Brevi riflessioni storico-giuridiche sul controverso processo a Gesù
Sommario: 1. Premessa sulle fonti – 2. Ricostruzione storico-giuridica del processo – 3. Conclusioni
1. Premessa sulle fonti
Sul processo a Gesù non ci sono pervenuti atti ufficiali. È verosimile che il rappresentante imperiale nella provincia dovesse relazionare Roma sui giudizi per alto tradimento o per lesa maestà, anche nel caso in cui il condannato non fosse un cittadino romano (Blinzler). Se ciò sia concretamente accaduto per Gesù non ci è dato sapere. Alcuni autori del II secolo, come Giustino (Apologia I, 35,9; I, 48,3) e Tertulliano (Apologia 5,2; 21,20), raccontano di un rapporto di Ponzio Pilato all’imperatore Tiberio in ordine all’esecuzione di Gesù, custodito negli archivi imperiali. Di tale rapporto, ad oggi, non vi è traccia. L’assenza di documenti formali impone pertanto la ricerca di notizie, in primis, presso le fonti non cristiane.
Le affermazioni dell’autore ebreo Flavio Giuseppe (circa 37-97 d.C.), nelle Antichità giudaiche (XVIII, 63-64), e del grande storico romano Publio Cornelio Tacito (circa 55-120 d.C.), negli Annales (XV, 44), conducono ragionevolmente a far ritenere che Gesù sia stato condannato e crocifisso su sentenza di Pilato (Flavio Giuseppe, Tacito) sotto il regno di Tiberio (Tacito) e che il procedimento di Pilato contro Gesù sia stato attivato su impulso delle autorità giudaiche (Flavio Giuseppe). Tralasciando, per esigenze di sintesi, il riferimento ad altre fonti non cristiane, alcune fondamentalmente conformi, altre reputate dagli studiosi prive di pregio probatorio, nonché alle fonti cristiane tardive perché connotate da intento apologetico, la ricostruzione storica del processo a Gesù non può che basarsi, in definitiva, sull’analisi del narrato evangelico.
2. Ricostruzione storico-giuridica del processo
Gesù era colpevole? Di cosa? Chi lo accusò? Perché? Cerchiamo di capirlo.
Non bisogna nutrire aspettative di storicità dai racconti di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, avendo essi piuttosto intento kerigmatico, ossia di annuncio, proclamazione, predicazione del messaggio cristiano. Tuttavia gli studiosi sono portati a ritenere che il racconto della Passione, al cui interno è contenuto il processo a Gesù, desti il maggiore interesse storico per la sua “insolita abbondanza di particolari sui luoghi e sulle date” ed in quanto costituisce “la parte di tradizione evangelica più anticamente fissata” (Blinzler).
Nei vangeli leggiamo di accuse prima formulate al cospetto dell’autorità giudaica, poi imputate da quella romana. Per tale motivo, il processo a Gesù Cristo, secondo alcuni autorevoli studiosi (Ricciotti, Blinzler), viene considerato come costituito da un doppio procedimento: l’uno dinanzi al Sinedrio, l’altro a Ponzio Pilato.
Chi dissente dalla teoria della bipartizione tende sostanzialmente a negare valore giuridico al primo (Guarino), attribuendogli piuttosto il carattere di mero atto di inchiesta privata con funzione orientativa in vista della formalizzazione di una denuncia dinanzi all’autorità romana (Cullmann), unica ritenuta legittimata all’esercizio della Giustizia. Criticata dai più è la tesi estrema (Lietzmann) secondo cui non vi sarebbe stato alcun processo giudaico, ma unicamente l’arresto e la consegna di Gesù ai romani.
Invero, propendere per l’una o per l’altra dei due orientamenti (duplicità o unicità del giudizio) presuppone un’analisi sullo stato della distribuzione dei poteri, nella Giudea dell’epoca.
In genere, i territori assoggettati all’Impero romano o vengono annessi ad una provincia già esistente o diventano provincia autonoma. Nel 27 a.C., Ottaviano Augusto assegna il governo delle province più tranquille al Senato; quelle ai confini dell’Impero, più tumultuose e presidiate da forti guarnigioni, le riserva a sé. Le province senatorie sono rette da proconsoli (legati pro consule), quelle imperiali governate dall’Imperatore mediante dei legati da lui nominati (legati Augusti pro praetore). Nelle province che richiedono maggiore abilità di governo, l’Imperatore, anziché un legatus, manda un praefectus. La Giudea, particolarmente complicata da gestire per la sua organizzazione politica prettamente teocratica e la tendenza alle sommosse, costituisce una provincia autonoma, retta da un ufficiale dell’ordine equestre nominato dall’Imperatore, a tempo determinato, quale procurator (secondo alcuni studiosi si tratterebbe proprio di un praefectus), che è di stanza a Cesarea Marittima, spostandosi a Gerusalemme in occasione delle feste che mobilitano un cospicuo afflusso di popolo.
Accanto all’amministrazione romana, viene riconosciuto un legittimo governo interno, le cui funzioni sono esercitate dal supremo organo religioso, il Sinedrio. Tiberio, sotto il cui impero nasce Gesù, è ancora più rispettoso di Augusto verso gli usi del giudaismo, applicando il principio di consentire ai dominati un certo livello di libertà per prevenire insurrezioni e creare un vantaggioso clima di pace e mutua fiducia collaborativa. In breve, viene garantita la quasi totalità dell’autonomia in campo religioso e una non trascurabile incidenza negli affari politici interni, riservandosi, al rappresentante dell’Impero, la gestione degli affari a più ampia rilevanza, il potere tributario e lo jus gladii (alta giurisdizione capitale). In sede giudiziaria, per i reati previsti e puniti dal diritto giudaico (es. bestemmia, blasfemia) legittimato alla cognizione è per l’appunto il Sinedrio; per i fatti costituenti crimines idonei a ledere gli interessi imperiali (es. istigazione ad evadere i tributi, lesa maestà) permane la giurisdizione esclusiva del Tribunale imperiale presieduto dal Procurator. Tuttavia, il potere di ratifica e di esecuzione delle condanne (exequatur, connaturato allo jus gladii), di tutte le condanne, comprese quelle comminate dal Sinedrio, è riservato unicamente all’autorità romana.
Orbene, alla luce di tali argomentazioni, è verosimile che il processo a Gesù abbia realmente avuto due fasi procedimentali. La prima, quella dinanzi all’autorità giudaica, in cui vi è un’imputazione di tipo religioso e ove l’accusato è dichiarato colpevole e pertanto degno di morte. La seconda, dinanzi all’autorità romana, per far sì che la sentenza appena emessa dal collegio giudicante ebreo non resti lettera morta, ma trovi in qualche modo attuazione.
La prima fase (o se si vuole, il primo processo), ha inizio con l’arresto nel Getsemani effettuato mediante le guardie del tempio su impulso del Sinedrio. Prosegue con l’interrogatorio svolto dal sommo sacerdote Caifa, anticipato da un mero atto di inquisizione privata da parte dell’ex sommo sacerdote Anna (privo del potere di giudicare, ma probabilmente autorevole eminenza grigia, nonché riverito suocero del sommo sacerdote).
Al tempo, in assenza di una codificazione, vigono norme di natura consuetudinaria, di cui non si è in grado, ad oggi, di individuare l’indole e la portata applicativa. È ragionevole supporre che corrispondano solo in minima parte a ciò che poi sarà codificato in seguito. Senza dubbio vige, all’epoca di Gesù, il codice penale sadduceo dell’Antico Testamento (Blinzler), e – ricordiamolo – i sacerdoti componenti il Sinedrio appartengono tutti alla casta aristocratica dei sadducei.
Certamente esiste già la norma antica (Numeri 35,30; Deuteronomio 17,6; 19,15) secondo cui nessuno può essere condannato se non sulla scorta di deposizioni testimoniali, integralmente conformi, da parte di terzi ed in numero non inferiore a due. È d’altronde la stessa regola che si rinviene nel diritto romano, mirabilmente racchiusa nel brocardo “unus testis nullus testis”.
Non vi è certezza che già vigano due delle norme poi codificate successivamente (l’ordinamento giuridico della Mishnà, di matrice farisaico-umanitaria, viene codificato solo dalla fine del II secolo d.C.), ossia che non possano essere celebrati i processi penali in seduta notturna (ma solo dalle 9 antimeridiane alle 4 pomeridiane) o nei giorni preparativi al sabato o ad una festa e che la condanna a morte non possa essere pronunciata nel giorno stesso della discussione del processo necessitandosi di maggiore riflessione prima di addivenire ad una declaratoria di colpevolezza dell’imputato (Ricciotti).
Un dato certo è che, dalla disamina comparata dei quattro resoconti evangelici, nessuna delle tre norme risulta trovare applicazione. Processo iniziato di notte, di venerdì prima dello Shabbath e comunque durante il tempo della Pasqua ebraica (Pesach), e concluso nella stessa giornata tenendo conto del sistema ebraico (dal tramonto al tramonto).
Altra criticità si ravvisa nell’essere la condanna deliberata all’unanimità, in quanto è prescritto ex lege che almeno un membro del collegio giudicante deve votare in favore dell’imputato, anche se poi qualcuno ritiene che siano proprio Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, seguaci di Gesù, che abbiano votato in tal modo.
Tuttavia, la prima, preliminare e più aberrante anomalia è da rilevarsi nell’assenza di un atto formale di imputazione: sia nella fase dell’arresto che della comparizione dinanzi a Caifa manca una contestazione esplicita e formale di reati: “Gesù non figurava più come un imputato responsabile di antiche colpe ma come un innocente arrestato per esser provocato a bestemmiare” (Ricciotti). In qualche misura, i reati, poi contestati a Gesù, emergono durante l’interrogatorio, quasi come se il Sommo sacerdote, sin da principio, abbia l’obiettivo precipuo, se vogliamo malcelato, di indurre in errore l’interrogato, di istigarlo a delinquere, o quanto meno di travisarne surrettiziamente le risposte.
La possibilità di condannarlo per aver affermato che avrebbe ricostruito il Tempio in tre giorni si appalesa subito infondata agli inquirenti stessi, in primis perché attinente ad affermazione risalenti di almeno due anni su cui non è emersa concordanza tra i testimoni (falsi) escussi; in secondo luogo perché Gesù non pare aver certo espresso l’intento di demolirlo ma semmai di riscostruirlo in tre giorni, e ricostruire il Tempio, a parte l’evidente senso figurato dell’espressione desumibile dal riferimento stesso ai tre giorni, costituisce tutt’al più titolo per un encomio (si pensi alla benemerenza acquisita da Erode il Grande per aver riedificato il Tempio di Gerusalemme alcuni decenni prima).
Allo stesso modo si appalesa destituito di ogni fondatezza il tentativo di incriminazione insinuato quando Gesù dichiara o fa intendere di essere il Messia. Certamente Egli non commette un peccato-reato: l’affermazione messianica può, tutt’al più, dar luogo a smentite o contestazioni, ma non rappresenta, né certo può rappresentare, in sé, illecito di tipo religioso o di natura giuridica, essendo il popolo di Israele appunto in attesa della manifestazione del messia e non potendosi a priori escludere che Egli realmente lo sia.
È alla precisa e tendenziosa domanda “Tu sei dunque il Figlio di Dio?” (Luca, 22,70), che viene individuato l’escamotage più efficace. La risposta di sostanziale assenso da parte di Gesù conduce il sommo sacerdote a condannarlo per bestemmia, per l’insormontabile difficoltà ideologica e culturale del monoteismo ebraico a poter tollerare che un figlio d’Israele – un essere umano – possa dichiararsi ontologicamente Figlio di Dio, dell’unico Dio, santissimo ed innominabile. La pena prevista per la bestemmia è la lapidazione fino alla morte. Il Sinedrio, tuttavia, sa perfettamente che la condanna a morte non può trovare esecuzione senza l’ordine dell’autorità romana.
A questo punto, le strade diventano due: o invitare Ponzio Pilato ad accettare la sentenza così come emessa o deferire Gesù dinanzi al tribunale romano per un nuovo processo.
All’esito del primo processo, risultando la bestemmia l’addebito contestato, deve apparire al Sinedrio altamente improbabile che Pilato possa ratificare una sentenza emessa per ragioni squisitamente religiose senza approfondire la questione nel merito e nella procedura. Insostenibile il rinvio a giudizio del reo come blasfemo, si rende necessario mutare il titolo di reato, per mero calcolo politico, ispirato dal timore di perdere l’egemonia religiosa (i farisei oppositori moderati rispetto ai dominatori) e da quello di spezzare l’alleanza con Roma (i sadducei collaborazionisti): “Che cosa facciamo ora che quest’uomo compie molti segni? Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, e verranno i Romani e ci porteranno via il luogo e la nazione” (Giovanni, 11,47-50).
Pertanto la scelta ricade sulla seconda via. I membri del Sinedrio si portano immediatamente presso il pretorio di Pilato promuovendo l’accusa verso Gesù, ivi condotto, dichiarando, a evidente scopo di captatio benevolentiae, “a noi non è consentito mettere a morte nessuno” (Giovanni, 18,31). Egli è presentato come un rivoluzionario politico, un condottiero che incita a non pagare i tributi a Cesare, un re-messia, in ultima analisi come un sedizioso, un ribelle verso l’ordine costituito.
Pilato, da navigato uomo di mondo, subito comprende che trattasi di un innocente (“io non trovo in lui alcuna colpa!”; Giovanni, 19,4) e che di base sussistono le solite beghe di natura religiosa che egli, da persona pragmatica, non comprende fino in fondo. Tuttavia, per timore di segnalazioni a Roma, circa un suo eventuale disinteresse per un’accusa almeno formalmente prospettata come politica e di rilevanza imperiale, cerca dapprima di liberarsi del caso inviando l’accusato dal tetrarca Erode Antipa, avendo costui giurisdizione sui galilei, e poi al rinvio dinanzi a lui, in esito alla vana inquisizione erodiana, cerca di liquidare la questione proponendo, in alternativa alla pena capitale, di irrogare la pena della terribile flagellatio romana prima di lasciarlo libero.
Non sortendo adesione alla soluzione prospettata, ha un intuito. In omaggio al privilegium paschale, ossia alla consuetudine di rilasciare un condannato a morte in occasione della Pasqua, e confidando che la grazia del popolo possa andare a beneficio dell’innocente Gesù e non del criminale Barabba, invita la folla a scegliere.
Senonché, si ritiene (Ricciotti) che gli istigatori del Sinedrio inducano la moltitudine dei presenti a indicare, per la salvezza, Barabba e a gridare in relazione a Gesù che debba essere crocifisso. Ciò che capi e popolo esigono è la morte, “ora Pilato paga l’errore commesso nel mettersi a discutere con il popolo… col popolo eccitato non poteva lasciar perdere e passare all’ordine del giorno… in quella situazione che confinava con l’aperto tumulto” (Blinzler). Gesù deve essere dichiarato colpevole di alto tradimento, per la rivendicazione della dignità regale da Lui professata, e punito col rigore crudele e infamante di uno dei summa supplicia destinati ai condannati non cives Romani: la crocefissione (damnatio in crucem) che la lex Iulia maiestatis dell’8 a.C. assicura contro i traditori. Tale legge disciplina il crimen maiestatis, o de maiestate, considerato il più grave reato politico, nel quale alveo è sussunta una gran varietà di ipotesi che possano rientrare nella nozione di offesa alla maiestas populi Romani fino a considerare crimen anche qualunque affronto diretto o indiretto alla persona o al nome del princeps, tra cui l’autodichiararsi re.
Breviter, l’operazione di mutatio del titolo di reato è compiuta. Gesù sedicente Figlio di Dio si è fatto sedicente Re dei Giudei che rappresenta “la forma secolarizzata, trasferita sul piano profano politico” (Blinzler). Professarsi Figlio di Dio e quindi Dio e Re dei Giudei e quindi Re nel contesto imperiale, integra un reato che, con terminologia contemporanea, potremmo definire “plurioffensivo” (Miglietta). Tale fatto, rilevante sotto il profilo penale, contiene in re ipsa offesa e lesione a un duplice interesse pubblico: la santità del Dio d’Israele (secondo l’ordinamento giudaico) e la maestà dell’Imperatore con la correlata sicurezza dell’impero e del populus romanus.
Terminata la fase del giudizio, Pilato emette formalmente la decisione di condanna a pena capitale: colpevole di lesa maestà, Gesù sedicente re dei Giudei, confessus, va crocifisso. La pena è tipicamente romana, lo svolgimento della fase esecutiva dimostra l’emissione di una vera e propria sentenza, in senso tecnico, da parte di un magistrato romano nell’esercizio dei suoi poteri giudiziari.
In qualche misura, Pilato resta comunque amareggiato per il ruolo scomodo assunto (per cui si è lavato le mani e la coscienza) e, in qualche misura vendicandosi, conferisce alla motivazione della sentenza una formulazione che infastidisce non poco i membri del Sinedrio, rivolgendosi ironico “Ecco il vostro re!” (Giovanni, 19,14). Egli agisce come se avesse accertato le rivendicazioni regali di Gesù che ora deve condannare a morte quale colpevole contro Roma: in breve, sembra rimproverare agli ebrei questo alto traditore è il vostro re. Tale formulazione, nonostante la protesta dei sacerdoti, viene estesa al titulus apposto sulla croce nelle tre lingue parlate, aramaico, latino e greco, Gesù Nazareno Re dei Giudei.
3. Conclusioni
Presentare Gesù come un ribelle politico costituisce lo scopo dell’operazione di persuasione di Caifa presso Pilato per celare il conflitto sottostante, ben più velato, che contrappone le autorità giudaiche al Galileo, alimentato dall’allarmante apprensione di perdere l’egemonia religiosa e l’autonomia politica interna.
Tutta la vicenda è connotata dai caratteri dell’opportunismo. Perché la seduta notturna? Perché la discussione e il voto di condanna sinedriale, in pieno tempo pasquale e alle prime luci dell’alba?
La risposta è perché la manovra giudaica va conclusa in tempo per l’udienza giudiziaria di Pilato che comincia al sorgere del sole come da costume romano. I membri del Sinedrio non intendono rischiare il procrastinarsi della vertenza ad un’udienza ulteriore, e ancor meno attendere al termine degli otto giorni della Pesach, col rischio concreto di veder il praefectus ripartire per la sede ufficiale di Cesarea prima di aver deciso sulla questione inerente Gesù.
Si deve profittare della circostanza che, in un colpo solo, a Gerusalemme sia presente Pilato e sia presente Gesù, e con un processo lampo, si può conseguire l’obiettivo di eliminare un soggetto tanto scomodo quanto poco attaccabile, prima ancora di suscitare un moto di reazione da parte di coloro – e sono in numero sempre crescente – che si schierano dalla parte del Galileo.
Il meccanismo che si innesca e che conduce, suo malgrado, Pilato a condannare Gesù, si tramuta in una sorta di boomerang per il Sinedrio che trova l’espressione visiva più consistente nel titulus della croce. Il cartello contenente la motivazione della condanna di Gesù, effetto della mutatio del titolo di reato, è uno schiaffo a Caifa e a ciò che costui rappresenta. Leggendo “Re dei Giudei”, i capi giudaici montano su tutte le furie. Pilato ha ripetuto “Re dei Giudei” per tutto il processo, fa dunque scrivere “Re dei Giudei”: qualsiasi cosa se ne dica, questa vicenda di regalità è il motivo legale della sentenza appena emessa. Pilato vuole inoltre che tale cartello sia leggibile a chiunque, in tre lingue. Le autorità giudaiche invano lo supplicano di non lasciare scritto “Re dei “Giudei” ma di scrivere “Costui disse: sono il re dei Giudei” (Giovanni, 19,21). La risposta perentoria del procuratore romano è un macigno sulle loro teste: “quel che ho scritto, ho scritto” (Giovanni, 19,22).
All’esito di un processo, probabilmente non esente da censure dal punto di vista giuridico, di cui pare ancora di udire l’assordante “Crocifiggilo! Crocifiggilo!” (Giovanni, 19,6) rimbombare nei secoli, quel che resta è un senso di indicibile amarezza e di abissale indignazione. Le stesse che si sentono dentro dinanzi a qualsiasi atto di profonda ingiustizia. Le stesse che si provano quando un popolo intero, lungo il cammino della storia, è accusato di deicidio e, per questa ragione, strumentale o meno, fatto oggetto di odio, di brutale violenza, finanche di sterminio.
Ricordiamolo: “Anche se un manipolo di vociferanti scatenati o di creature assoggettate e pagate dal sommo sacerdote e dalla sua cricca hanno effettivamente proferito un simile grido, non si può tuttavia imputare questo scatenamento (organizzato) della collera del popolo alla totalità dei Giudei di Gerusalemme, né ai pellegrini, né alla totalità della popolazione ebraica del paese, che non aveva la minima idea degli avvenimenti in corso; le stesse comunità sparse da Alessandria a Roma non erano affatto coinvolte, e gli ebrei delle generazioni successive lo saranno ancor meno” (Ben-Chorin).
Il 25 aprile del 1933, in Gerusalemme, non esistendo più il Sinedrio, una Corte ebraica, composta da un presidente e due giudici a latere, con la partecipazione di un esponente della pubblica accusa e del difensore dell’imputato, celebra la revisione del processo a Gesù, dichiarando viziata, in punto di fatto e in punto di diritto, la condanna irrogata 1900 anni prima e pertanto da annullarsi (rivista parigina Jérusalem, 1933, maggio-giugno, pag. 464).
Ad oggi, Gesù il Galileo, figlio di Giuseppe di Betlemme e Maria di Nazareth, risulta giudicato innocente.
Bibliografia essenziale
Ben-Chorin Schalom, Fratello Gesù, Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia, 1988.
Blinzler Josef, Il processo a Gesù, Paideia, Brescia, 2001.
Di Miscio Gennaro, Il processo a Gesù, Longanesi, Milano, 1967.
Giuffré Vincenzo, La ‘repressione criminale’ nell’esperienza romana, Jovene, Napoli, 1991
Loupan Victor – Noël Alain, Inchiesta sulla morte di Gesù, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2007.
Messori Vittorio, Patì sotto Ponzio Pilato?, SEI – Società Editrice Italiana, Torino, 1992.
Miglietta Massimo, I.N.R.I. Studi e riflessioni intorno al processo a Gesù, Satura Editrice, Napoli, 2021.
Ricciotti Giuseppe, Vita di Gesù Cristo, Oscar Mondadori, Milano, 2008.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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