Brevi cenni sull’evoluzione della disciplina della dirigenza pubblica

Brevi cenni sull’evoluzione della disciplina della dirigenza pubblica

BREVI CENNI SULL’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA DELLA DIRIGENZA PUBBLICA[1]

L’attuale disciplina in materia di dirigenza pubblica esprime il tentativo di coniugare i due poli in tensione della responsabilità ministeriale (art.95 Cost.) e dell’imparzialità (art.97 Cost.). L’assetto regolativo risulta però sbilanciato in favore del primo, con evidente compromissione del sereno e imparziale esercizio delle funzioni dirigenziali.Invero, quella del rapporto tra politica e amministrazione è una questione di non facile soluzione, in ragione, peraltro, di una certa ambiguità della Costituzione sul punto. Questo rapporto si connota infatti per la presenza di intrecci complessi e contraddittori che, attraversando il periodo preunitario, giungono fino ai tempi più recenti. Per comprenderne le dinamiche, se ne offre una ricostruzione in chiave critica.

La legge Cavour 23 marzo 1853, n.1483, costituì un modello di amministrazione centrale dello Stato di tipo gerarchico-piramidale, coniugando il principio di matrice inglese della responsabilità ministeriale, enunciato nella Glorious Revolution, con quello francese dell’accentramento, proprio delle strutture militari. In origine, poche erano le funzioni e quindi pochi i ministeri. La classe politica era costituita da una cerchia esigua di individui e il diritto di voto era esercitato da poco meno del 2% della popolazione, ragion per cui la questione del rapporto tra politica e amministrazione non si poneva. Al contrario, si trattava di relazioni intessute di legami amicali o di parentela, quindi osmotiche, basate sulla comunanza di idee[2].In particolar modo, non esisteva ancora un corpo dirigenziale“[…] in senso proprio, dotato di poteri manageriali, responsabilità, accesso differenziato rispetto alle altre categorie di dipendenti […]”[3]. Era il ministro competente all’emanazione dei provvedimenti amministrativi e su quest’ultimo gravava la relativa responsabilità. Tuttavia, proprio a partire dal periodo dell’Italia unita, iniziò a maturare la consapevolezza che costui non potesse concretamente porre in essere una moltitudine di atti amministrativi. Ne fu prova il disegno di legge del regio decreto n.3306 del 1866[4] il quale, sebbene non convalidato dal Parlamento, prescrisse che, proprio a garanzia del buon andamento dell’amministrazione, i direttori generali risolvessero definitivamente gli affari di loro competenza[5].

In seguito all’entrata in vigore della Costituzione, il sistema rimase fortemente ancorato al principio della responsabilità ministeriale (art.95 Cost.)[6]. Fu necessario attendere il decreto del Presidente della Repubblica n. 748 del 1972[7] per l’istituzione della dirigenza dello Stato, da qui in poi prendendo avvio la successiva evoluzione normativa. Fu enunciato il principio della distinzione tra politica e amministrazione, pur se timidamente e in un modello ancora gerarchicamente conformato. Al ministro spettava infatti l’emanazione delle direttive generali[8], mentre la dirigenza era articolata nelle tre qualifiche di primo dirigente, dirigente superiore e dirigente generale. Ciascuna di esse era riconosciuta competente all’adozione di atti amministrativi, di natura parzialmente o interamente vincolata, in base a specifiche soglie di importo economico[9].  Al termine di ogni esercizio, si riferiva al consiglio di amministrazione sul modo in cui era stata svolta l’azione amministrativa, con particolare riguardo ai risultati concretamente ottenuti[10].Si trattò tuttavia di mere enunciazioni di principio, la disciplina difettando su più aspetti. In primo luogo, in capo al ministro permaneva la competenza all’adozione dei provvedimenti amministrativi più rilevanti, potendo in aggiunta esercitare i poteri di revoca, riforma, annullamento, avocazione e riserva preventiva degli atti dei dirigenti[11]. In secondo luogo, mancava una classe dirigenziale, che potesse interloquire, come corpus iunctum, con la politica. Ciascun dirigente era infatti legittimato a porre in essere atti amministrativi fino a un massimo determinato di importo economico, superato il quale la competenza slittava in capo al dirigente immediatamente sovraordinato, tendenza questa che si accentuò con il fenomeno inflattivo. I tre spezzoni della dirigenza concorrevano quindi tra loro. In terzo luogo, il ministro non solo non rinunciava a intromettersi nella gestione, ma neppure dettava gli indirizzi dell’attività amministrativa, altrimenti vincolandosi in ordine a una eventuale revoca di atti dei dirigenti.  Per converso, questi ultimi erano riluttanti all’assunzione di responsabilità e quindi temevano di incorrere nelle misure sanzionatorie previste dalla normativa[12].Si realizzò così quello che Cassese definì il perverso meccanismo dello scambio tra potere e sicurezza, il pactum sceleris[13]. Da un lato, il vertice politico non emanò direttive, con ciò avendo campo libero sulla gestione, potendovi intervenire anche a mezzo di revoca degli atti dirigenziali. I dirigenti, in contropartita, pur se ridotti in stato di subalternità, rinunciando all’attività gestoria e quindi al vantaggio incerto dell’autonomia, ottennero quello certo della stabilità del posto, pur con bassa retribuzione. Non avrebbero infatti risposto di eventuali provvedimenti in contrasto, in assenza della previa definizione di un indirizzo.

In seguito, a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90[14], i ministri della funzione pubblica succedutisi hanno tentato di porre mano alla materia, sino a giungere al Governo Amato, con il quale sono state varate specifiche misure di razionalizzazione nei grandi comparti della spesa pubblica, tra cui il pubblico impiego. In particolar modo, in attuazione dell’art.2 della legge delega n.421 del 1992[15], è stato emanato il decreto legislativo n.29 del 1993[16], nel quale, per la prima volta, la disciplina della dirigenza è confluita assieme a quella del pubblico impiego, in vista della strutturazione di una organizzazione imprenditoriale pubblica[17]. Al regime pubblicistico è stato sostituito quello del rapporto di lavoro privatizzato, eccezion fatta per specifiche categorie di personale e per i dirigenti generali[18]. Le tre qualifiche del d.p.r.  n.748/1972 sono state ridotte a due, rispettivamente articolate in quella di dirigente di base e dirigente generale, proprio in vista dell’applicazione dei due regimi: da un lato, quello del rapporto di lavoro privatizzato, dall’altro, quello del pubblico impiego. Il sistema di accesso alla dirigenza (tuttora vigente) è stato formalizzato nei due canali del corso-concorso, bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione (SSPA, ora Scuola nazionale dell’amministrazione, SNA), e concorso per titoli ed esami, indetto dalle singole amministrazioni[19]. È stato inoltre previsto che il conferimento degli incarichi dirigenziali avvenga, ex multis, in relazione ai risultati conseguiti[20]. Il principio della distinzione tra politica e amministrazione è stato enunciato, sul piano delle funzioni, all’art.3 del d.lgs. n.29/1993, individuando un insieme specifico di attribuzioni, di cui il dirigente è responsabile “in via esclusiva”.  Contestualmente è venuto meno il potere di avocazione del ministro, eccettuate le ipotesi, di cui all’art.14, comma 3, del decreto[21]. La riforma ha però rivelato non poche difficoltà in termini attuativi. Primariamente, in un sistema incentrato sulla netta distinzione delle competenze[22], appare cruciale il ruolo svolto dai nuclei o servizi di controllo interno (SECIN), in ordine alla verifica dell’osservanza delle direttive e del raggiungimento degli obiettivi ivi indicati. Al contrario, non solo i SECIN sono stati costituiti tardivamente, ma sono stati nominati, in veste di componenti, esperti in materie giuridiche, estranei perciò alla conduzione delle attività di valutazione normativamente attribuite[23]. Secondariamente, il vertice politico ha esercitato, anche se impropriamente, poteri di avocazione, con beneplacito dei dirigenti, la cui autonomia gestionale, proclamata sulla carta, tale è rimasta, a causa della mancata determinazione di budget funzionali di spesa e di un sistema di contabilità analitica, ripartita per centri di costo[24].

Successivamente, le innovazioni legislative degli anni ’97 e ’98 (la cosiddetta “seconda privatizzazione”[25]) hanno completato sul piano strutturale la contrattualizzazione della dirigenza, così estesa anche ai dirigenti generali, originariamente esclusi. Innanzitutto, la qualifica dirigenziale (dalle due del ’93) è stata condotta ad unità e articolata in due fasce, prima e seconda, funzionali quindi all’attribuzione degli incarichi[26]. È stato poi determinato un periodo minimo e massimo di durata dell’incarico, con contestuale previsione della facoltà di rinnovo[27]. Infine, è stata regolata la cessazione del rapporto di ufficio e di servizio in base a livelli graduati di gravità delle violazioni poste in essere, ivi disciplinandola costituzione di un comitato di garanti, con funzione di espressione di parere conforme nei casi di “grave inosservanza delle direttive”, “risultati negativi” e in quelli di “maggiore gravità”[28]. In particolar modo, in attuazione della legge delega n.59 del 1997[29], sono stati emanati i decreti legislativi n. 80 del 1998[30] e n.387 del 1998[31]. In primo luogo, ai fini dell’accesso alla qualifica dirigenziale, la riforma del ’98 ha confermato unicamente il canale del concorso per titoli ed esami, bandito dalle singole amministrazioni. In secondo luogo, unitamente all’articolazione delle funzioni dirigenziali in tre tipologie, collocate in ordine decrescente di rilevanza e coesione con l’organo politico, è stata prevista la possibilità di conferire, con contratto a tempo determinato, a soggetti esterni all’amministrazione alcuni dei predetti incarichi, in base a limiti percentuali, previo possesso dei requisiti di comprovata qualificazione professionale[32]. In terzo luogo, è stato istituito il ruolo unico della dirigenza dello Stato presso la Presidenza del Consiglio dei ministri[33], successivamente soppresso[34]. La novella legislativa però ha restaurato le condizioni di una nuova soggezione della dirigenza alla politica[35]. Infatti, la riforma del’98 ha introdotto un modello “spurio” di spoils system, incentrato sulla temporaneità dell’incarico (pur controbilanciata dalla continuità del rapporto di servizio), sul potere di nomina, da parte del vertice politico, degli incarichi dirigenziali apicali e sull’assenza di un onere motivazionale, nei casi di mancata conferma del rapporto d’ufficio, una volta cessato.

Il quadro normativo così descritto è da ultimo confluito nel d.lgs. n.165/2001, con il quale è stata “[…] formalmente riordinata e riunificata l’intera disciplina emanata nel corso delle prime due fasi della riforma […] e su cui sono stati effettuati tutti gli interventi modificativi ed integrativi avvenuti nelle successive tre fasi […]”[36].

In seguito, con la legge n.145 del 2002[37] (legge Frattini) sono stati posti in essere specifici interventi in materia di reclutamento, ruolo dei dirigenti, conferimento, durata e cessazione dell’incarico. Per quel che attiene il primo aspetto, è stato ripristinato il meccanismo di accesso a mezzo del corso-concorso della SSPA, quindi confermando l’originario assetto duale del sistema di reclutamento del ’93. Con riferimento al secondo punto, è stato soppresso il ruolo unico della dirigenza presso la Presidenza del Consiglio e costituito invece il ruolo dei dirigenti presso ciascuna amministrazione dello Stato. Con riguardo al conferimento, sono state innalzate le percentuali di assegnazione di uffici dirigenziali di livello generale a dirigenti di base e incrementate quelle di assegnazione di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, con contratto a tempo determinato. Limitatamente alla durata, il termine massimo dell’incarico è stato ridotto a tre e cinque anni, in ragione della tipologia di incarico[38], e contestualmente eliminato il termine minimo[39] (riconfigurato in tre anni dalla novella del 2005, che ha inoltre fissato quello massimo a cinque[40]). In ultimo, per quel che attiene il rapporto di ufficio, sono stati previsti peculiari meccanismi di cessazione degli incarichi dirigenziali di livello generale e non generale[41]. L’effetto complessivo della novella del 2002 è stato quello di accentuare la precarizzazione e fidelizzazione della dirigenza.

Infine, in attuazione della legge delega n.15 del 2009[42], è stato adottato il decreto legislativo n.150 del 2009[43], con il quale è stata regolata anche la materia relativa alla valutazione della performance[44]. Per quel che riguarda specificamente la dirigenza dello Stato, l’art.37 del d.lgs. n.150/2009 enuncia, tra le finalità della disciplina, il rafforzamento del principio della distinzione, la regolazione del rapporto tra organi di vertice e titolari di incarichi apicali, il rispetto della giurisprudenza costituzionale in materia di rimozione dei dirigenti e modalità di tutela di questi, ove illegittimamente rimossi. La normativa risulta però ampiamente inadeguata alla definizione di un progetto compiuto e coerente di riordino della materia[45]. Se ne segnalano le principali lacune. In primo luogo, non è affrontato il problema relativo alla delimitazione dell’area della fiduciarietà, distinguendo tra le figure dirigenziali che svolgono attività di gestione ammnistrativa e quelle, invece, che sono legate al decisore politico da una relazione fiduciaria[46]. In secondo, non è valorizzato il corso-concorso come canale ordinario di accesso alla qualifica dirigenziale. In terzo luogo, rimangono invariate le percentuali di conferimento di incarichi dirigenziali ai soggetti esterni, pur la l. n.15/2009 prevedendone una riduzione.

I nodi problematici dell’assetto regolativo sulla dirigenza hanno quindi ispirato i successivi interventi legislativi[47], da ultimo la legge delega n.124 del 2015[48](o legge Madia). Le vicende posteriori alla sentenza della Corte costituzionale, la251 del 2016[49], sono a tutti note[50]. Nel mentre che l’esecutivo trasmetteva lo schema di decreto al Presidente della Repubblica, la decisione della Consulta veniva depositata in segreteria, “travolgendolo”[51]. Si approda così con il d.lgs. n.150/2009 all’ultimo tentativo di riforma andato in porto, non senza sperare nella riuscita di un futuro intervento, ma con un interrogativo: alla luce delle censure formulate dalla Corte, sarà davvero possibile riformare la dirigenza?


[1] L’ambito di analisi è circoscritto alla dirigenza dello Stato.

[2] S. Cassese, “Il sistema amministrativo italiano”, Il Mulino, Bologna,1983.

[3]V. Talamo, “Per una dirigenza pubblica riformata (contro lo spoils system all’italiana)”, p.2, in C. Dell’Aringa e G. Della Rocca, (a cura di), “Pubblici dipendenti. Una nuova riforma?”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007.

[4] Disegno di legge di convalidazione del r.d. 24 ottobre 1866, n.3306, “Riordinamento degli uffici dell’amministrazione centrale dello Stato”. Nella relazione di accompagnamento, si constatò che “[…] si è voluto fingere che [gli atti] siano fatti dal ministro, mentre che realmente non possono essere […]”.

[5] Si trattava di atti per i quali non era prevista “[…] l’approvazione ministeriale e quelli la cui approvazione può per legge o regolamento essere delegata dal ministro […]”. Cfr. art.3, comma 2, del r.d. n.3066/1866, salvo la facoltà di reclamo al ministro, a cui i direttori generali avrebbero dovuto rispondere per ogni atto della loro amministrazione.

[6]Fu però riconosciuta la competenza dei direttori generali in ordine all’adozione degli atti vincolati. Così, art.155 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n.3, “Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”.

19D.p.r. 30 giugno 1972, n.748, “Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo”.

[8] Art.3 del d.p.r. n.748/1972.

[9]Artt.2, 4, 5 e 6 del d.p.r. n.748/1972. Il nuovo corpo non fu concepito come unitario e l’apparato pubblico era composto di corpi separati, feudi. Così, S. Cassese, “La nuova sfida dei dirigenti pubblici”, in Opinioni, Corriere della Sera, 31 agosto 2016.

[10] Art.17 del d.p.r. n.748/1972.

[11]L. Busico, V. Tenore, “La dirigenza pubblica. Reclutamento. Rapporto di lavoro. Diritti e doveri. Incarichi. Responsabilità. Controversie. CCNL 2006/2009. Normative giurisprudenza e dottrina”, EPC Editore, Roma, 2009.

[12]Per una ricognizione delle misure sanzionatorie previste, v. art.19 del d.p.r. n.748/1972, in materia di responsabilità per l’esercizio delle funzioni dirigenziali.

[13] S. Cassese, “Grandezza e miserie dell’alta burocrazia in Italia”, in Pol. dir., 1981, p.220. S. Cassese, “Il sistema amministrativo italiano”, cit.

[14]Peraltro, proprio con l’art.51 della legge 8 giugno 1990, n.142, “Ordinamento delle autonomie locali”, viene istituita la qualifica dirigenziale presso gli enti locali.

[15] L.d. 23 ottobre 1992, n.421, “Delega al governo per la razionalizzazione e revisione della disciplina in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”.

[16]D.lgs. 3 febbraio 1993, n.29, “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art.2 della legge 23 ottobre 1992, n.421”.

[17]Carinci parla di fictio iuris necessaria, perché “[…] senza la figura di un datore di lavoro pubblico non era possibile impostare neppure concettualmente la privatizzazione […] proprio perché finzione […] doveva […]comportare una debolezza intrinseca […]”. F. Carinci, “La privatizzazione del pubblico impiego alla prova del terzo Governo Berlusconi: dalla l. n. 133/2008 alla l.d. n. 15/2009”, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 88-2009, p.28.

[18]V. art.2, comma 4, del d.lgs. n.29/1993. Attualmente, rimangono disciplinate dai rispettivi ordinamenti le categorie, di cui all’art.3 del d.lgs. n.165/2001

[19]Art.28 del d.lgs. n.29/1993.

[20]Art.19 del d.lgs. n.29/1993. Fondamentale è il ruolo dei SECIN, di cui a breve si dirà.

[21]“[…]Gli atti di competenza dirigenziale non sono soggetti ad avocazione da parte del ministro, se non per particolari motivi di necessità e urgenza specificamente indicati nel provvedimento di avocazione[…]”. Art.14, comma 3, del d.lgs. n.29/1993.

[22]Pur essendo errato configurare la posizione della dirigenza come rigidamente separata da quella del vertice politico, sostiene D’Alessio. Le due funzioni sono complementari ed implicano “[…]momenti di raccordo indispensabile e forme di indispensabile collaborazione, nel rispetto dei rispettivi ruoli ed evitando ingerenze e prevaricazioni[…]”. G. D’Alessio, “Dirigenza pubblica”, voce, in Diritto on line, Treccani, 2012, in www.treccani.it.

[23]Peraltro, il limitato impegno del vertice politico in ordine alla determinazione degli obiettivi, in sede di predisposizione della direttiva annuale sull’azione amministrativa, osta alla conduzione delle attività di controllo dei risultati. Sulla rilevanza della medesima, d.p.c.m. 15 novembre 2001, “Indirizzi per la predisposizione della direttiva generale dei Ministri sull’attività amministrativa e sulla gestione per l’anno 2002”.

[24]L’autonomia “senza portafoglio”. Così V. Talamo, “Le funzioni, le competenze, i poteri e le attribuzioni della dirigenza pubblica”, in F. Carinci e L. Zoppoli (a cura di), “Commentario sul lavoro pubblico”, UTET, 2004.

[25]M. D’Antona, “Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle leggi Bassanini”, in Lav. pubbl. amm., 1995,1, p.48.

[26]L’attuale formulazione del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165(“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) lasciaperò intendere l’esistenza di due qualifiche dirigenziali distinte. Gli artt.28 e 28-bis, infatti, recano rispettivamente le rubricazioni “Accesso alla qualifica dirigenziale di seconda fascia” e “Accesso alla qualifica dirigenziale di prima fascia”.

[27]Non inferiore ai due anni e non superiore ai sette, definito contrattualmente, unitamente all’oggetto e agli obiettivi, ai sensi dell’art.19, comma 2, del d.lgs. n.93/1993, così come modificato dall’art.13, comma 1, del d.lgs. n.80/1998. Alla stabilità del rapporto di servizio funge da contrappeso la temporaneità del rapporto di ufficio. Così, L. Saltari, “I profili strutturali: la nomina dei dirigenti”, p.84, in S. Battini, L. Fiorentino (a cura di), “Venti anni di politica e amministrazione in Italia”, IRPA Working Paper – Policy Papers Series, 2014, 1.

[28] Art.21 del d.lgs. n.29/1993, come sostituito dall’art.14 del d.lgs. n.80/1998. Prima della novella del’98, la disciplina sulla responsabilità dirigenziale era contenuta nell’art.20 del d.lgs. n.29/1993, il comma quarto della disposizione regolando il collocamento in disponibilità del dirigente nei casi di inosservanza delle direttive generali e di risultato negativo della gestione.

[29]Legge 15 marzo 1997, n.59, “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti Locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione ammnistrativa”.

[30]D.lgs. 31 marzo 1998, n.80, “Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione ammnistrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n.59”.

[31]D.lgs. 29 ottobre 1998, n.387, “Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.80”.

[32]Nella specie, l’art.19, comma 6, del d.lgs. n.29/1993, come modificato dall’art.13, comma 1, del d.lgs. n.80/1998.

[33] Art.23 del d.lgs. n.29/1993, così come modificato dal d.lgs. n.80/1998

[34] Attualmente, infatti, il ruolo dei dirigenti è costituito presso ciascuna amministrazione dello Stato, anche a ordinamento autonomo.

[35]V.Talamo, “Per una dirigenza pubblica riformata (contro lo spoils system all’italiana)”, p.9, cit.

[36] U. Carabelli, M.T. Carinci, “Il lavoro pubblico in Italia”, Cacucci Editore, Bari, 2012, p.41.

[37]Legge 15 luglio 2002, n.145, “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato”. Definita come “controriforma” della dirigenza. Sul punto, C. Colapietro, “La controriforma del rapporto di lavoro della dirigenza pubblica (l.15 luglio 2002, n.145)”, in Nuove leggi civ., 2002, 4-5, p.646.

[38]L’art.13, comma 1, del d.lgs. n.80/1998 aveva disposto che gli incarichi avessero durata non inferiore a due anni e non superiore a sette. L’art.3 della l. n.145/2002 dispone invece che “[…]la durata non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque[…]”.

[39] La legge Frattini ha inoltre rimesso al provvedimento di conferimento dell’incarico oggetto, obiettivi e durata del medesimo. Al contratto, invece, a definizione consensuale, ha affidato la determinazione del corrispondente trattamento economico.

[40] Art.14-sexies del decreto legge 30 giugno 2005, n.115, convertito con modificazione in legge 17 agosto 2005, n.168, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 giugno 2005, n.115, recante disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori delle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di organico del personale della carriera diplomatica, delega al Governo per l’attuazione della direttiva 2000/53/CE in materia di veicoli fuori uso e proroghe di termini per l’esercizio di deleghe legislative”. Il sistema di durata, disciplinato dalla novella del 2005, è tuttora vigente.

[41]V. art.3 della l. n.145/2002.

[42]Legge 4 marzo 2009, n.15, “Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei Conti”.

[43]D.lgs. 27 ottobre 2009, n.150 “Attuazione della legge 4 marzo 2009, n.15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”. Con esso è abrogato l’art.5 del decreto legislativo n.286 del 1999.

[44] Cruciale questa per un triplice ordine di ragioni: in ragione delle attività di conferimento degli incarichi, dell’erogazione della retribuzione di risultato e dell’irrogazione delle misure sanzionatorie nei casi di responsabilità dirigenziale.

[45]G. D’Alessio, “Legge Brunetta: il disegno della dirigenza”, p.5, relazione al convegno “Lavoro pubblico. Ritorno al passato? A proposito della legge delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e sulla contrattazione”, CGIL, Roma, 16 febbraio 2009, in www.astrid.it.

[46] Nell’area della fiduciarietà, è possibile operare una ulteriore distinzione. Da un lato, vi sono infatti i dirigenti degli uffici di diretta collaborazione, più strettamente legati al vertice politico e perciò rimovibili in qualunque momento. Dall’altro, figurano invece i dirigenti collocati in una posizione di snodo tra la politica e l’amministrazione (nei ministeri, i segretari generali e i capi dipartimento), il cui incarico cessa per effetto dei meccanismi di spoils system.

[47]Alcuni di questi poco felici. In particolare, si considerino le disposizioni deteriori, di cui all’art.9, comma 32, del d.l. n.78/2010 e all’art.1, comma 18, del d.l. n.138/2011, rispettivamente sulla mancata conferma del rapporto d’ufficio e sulla recedibilità ante tempus dall’incarico.

[48] Legge 7 agosto 2015, n.124, “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni”. L’art.11 ha delegato l’esecutivo all’adozione di uno o più decreti legislativi in materia di dirigenza pubblica. In attuazione, è stato emanato l’atto di Governo n.328 (A.G. n.328), “Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica”.

[49] Corte costituzionale 25 novembre 2016, n.251

[50] V. A. Poggi, G.Boggero, “Non si può riformare la p.a. senza intesa con gli enti territoriali: la Corte costituzionaleancora una volta dinanzi a un Titolo V incompiuto. Nota alla sentenza n.251/2016”, in
www.federalismi.it, p.2.

[51] La sentenza manipolativa si è nei fatti tradotta in un accoglimento secco. Sul punto, J. Marshall, “La Corte costituzionale, senzaaccorgersene modifica la forma di Stato?”, in Giorn. dir. amm., 2016, 6, p.705.


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Cristiana Iannitti

Senato della Repubblica, Autorità Nazionale Anticorruzione, Nucleo valutazione e verifica degli investimenti pubblici presso Ministero dell'Interno. Dottore nel Master interuniversitario di II livello in Diritto Amministrativo (Presidenza del Consiglio, SNA); laureata magistrale con lode in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni; laureata triennale con lode in Pubblica Amministrazione

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