Brevi osservazioni sull’evoluzione della disciplina delle mansioni

Brevi osservazioni sull’evoluzione della disciplina delle mansioni

Brevi osservazioni sull’evoluzione della disciplina delle mansioni dalla legge 300/1970 al decreto legislativo n° 81/2015

Nel corso della stagione che stiamo attraversando (che ha determinato in maniera vistosa il tramonto dello Statuto del Lavoratori) il decreto legislativo n° 81/2015 è intervenuto a modificare significativamente l’art. 2113 del Codice Civile, introducendo più di un’ importante novità.

In verità, la norma in questione è stata più volte oggetto dell’interesse del nostro Legislatore che già per effetto della L.330/1970 aveva inteso correggere le storture della sua originaria formulazione.

L’ art. 2113 apprestava, infatti, una tutela sostanziale al lavoratore subordinato nei confronti dell’esercizio del potere datoriale di variazione delle mansioni, ma non centrava veramente l’obiettivo. Vale a dire che non riusciva ad impedire che la modifica peggiorativa avvenisse per altra via e, cioè esercitando il potere datoriale in un’accezione negoziale.

Per porre rimedio a tale ineffettività, il legislatore dello Statuto è intervenuto a chiudere ogni ipotetica via di fuga, elevando la mansione a bene non disponibile, neanche pattiziamente e disponendo la nullità di ogni patto contrario.

A ciò aggiungendo, inoltre, quale unico limite all’esercizio del potere di variazione delle mansioni il criterio generico di equivalenza delle mansioni rispetto a quelle originarie.

Stante l’intrinseca indeterminatezza del concetto di “mansioni equivalenti si è demandato alla giurisprudenza il compito di individuarne il preciso contenuto normativo. Contenuto individuato nella professionalità del lavoratore, intesa come bagaglio conoscitivo ed esperienziale acquisito nella fase precedente al mutamento delle mansioni.

In verità, il concetto della equivalenza delle mansioni per professionalità si rivelò un concetto non unitario, quanto, invece dilatabile se non addirittura elastico.

In sostanza, sebbene animato dall’intenzione di apportare migliorie alla disciplina delle mansioni, il Legislatore dello Statuto aveva introdotto un dato alquanto generico ed approssimativo che si prestava ad essere manipolato dalla mediazione giudiziaria.

Non a caso, infatti, la giurisprudenza ha finito per aggiornare la nozione di equivalenza dilatandola e modulandola, in ragione del caleidoscopio di forme e accezioni che la mobilità professionale può assumere all’interno dell’organizzazione aziendale.

Questo lo scenario tratteggiato dall’art. 2113 del Codice civile così come modificato dell’art. 13 della L.300/1970 fino all’entrata in vigore del decreto legislativo n° 81/2015.

Come già accennato, per effetto del succitato decreto, l’art. 2113 è stato nuovamente novellato con non pochi effetti benefici a favore del recupero della centralità dell’autonomia negoziale.

Tre le modifiche significative, la prima riguarda il superamento definitivo del criterio dell’equivalenza professionale, come limite al mutamento delle mansioni e sua sostituzione con il criterio della professionalità intesa come appartenenza ad un determinato livello di inquadramento.

Tale novità si lascia apprezzare sotto più punti di vista; innanzitutto, promuove il recupero della centralità dell’autonomia collettiva a cui viene restituito il potere di determinare l’area del debito relativo allo svolgimento della prestazione lavorativa; ed inoltre, realizza una semplificazione della gestione aziendale (il criterio del livello d’inquadramento costituisce del resto un parametro più sicuro ed affidabile rispetto al criterio delle mansioni equivalenti).

Altra modifica: l’inserimento della disciplina dell’adibizione a mansioni inferiori.

Si tratta di una novità, peraltro da tempo auspicata, che distingue lo spostamento del lavoratore in unilaterale ( 2° e 4° comma) e concordato ( 6°comma ).

Lo spostamento unilaterale può essere giustificato da un mutamento dell’assetto organizzativo che incide sulla posizione del lavoratore ( 2° comma) o rientrare nelle “ ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore” previsto dalla contrattazione collettiva ( 4° comma).

Al contrario, il secondo tipo di spostamento ( 6° comma) è ammesso nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, ossia all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

La previsione dell’obbligo di formazione in ambito endoaziendale ha consentito il superamento della logica dei compiti lavorativi e della professionalità, intesa come limite all’esercizio del potere di variazione per ampliare il novero dei compiti esigibili.

Così facendo, l’obbligo di formazione può essere invocato in ipotesi di adibizione a mansioni appartenenti a mansioni equivalenti ovvero inferiori, per il cui svolgimento non è sufficiente il bagaglio professionale in possesso al lavoratore.

Tuttavia, la norma nella parte dedicata alla obbligo di formazione appare approssimativa; in primo luogo, perché non spiega come si attagli tale istituto nell’ambito disciplina del rapporto di lavoro e, secondariamente, perché non prevede espressamente su quale parte del rapporto di lavoro gravi detto onere.

In prima battuta, potrebbe ritenersi sussistente in capo al datore di lavoro derivandone che, in caso di inadempimento dell’obbligo, quest’ultimo non possa contestare al prestatore di lavoro l’inadeguatezza della prestazione.

Tuttavia, sarebbe prospettabile un’altra lettura sulla scorta dell’argomentazione che sarebbe improponibile che il soggetto obbligato, rimasto inadempiente, possa vantare una pretesa sulla prestazione.

Pertanto, secondo altro indirizzo, certamente preferibile, il datore di lavoro è obbligato a fornire la prestazione, soprattutto quando la stessa risulti strumentale allo svolgimento di nuovi compiti, con la conseguenza che l’omissione di tale onere rende il provvedimento di adibizione a nuove mansioni nullo.

Con riguardo all’adibizione a mansioni superiori, il Legislatore ha pure inserito alcune modifiche.

Da segnalarsi che lo spostamento a mansioni superiori segue la formulazione dell’art. 13 apportandovi tre modifiche ed estendo la disciplina anche ai quadri per i quali era prevista un’apposita disciplina.

In primo luogo, la riforma ha ristretto la fattispecie prevedendo che la promozione non possa scattare quando l’adibizione a mansioni superiori sia avvenuta “ per ragioni sostitutive di un altro lavoratore in servizio”.

Nell’originaria traccia, invece, la promozione non poteva scattare ove l’assegnazione fosse fatta per sostituire un lavoratore con diritto alla conservazione del posto di lavoro ( si pensi all’assenza per malattia o infortunio).

Ed ancora, pur rimanendo compito della contrattazione collettiva fissare il termine entro il quale si produce la promozione, in questo caso il rinvio è libero e la legge si limita a prevedere solo in via suppletiva, il limite.

Ultima modifica: ai fini della promozione si è inserito un nuovo elemento e, cioè che il lavoratore non manifesti volontà contraria alla promozione. Una novità alquanto particolare, dal momento che sarebbe stato naturale normare un’eventuale rifiuto e apprestare garanzia a sostegno della consapevolezza e genuinità del rifiuto.

Al termine di questa breve disamina in merito alla revisione della disciplina delle mansioni, è tempo di quadrare il cerchio.

Non v’è dubbio, che la modifica dell’art. 2113 si innesti nel solco di un progetto più ampio di attenuazione delle garanzie e dell’effettività dello Statuto dei Lavoratori.

Legge di forte carattere protettivo dei diritti del lavoratore, oggi però consumata e destinata a dispiegare una sempre minore efficacia.

In tale scenario di decadimento, la novella dell’art. 2113 si pone come fiore all’occhiello – come ultimo tra i molteplici tentativi, andati a segno o meno, di stemperare le rigidità; così dopo il contratto a tutele crescenti, viene predisposta anche la flessibilità organizzativa relativa ai compiti esigibili dal datore di lavoro.

Si può concludere, a questo punto, che è la flessibilità a dominare il rapporto di lavoro (si pensi ad un’ulteriore auspicata flessibilità quella relativa alla modifica dell’art. 4 dello Statuto).


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