Brevi considerazioni in tema di responsabilità amministrativo-contabile
La responsabilità amministrativo-contabile si configura qualora il dipendente pubblico (o soggetto legato alla p.a. da rapporto di servizio), per inosservanza dolosa o (gravemente) colposa dei propri obblighi di servizio, provochi un danno alla propria amministrazione o ad altro ente pubblico. Tale tipo di responsabilità trova oggi la sua unitaria e fondamentale disciplina, sostanziale e processuale, nelle leggi 14 gennaio 1994 nn. 19 e 20, come novellate dalla legge n. 639/96 e s.m.i., che hanno apportato significative modifiche alla materia, nonché al funzionamento del giudice di tale responsabilità, ovvero la Corte dei Conti.
Alla stregua della definizione che se ne è data, pertanto, possono individuarsi, come è noto, 5 elementi costitutivi della responsabilità in esame, che di seguito si passeranno brevemente in rassegna: il rapporto di servizio tra danneggiante ed ente pubblico, la condotta illecita, l’elemento soggettivo, il danno ed il nesso di causalità.
Orbene, quanto al primo aspetto, si richiede anzitutto che il danneggiato sia un “ente pubblico” (in senso lato) e che ad esso il danneggiante sia legato da un “rapporto di servizio”: tale fattispecie, invero, ricorre non solo in presenza di un rapporto di pubblico impiego in senso stretto, ma anche quando un soggetto venga inserito a qualsiasi titolo (volontario, coattivo, onorario o impiegatizio) nell’apparato organizzativo pubblico e venga investito, sia autoritativamente che convenzionalmente, dello svolgimento in modo continuativo di un’attività retta da regole proprie dell’azione amministrativa, così da essere partecipe dell’attività amministrativa (in tal senso, Cass. Sez. Un., n. 1472/03).
Venendo alla seconda componente strutturale dell’istituto in esame, cioè la condotta, occorre in primo luogo ricordare che la responsabilità amministrativa va desunta da condotte illecite (commissive e/o omissive) dei dipendenti pubblici e non necessariamente da atti illegittimi posti in essere dagli stessi. Ciò che assume rilevanza è, dunque, la violazione dei doveri di ufficio e l’inadempimento di obblighi di gestione, giacchè la semplice illegittimità dell’atto può essere un mero indice sintomatico della illiceità di una condotta dannosa. Va, peraltro, considerato che la cognizione della Corte dei Conti in tema di responsabilità amm.va non è limitata alle sole condotte contra legem, ma si estende anche a quelle formalmente conformi alla normativa, ma egualmente non convenienti o irrazionali alla luce di parametri desunti dalla comune esperienza amministrativa.
Sempre in ordine all’elemento strutturale «condotta», occorre rimarcare il principio di insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, sancito dal novellato art. 1, co. 1, l. 20/94: sul punto, è intervenuta anche la Cassazione a Sezioni Unite, che ha autorevolmente chiarito che la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici perseguiti dall’ente, ma, una volta accertata tale compatibilità, non può estendere il suo sindacato al dettaglio dell’iniziativa intrapresa dal pubblico amministratore, la quale rientra nell’ambito di quelle scelte discrezionali di cui la legge stabilisce l’insindacabilità, salvo il caso di palese estraneità dei mezzi scelti dalla P. A. rispetto ai fini perseguiti (Cass. Sez. Un., n. 33/01).
In merito all’elemento soggettivo, va detto che la responsabilità in esame, oltre ad essere personale, è limitata ai soli casi di dolo o colpa grave dell’agente, ai sensi dell’art. 1, l. 20/94, come modificato dal legislatore del 1996: ovviamente, le ipotesi di condotta dolosa sono connotate da un maggior disvalore di azione ed è per questo che, in tali casi, non si applica il potere di riduzione dell’addebito di cui la Corte dei Conti può far uso negli altri casi (ex plurimis, Corte Conti, sez. Lombardia, n. 1478/03), oltre al fatto che tutti gli agenti dolosi, contrariamente alla regola generale della condanna parziaria dei concorrenti, rispondono invece solidalmente delle conseguenze dannose del fatto collettivo (art. 1, co. 1 quinquies, l. 20/94).
Quanto all’elemento del danno, poi, esso è innanzitutto rappresentato da una lesione patrimoniale, effettiva ed ingiusta (contra jus), patita dall’amm.ne, anche se la giurisprudenza della Corte dei Conti è andata oltre, estendendo nel tempo la propria cognizione anche ai casi di danni non patrimoniali, quelli, cioè, arrecati ad interessi generali di tutti i membri della collettività, come accade in materia di ambiente e paesaggio. Il danno patito dall’amm.ne, oltre che diretto, può essere anche indiretto, quando cioè essa abbia dovuto risarcire ai terzi pregiudizi provocati dai propri agenti: in tal caso, invero, è obbligatoria l’azione di rivalsa pubblica nei confronti degli autori del danno (art. 22, DPR n. 3/57). Il pregiudizio risarcibile, inoltre, comprenderà tanto la perdita subita (danno emergente), quanto il mancato guadagno (lucro cessante): vale, poi, in materia il principio della compensatio lucri cum damno, secondo cui nel giudizio di responsabilità si deve tener conto anche dei vantaggi conseguiti dall’amministrazione in relazione al comportamento del danneggiante (art. 1, co. 1 bis, l. 20/94).
Tra le figure di danno, una speciale menzione merita quello arrecato dai dipendenti all’immagine della p. a., concepito come pregiudizio all’onore, al decoro, alla reputazione dell’amministrazione, suscettibile di incidere negativamente sul rapporto tra quest’ultima e gli amministrati. Tale tipo di pregiudizio, dopo un’iniziale elaborazione giurisprudenziale, ha visto anche l’intervento del legislatore, che, non senza critiche di dottrina e giurisprudenza, ne ha limitato la risarcibilità, oltre che in presenza di tassative fattispecie normativamente previste (ad es., art. 55 quinquies, co. 2, d.lgs 165/01), ai soli casi in cui esso consegua a sentenze irrevocabili accertative di reati contro la P. A.: in tali casi, invero, l’entità del danno patito dalla P. A. si presume, sino a prova contraria, pari al doppio del vantaggio illecitamente conseguito dall’agente (art. 1, co. 1 sexies, l. 20/94).
Sul piano della causalità, infine, è richiesto che tra il comportamento dell’agente e l’evento dannoso debba esservi un rapporto apprezzabile alla stregua dei parametri della regolarità causale, nel senso che il pregiudizio debba essere conseguenza “normale” della condotta illecita, secondo l’id quod plerumque accidit.
Una speciale forma di responsabilità amministrativa, invece, è rappresentata da quella “contabile”, che riguarda i c. d. “agenti contabili”, i pubblici dipendenti, cioè, che si trovano ad avere la disponibilità di denaro o di altri valori pubblici per lo svolgimento di particolari compiti, normalmente consistenti nella riscossione delle entrate, nel pagamento delle obbligazioni della P. A. o nella custodia dei suoi beni (art.74, r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, c.d. l. cont. gen. St.; art. 178, r.d. 23 maggio 1924, n. 827, reg.cont. gen. St.). Tali soggetti sono tenuti per legge a presentare il conto della propria gestione alla Corte dei Conti, secondo un procedimento ben preciso, nel corso del quale spetta all’agente dimostrare che eventuali ammanchi, relativi a beni e/o valori custoditi o gestiti, non siano riconducibili a proprie condotte viziate da dolo o colpa grave, ovvero siano dovuti a caso fortuito o forza maggiore (artt. 33 e 194, r.d. 23 maggio 1924, n. 827).
Merita, a questo punto, un cenno più specifico la tematica dell’estensione (soggettiva) della giurisdizione della Corte dei Conti, la quale oltre ad essere il risultato di interventi normativi del legislatore che traggono fondamento dall’art. 103 Cost., rappresenta l’esito di un’elaborazione giurisprudenziale che ha nel tempo ampliato la sfera delle attribuzioni del Giudice contabile: la questione, in particolare, si è posta per l’irregolare utilizzazione di risorse pubbliche da parte di amministratori e dipendenti di e.p.e. e di società a partecipazione pubblica, se cioè le relative ipotesi di responsabilità rientrino nella giurisdizione ordinaria, ovvero in quella della Corte dei Conti.
In linea, come detto, con una tendenza alla crescente estensione soggettiva della giurisdizione contabile (ad opera di legislatore e giurisprudenza), a partire dagli anni 2003/2004 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sconfessando un proprio precedente indirizzo di segno opposto, ebbero a statuire la giurisdizione contabile su amministratori e dipendenti di enti pubblici economici (ord. n. 19667/2003), nonchè sugli amministratori di società a partecipazione pubblica legate all’Amministrazione da rapporto di servizio (sent. n. 3899/2004), affermando, in entrambi i casi, la sostanziale irrilevanza dello strumento, privatistico o pubblicistico, utilizzato dalla P. A. per lo svolgimento di funzioni istituzionali, ai fini dell’individuazione del soggetto dotato del potere di jus dicere (in entrambi i casi, la Corte dei Conti).
Detto indirizzo interpretativo, tuttavia, vide un brusco revirement nel 2009, quando le medesime Sezioni Unite (sent. n. 26806/09), riportarono la responsabilità degli amministratori delle società partecipate nell’alveo della giurisdizione del g. o., sulla base dell’assunto che i conferimenti pubblici fossero di per sè insuscettibili di far perdere a tali enti la loro natura privata, dovendo la P. A. partecipante conformarsi alle regole della forma giuridica prescelta: in simili fattispecie, secondo questa giurisprudenza, si sarebbe potuto perseguire la responsabilità dei predetti organi nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in genere, unicamente ai sensi degli artt. 2392 e segg. del codice civile, al pari di quanto accade per gli organi di controllo di qualsivoglia altra società privata. La giurisdizione contabile, viceversa, sarebbe venuta in rilievo unicamente in ipotesi di danni cagionati dagli amministratori predetti direttamente nei confronti di singoli soci o terzi (si pensi, ad esempio, al danno all’immagine arrecato direttamente all’ente pubblico), ovvero nei casi in cui il rappresentante dell’ente partecipante (o titolare del potere decisionale), omettendo colpevolmente di esercitare i propri diritti di socio, avesse in tal modo pregiudicato il valore della partecipazione.
Un ulteriore sviluppo interpretativo in materia si è registrato, poi, nel 2013, quando gli ermellini (Cass., Sez. Un., n. 26283/13) hanno ricondotto alla giurisdizione della Corte dei Conti la responsabilità degli amministratori di società destinatarie di affidamento in house di servizi pubblici, sulla base dell’assunto che il danno inferto dagli stessi al patrimonio della società affidataria sia arrecato ad un patrimonio separato, ma pur sempre riconducibile all’ente pubblico, in ragione della nota assenza di alterità tra P. A. affidante ed organismo in house; specularmente, in altra occasione, la medesima Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare la giurisdizione del g.o. in ipotesi di società totalmente partecipata dall’ente pubblico, ma priva dei requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la configurazione dell’in house providing (ord. 5848/15), posizione, peraltro, ulteriormente ribadita negli ultimi arresti della Suprema Corte (ord. n. 7293/2016).
Da ultimo, viene in rilievo un recente indirizzo interpretativo della sezione d’appello della Corte dei Conti, che ha riaffermato la propria giurisdizione in materia di società totalmente partecipate da un ente pubblico, anche in assenza degli estremi per l’affidamento in house (Corte Conti, sez. app., n. 178/15), ovvero nel caso di una holding partecipata pressoché totalitariamente da un Comune (Corte Conti, sez. app., n. 249/15), in ciò collocandosi in posizione antitetica rispetto alla coeva giurisprudenza di Cassazione testè passata in rassegna .
Quanto innanzi analizzato con riferimento ai cennati indirizzi giurisprudenziali va, peraltro, posto a confronto con il T. U. in materia di società partecipate, di cui al D. Lgs. 175/2016, che, all’art. 1, co. 3, ribadisce la collocazione sistematica delle società a partecipazione pubblica nell’ambito della disciplina privatistica (salvo espresse deroghe) e che, in particolare all’art. 12, sancisce la sottoposizione degli organi di amministrazione e di controllo delle società partecipate “alle azioni civili di responsabilita’ previste dalla disciplina ordinaria delle societa’ di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle societa’ in house”.
Sembra, in altri termini, essere stato normativamente recepito il punto di approdo di quella (recente) giurisprudenza di Cassazione, di cui si è innanzi riferito, che ha circoscritto l’ambito di operatività della giurisdizione contabile alle sole fattispecie di responsabilità degli organi di amministrazione di società a partecipazione pubblica per le quali ricorrano i requisiti dell’in house providing, con una soluzione che, invero, appare un apprezzabile punto di equilibrio tra l’esigenza di una non eccessiva dilatazione della sfera d’azione giurisdizionale della Corte dei Conti e la necessità di un efficace controllo circa la gestione di risorse impiegate da soggetti la cui titolarità patrimoniale è, in ogni caso, pubblica: in altri termini, la ratio della riconduzione alla giurisdizione contabile delle ipotesi di in house providing, è individuabile nella pertinenza della lesione inferta dagli amministratori dell’affidataria ad un patrimonio che, ancorché formalmente separato, risulta comunque riconducibile alla titolarità dell’ente pubblico, difettando, come è noto, la società in house di quel requisito di autonomia decisionale che, solo, varrebbe a qualificarla come soggetto realmente “altro” rispetto alla P. A. affidante ed al potere gerarchico da quest’ultima esercitato.
Né l’opzione normativa in commento appare suscettibile di essere messa in discussione alla stregua della possibilità, riconosciuta dall’art. 5, co. 1, lett. c) del nuovo Codice dei Contratti Pubblici, della partecipazione di capitali privati all’organismo in house: detta partecipazione dei privati, infatti, oltre ad essere residuale ed ammessa in casi eccezionali, è comunque possibile a patto che non comporti un influenza determinante sulla persona giuridica partecipata, mediante l’esercizio di poteri di controllo e/o veto, che risulterebbero, viceversa, inammissibili, ove non riconducibili all’ente pubblico affidante, unico soggetto a cui pertiene per legge il controllo sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della persona giuridica affidataria (art. 5, co. 2, d. lgs. 50/2016).
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Corrado Pintaldi
Avvocato, attualmente funzionario ispettivo dell'INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro), si è laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II", in data 27.06.2002, discutendo una tesi in Diritto Civile (titolo "La condizione unilaterale" - rel. Ch.mo Prof. Biagio Grasso), con valutazione 110/110 e lode e plauso della commissione esaminatrice. Ha conseguito il Diploma di Specializzazione per le Professioni Legali, sempre presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II", in data 06.07.2004. Dal 2008 al 2013 ha frequentato diversi corsi di formazione post-universitaria, tenutisi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano Statale, vertenti in materia di Diritto Sportivo e Giustizia Sportiva e in materia di Diritto del Lavoro. Presso la Facoltà di Giurisprudenza della "Sapienza" - Università di Roma, in data 05.04.2017, ha conseguito con lode il Diploma di Master Interuniversitario di II livello in Diritto Amministrativo (M.I.D.A.).