Brevi riflessioni sulla motivazione del provvedimento amministrativo: la sentenza n. 11222/2023 del Consiglio di Stato
Sommario: 1. La vicenda processuale – 2. La motivazione del provvedimento: cenni generali – 3. I punti trattati dal Consiglio di Stato – 4. Conclusioni
La sentenza del Consiglio di Stato fornisce l’occasione per ripercorrere gli elementi che più caratterizzano la disciplina della motivazione del provvedimento amministrativo, la cui formulazione, invero, non si sostanzia in un mero adempimento da parte della pubblica amministrazione, ma, laddove chiara ed intellegibile, costituisce – utilizzando le parole del giudice amministrativo – «il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo», in grado di testimoniare il regolare svolgimento del procedimento.
1. La vicenda processuale
Con nota del 21 luglio 2017, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha denegato un’istanza di accesso al Fondo istituito per i risparmiatori vittime di frodi finanziarie.
Con lettera del 26 novembre 2021, il soggetto istante ha rinnovato la richiesta, ma il Ministero, nel rappresentare che il suddetto Fondo non fosse operativo «per la sussistenza di problematiche applicative concernenti la disciplina attuale», ha nuovamente respinto l’istanza.
Il richiedente ha impugnato il provvedimento ostativo innanzi al Tar, che, accolte le doglianze del ricorrente – sul presupposto secondo cui la motivazione adottata ex art. 3, l. n. 241/1990, non fosse «adeguatamente intellegibile» – ha ordinato al Ministero di riadottare un nuovo provvedimento che spiegasse in modo chiaro ed esaustivo le ragioni per cui, rebus sic stantibus, il Fondo non fosse operativo e, dunque, non potesse essere soddisfatta la pretesa dell’interessato[1].
Avverso la sentenza di primo grado il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha proposto appello al Consiglio di Stato, che, tuttavia, con sentenza n. 11222 del 27 dicembre 2023, ha confermato le statuizioni del giudice di prime cure.
2. La motivazione del provvedimento: cenni generali
Prima di affrontare i punti trattati dal Consiglio di Stato, occorre ripercorrere, nei suoi tratti più essenziali, la disciplina con ad oggetto l’istituto della motivazione del provvedimento.
Invero, come è noto, l’art. 3, l. n. 241/1990, prevede l’obbligo, in capo alle pubbliche amministrazioni, di motivare ogni provvedimento amministrativo, «compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale», con l’indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione adottata, in relazione alle risultanze dell’istruttoria condotta. La norma – nell’introdurre un obbligo che, prima del 1990, non era mai stato previsto[2] – ha portata innovativa, in quanto consente al cittadino, quale destinatario dell’attività amministrativa, di comprendere l’iter logico seguito dalla pubblica amministrazione nell’adozione di un determinato provvedimento amministrativo.
Più nello specifico, la disposizione è attuativa, da un lato, dell’art. 41 CEDU, che, nell’introdurre il diritto ad una buona amministrazione, stabilisce che, affinché l’attività amministrativa sia imparziale ed equa, debba prevedersi, tra l’altro, l’obbligo per l’amministrazione (rectius: per le istituzioni, organi e organismi dell’Unione europea) di motivare le proprie decisioni; dall’altro, dell’art. 97 Cost., che, tra i principi che regolano l’attività amministrativa, ascrive, inter alia, il principio di legalità, che vincola – almeno formalmente[3] – le scelte della pubblica amministrazione ai fini determinati dalla legge.
Inoltre, l’obbligo di motivazione è attuazione del principio del giusto procedimento, in quanto si inserisce tra quegli istituti previsti dal legislatore in seno alla l. n. 241/1990 che garantiscono il diritto di partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo, permettendo, in tal maniera, di poter correttamente valutare l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione.
3. I punti trattati dal Consiglio di Stato
a) La chiarezza e l’intelligibilità della motivazione
Sotto un primo profilo, secondo il giudice amministrativo, la pubblica amministrazione, nel denegare l’istanza del privato, ha adottato una motivazione «oscura, lacunosa e inintelligibile», non idonea a ricostruire le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza.
Più nello specifico, ricostruita la natura giuridica dell’atto amministrativo adottato dalla pubblica amministrazione[4], il Consiglio di Stato ha rilevato la poca chiarezza della motivazione del provvedimento, che addurrebbe a «non meglio precisate problematiche applicative» che ostano all’accesso al Fondo.
Sul punto, rilevano le seguenti considerazioni.
In primo luogo, è evidente che la motivazione, nella sua formulazione, assolve, anzitutto, ad una finalità conoscitiva, in quanto pone il cittadino nella condizione di capire ciò che ha indotto la pubblica amministrazione ad emanare l’atto, le ragioni che vi sono sottese e i possibili rimedi esperibili. Invero, come rilevato dalla giurisprudenza, l’obbligo di motivazione è diretto a «realizzare la conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell’azione amministrativa»[5], sicché – e non potrebbe essere altrimenti – onere della pubblica amministrazione è non già (limitarsi a) motivare il provvedimento, quanto farlo nella maniera più chiara e intelligibile possibile.
Ancora – e di conseguenza – la motivazione di cui all’art. 3, l. n. 241/1990, deve essere formulata in maniera tale che il cittadino, attraverso una computa ricognizione delle risultanze di diritto e di fatto del procedimento, sia in grado di ricostruire l’iter logico seguito dalla pubblica amministrazione, in maniera tale da apprezzarne da un lato la sua logicità, dall’altro la sua coerenza alla legge.
La motivazione deve, in altri termini, «scomporre la realtà in fatti e leggi»[6], sicché, da una puntuale esposizione delle ragioni, possano agevolmente essere svelati i motivi che hanno orientato la pubblica amministrazione all’adozione di una specifica decisione giuridica.
Tanto è ribadito dal giudice de quo, secondo il quale «L’oscurità della motivazione nel provvedimento, anche e a maggior ragione a fronte della mancata previa adozione di atti amministrativi aventi o meno natura regolamentare che rendano applicabile la normazione primaria, costituisce la violazione di un obbligo fondamentale da parte della pubblica amministrazione, in uno Stato di diritto, perché non consente al cittadino di comprendere nel loro significato e, se del caso, contestare con gli strumenti previsti dall’ordinamento gli atti lesivi della propria sfera giuridica».
In conclusione, la motivazione non deve apparire un vuoto simulacro, ma deve, secondo una concezione sostanziale e funzionale, esternare «il percorso logico giuridico seguito dall’amministrazione per giungere alla decisione» adottata, permettendo in tal maniera al destinatario di «comprendere le ragioni» e, conseguentemente, «accedere utilmente alla tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione»[7].
b) Sull’applicabilità dell’art. 21-octies, l. n. 241/1990, al difetto di motivazione
Proseguendo nella trattazione, il giudice amministrativo ha ricordato che «[…] non è possibile ritenere che il difetto di motivazione, nel caso di specie peraltro così evidente e ingiustificabile, sia un vizio procedimentale emendabile ai sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990».
La statuizione merita un approfondimento.
Come è noto, l’art. 21-octies, l. n. 241/1990, prevede tra l’altro che «Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
La norma, invero, ha lo scopo di de-quotare il vizio di legittimità del provvedimento amministrativo, prevedendo la sua non annullabilità sul piano processuale laddove, pur se inficiato da vizi formali o procedimentali, per il suo carattere vincolato, non potrebbe in alcun modo potuto essere diverso[8].
Nel caso di specie, la pubblica amministrazione aveva ritenuto il vizio di difetto di motivazione emendabile ai sensi dell’art. 21-octies, l. n. 241/1990, in quanto, formalmente, riconducibile alla violazione di una norma sul procedimento[9].
Il problema è, dunque, quello di accertare se il vizio di difetto di motivazione possa ricadere nel caso di cui all’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990[10].
Sul punto, si sono formati due orientamenti giurisprudenziali contrapposti: un primo – più recente – secondo cui il vizio di motivazione carente ovvero mancante rientri nell’alveo dei vizi formali, sicché, in quanto mera violazione di legge, fosse ad esso applicabile l’art. 21-octies, l. n. 241/1990; un secondo, per il quale il difetto di motivazione non fosse riconducibile nell’alveo dei vizi formali e procedimentali, dal momento che non riguarda la mera forma degli atti o il modus procedendi della pubblica amministrazione, ma tocca l’essenza – e, più nello specifico, la funzione – del provvedimento stesso.
Nel caso de quo, il Consiglio di Stato ha aderito alla seconda impostazione. Invero, secondo il giudice amministrativo, « […] il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. n. 241 del 1990) […]».
Invero, secondo il giudice, il difetto di motivazione non è sanabile, ex art. 21-octies, l. n. 241/1990, in quanto, per la finalità perseguita – ossia, come già chiarito, rendere trasparente il processo decisionale della pubblica amministrazione – dall’obbligo di cui all’art. 3 discende la legittimazione democratica della pubblica amministrazione, che permette, ai cittadini, di esercitare il diritto fondamentale di difesa.
Inoltre, l’art. 21-octies, l. n. 241/1990, prevede, già nella sua formulazione letterale, la possibilità di de-quotare il vizio di legittimità di un provvedimento amministrativo nel solo caso di attività vincolata da parte della pubblica amministrazione. Circostanza, quest’ultima, che non si verifica nel caso de quo, in quanto, come chiarito dal giudice amministrativo, il provvedimento adottato dal Ministero «[non] aveva ed ha contenuto vincolato, posto che non è possibile desumere dalle ragioni espresse quali fossero le vincolanti problematiche che avrebbero reso impossibile esaminare la domanda».
In conclusione, secondo il Consiglio di Stato, «la motivazione è un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti».
c) Sulla motivazione ob relationem
Neppure, nel caso de quo, secondo il giudice amministrativo, l’onere motivazionale poteva essere assolto con una motivazione ob relationem, posto che il riferimento al precedente diniego è «del tutto assente nel provvedimento annullato e, comunque, riguarda un atto adottato ben 4 anni prima dal Ministero».
Si ricorderà, infatti, che la motivazione ob relationem è già prevista ex art. 3, co. 3, l. n. 241/1990, che fornisce la possibilità di adempiere all’onere motivazionale richiamando le decisioni di un altro atto amministrativo.
Già la giurisprudenza ha avuto modo di ricostruire le condizioni al verificarsi delle quali è possibile adottare una motivazione ob relationem: anzitutto, è necessario che le ragioni dell’atto richiamato siano esaurienti; ancora, l’atto indicato al quale viene fatto riferimento deve reso disponibile agli interessati; infine, non vi debbano essere pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo provvedimento[11].
Nel caso di specie, a mancare è, invero, la prima condizione, in quanto deve ritenersi che, affinché la motivazione ob relationem sia legittima, è necessario che l’onere motivazionale sia stato già ben assolto nell’atto amministrativo richiamato. Ciò in quanto «La funzione della motivazione […] non viene meno per il fatto che nel provvedimento finale non risultino chiaramente e compiutamente esplicitate le ragioni sottese alle scelte discrezionali, allorché le stesse possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento e ciò in forza di una considerazione non meramente formale dell’obbligo di motivazione»[12].
È evidente, infatti, che, laddove l’atto amministrativo richiamato già non assolva correttamente all’onere motivazionale richiesto ex art. 3, l. n. 241/1990, la motivazione ob relationem è illegittima, in quanto il difetto di motivazione trasla anche sul provvedimento amministrativo in seconda sede adottato.
Inoltre, nel caso de quo, il giudice amministrativo ritiene che l’onere motivazionale non sia stato positivamente assolto in quanto, tra l’altro, la motivazione ob relationem rinvia ad altro atto amministrativo adottato diverso tempo prima.
In altri termini, la sentenza sembra ammettere la sussistenza di una sorta di limite temporale entro il quale l’onere motivazionale può ritenersi legittimamente assolto con una motivazione ob relationem.
Il richiamo, infatti, alla motivazione di un atto amministrativo adottato tempo addietro, se anche correttamente motivato, non è di per sé condizione per assolvere all’obbligo motivazionale di cui all’art. 3, l. n. 241/1990, ma è evidentemente onere della pubblica amministrazione dimostrare (rectius: confermare) che le circostanze di fatto che hanno condotto alla motivazione del provvedimento amministrativo richiamato siano anche riscontrate nel nuovo atto amministrativo.
In conclusione, la motivazione ob relationem si intende legittima non solo a condizione che il relativo onere sia stato correttamente assolto nell’atto amministrativo richiamato, ma anche in considerazione della distanza temporale che intercorre tra questo e il nuovo provvedimento amministrativo, stante mutamenti delle circostanze di fatto che potrebbero non giustificare il rinvio a precedente motivazione.
4. Conclusioni
La legge n. 241/1990, nel regolare il procedimento amministrativo, costituisce tuttora uno «statuto» per il cittadino, che, in qualità di principale destinatario dell’attività amministrativa, è in grado di partecipare attivamente al processo decisionale della pubblica amministrazione.
In quest’ottica, il legislatore ha introdotto l’istituto della motivazione del provvedimento amministrativo, che, inter alia, si caratterizza quale strumento che garantisce trasparenza e imparzialità all’attività amministrativa.
Invero, l’onere motivazionale assolve sia ad una funzione conoscitiva, dando contezza al cittadino dell’iter logico seguito dalla pubblica amministrazione nell’adozione di un determinato provvedimento amministrativo, sia ad una funzione processuale, in quanto garantisce il diritto di difesa nei confronti del soggetto destinatario del medesimo.
Non è un caso, invero, che la disposizione di cui all’art. 3, l. n. 241/1990, sia rimasta invariata nel tempo, nonostante le numerose modifiche e integrazioni progressivamente operate dal legislatore.
La giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito la necessità da parte delle pubbliche amministrazioni di adempiere all’onere motivazionale in maniera chiara e intelligibile, evitando, in tal maniera, una «fuga dalla decisione», ovvero, in altri termini, che dietro un provvedimento non sufficientemente motivato si palesasse un’istruttoria carente da parte del soggetto pubblico.
A tale orientamento aderisce la sentenza in commento, che, oltre a rilevare l’interesse del cittadino a che la motivazione sia adeguatamente formulata (ancor più, come nel caso di specie, in un provvedimento di natura ostativa), ribadisce la stretta funzionalità dell’onere motivazionale con l’esigenza di trasparenza del procedimento amministrativo, a tal punto che – in conclusione – non sarebbe possibile emendare ad un suo difetto – ovvero carenza – neppure con la procedura di cui all’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990.
[1] Il riferimento è a Tar Lazio, sez. II, 21 aprile 2022, n. 4847, secondo cui «la “non motivazione” spesa dal Ministero a supporto del diniego debba essere censurata e conduca necessariamente all’annullamento del provvedimento gravato con la conseguenza che il Ministero resistente dovrà rideterminarsi sull’istanza presentata dai ricorrenti, eventualmente chiarendo le ragioni per le quali la stessa non sarebbe scrutinabile nel merito sulla base della disciplina vigente».
[2] Come invero ricorda E. SENATORE, L’integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo fra ordinamento interno e comunitario, in Federalismi.it, n. 4, 2018, pp. 4 ss., sino all’emanazione della l. n. 241/1990, e precipuamente dell’art. 3 della stessa, «fervente» era il dibattito giurisprudenziale e dottrinale circa la sussistenza di una generale obbligatorietà della motivazione dei provvedimenti amministrativi, stante l’assenza di una codificazione di tale obbligo.
[3] Il riferimento è alla cd. “de-quotazione” della motivazione, ossia quella tendenza, da parte della giurisprudenza, a ricondurre il difetto di motivazione ad una violazione sostanziale-giurisprudenziale. Tanto in quanto, come ricorda E. SENATORE, L’integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo fra ordinamento interno e comunitario, cit., p. 1, l’evoluzione del diritto ha portato ad un processo di de-quotazione del principio di legalità in favore della logica di risultato, sicché il rigore delle forme tipiche, espressione del potere pubblico, sta, lentamente, lasciando spazio alla correttezza sostanziale degli atti amministrativi. Sul punto, si rinvia a G. TROPEA, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Dir. Proc. Amm., 2017, p. 1235-1299.
[4] Invero, la ricorrente aveva ritenuto che la nota del 3 dicembre 2021 impugnata in primo grado non fosse un provvedimento e nemmeno un atto amministrativo, quanto, tutt’al più, un atto di natura privatistica. Al contrario, il giudice ha – correttamente – qualificato l’istanza quale atto amministrativo, ad evidente contenuto ostativo-provvedimentale «per la sua portata effettuale che nega il beneficio richiesto».
[5]Il riferimento è a Corte cost., sent. 2 novembre 2010, n. 310.
[6] Così S. PIRAINO, Il fatto nella motivazione dell’atto amministrativo, in Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, n. 11, 2013, pp. 42 ss..
[7] Cons. Stato, sez. V, 25 maggio 2017, n. 2457.
[8] F. S. MARTUCCI, L’integrazione postuma della motivazione alla luce dell’art. 21 octies comma 2 della Legge n. 241 del 1990. Profili di incidenza sugli atti regolatori adottati dalle Autorità Amministrative Indipendenti, in Diritto, mercato, tecnologia, n. 3, 2015, p. 15.
[9] Come invero si ricorderà la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che la motivazione, ex art. 3, l. n. 241/1990, pur essendo un elemento sostanzialmente fondamentale del provvedimento amministrativo, non ne è elemento essenziale, sicché la sua assenza non determina la nullità dell’atto amministrativo, quanto la sua annullabilità per violazione di legge, ex art. 21-octies, co. 1, l. n. 241/1990.
[10] Alla questione si riconduce, tra l’altro, il tema dell’integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo. Sul punto, si rinvia, ex multis, a G. VIRGA, Motivazione successiva e tutela della pretesa alla legittimità sostanziale del provvedimento amministrativo, in Dir. Proc. Amm, 1993, pp. 507 ss..
[11] Si veda, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 18 febbraio 2010, n. 944.
[12] Cons. Stato, ibidem.
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Pietro Losciale
Istruttore direttivo amministrativo presso il Comune di Montemurlo (PO). Già Istruttore amministrativo presso il Comune di Firenze e il Comune di Bari.
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