’essenza di tali associazioni criminali, mentre l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante viene assicurato dalla fama ottenuta nel tempo dalle stesse consorterie.
Ove, invece, si abbia a che fare con strutture criminali autonome ed originali, che agiscano con metodi criminali propri delle mafie “tradizionali” (ricorso alla forza dell’intimidazione che promana dalle forme criminali associative) – come nel caso delle associazioni straniere – s’impone il concreto accertamento dei presupposti costitutivi la fattispecie di reato di cui all’art. 416 bis c.p., dovendosi dimostrare come l’organizzazione si sia proposta nell’ambiente circostante ed, in particolare, se sia stata in grado di determinare quel clima di soggezione ed omertà, generato dalla manifestazione all’esterno del metodo mafioso (Cfr. Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 3166/2015).
[1] Altro cult nigeriano, contrapposto a quello Black Axe, ma accomunato dallo stesso modus operandi.
[2] Il Tribunale milanese fa riferimento alle associazioni “Black Axe” ed “Eiye” quali organizzazioni criminali di stampo mafioso, responsabili di delitti efferati, radicatesi ed operanti in maniera stabile all’interno del territorio della Repubblica Italiana.
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Giulio Ciappa
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