Buona fede oggettiva come fonte integrativa e come limite alle condotte abusive e fraudolente
La buona fede è un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico in materia di rapporti obbligatori e, attraverso l’opera dei giudici, ha subito un’importante evoluzione al punto che, oggi, non viene più concepita solo come criterio di valutazione della condotta delle parti, ma esplica due ulteriori funzioni: da un lato, come fonte integrativa degli effetti degli atti di autonomia privata, perché integra o restringe gli obblighi assunti dalle parti o derivanti da specifiche norme di legge; dall’altro, come canone per individuare un limite alle condotte abusive e fraudolente del titolare di un diritto.
Il principio di buona fede oggettiva, inteso come dovere di comportarsi lealmente nell’esecuzione del contratto, in ciò differenziandosi dalla buona fede soggettiva, sussumibile nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto, compare in numerose norme del codice civile: l’art. 1375 c.c. dispone che il contratto deve essere eseguito in buona fede; l’art. 1358 c.c. innalza la buona fede a regola di comportamento dei contraenti in pendenza di condizioni; l’art. 1460, 2° comma c.c. individua nella buona fede la ratio dell’esercizio legittimo della facoltà di rifiutare l’adempimento a causa dell’inadempimento dell’altro contraente; l’art. 1337 c.c. impone alle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. Inoltre, significato identico a quello espresso nell’art. 1375 c.c. deve essere attribuito alla regola enunciata dall’art. 1175 c.c., il quale dispone che il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza nello svolgimento del rapporto obbligatorio.
In generale, la buona fede oggettiva, imposta ai soggetti del rapporto obbligatorio, si sostanzia nell’obbligo di salvaguardare l’utilità della controparte nei limiti di un apprezzabile sacrificio e si muove in una duplice direzione: per quanto riguarda il creditore, fa in modo che egli non possa abusare del suo diritto e, nello stesso tempo, lo obbliga ad attivarsi per evitare o contenere gli imprevisti che possono aggravare l’adempimento della prestazione o le conseguenze di un suo eventuale inadempimento; al contrario, rispetto al debitore, gli impone non solo di adempiere la prestazione dedotta nel titolo, ma anche di salvaguardare gli interessi del creditore che non siano tutelati specificamente dal rapporto obbligatorio, ma che comunque ne sono connessi.
A tal proposito, la dottrina prevalente ha individuato una funzione integrativa dell’art. 1375 c.c., destinata ad incidere sul contenuto del rapporto obbligatorio e a produrre doveri ulteriori, che si pongono in capo alle parti, anche se non risultano espressamente enunciati nel titolo che disciplina il loro reciproco rapporto:
a) in sede di attuazione del rapporto obbligatorio, vi sono doveri di avviso e di informazione a carico del creditore, sia nel proprio interesse che in quello del debitore;
b) una parte può essere chiamata ad eseguire prestazioni non previste da ciò che è stato regolato esplicitamente, al fine di salvaguardare l’utilità altrui;
c) una parte può essere tenuta a modificare il proprio comportamento in sede di esecuzione;
d) il creditore deve tollerare il ricevimento di una prestazione non esattamente conforme a quella pattuita, quando non ne sia compromessa l’utilità sostanziale;
e) le parti devono esercitare correttamente i poteri discrezionali, di cui dispongono, nella fase di esecuzione della prestazione.
Tutti questi obblighi, seppur variamente catalogati, possono essere ricondotti nella categoria dei doveri di cooperazione ai fini dell’esatto adempimento, tra cui vanno annoverati anche gli obblighi di protezione, di custodia, di conservazione e di garanzia, per l’altra parte contraente, dell’utilità della prestazione.
Il principio di buona fede oggettiva, a seguito della sua evoluzione nel sistema giuridico italiano, oggi è inteso anche come criterio per fissare un limite alle pretese abusive e fraudolente del creditore e, in generale, del titolare di un diritto.
In questo senso l’applicazione del criterio di buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., comporta che la condotta del creditore, che persegua uno scopo diverso da quello che intende realizzare il legislatore mediante il riconoscimento di quel diritto, esorbiti dal perimetro delle facoltà che l’ordinamento riconosce e tutela. La titolarità di un diritto non attribuisce un potere incondizionato di porre in essere qualsivoglia condotta, ma soltanto quelle che soddisfino gli scopi per i quali quel diritto è stato riconosciuto dall’ordinamento.
Lo strumento attraverso il quale è possibile stigmatizzare il comportamento abusivo del creditore è l’exceptio dolo generalis, intesa dall’opinione maggioritaria come la possibilità di opporsi all’altrui pretesa od eccezione, in astratto fondata, ma in realtà espressione di un esercizio doloso o scorretto di un diritto, finalizzato al soddisfacimento di interessi non meritevoli tutela secondo l’ordinamento giuridico.
L’exceptio doli generalis è legata al divieto di trarre vantaggio da un proprio comportamento malizioso e fraudolento e, sul piano pratico, persegue una finalità prevalentemente difensiva, comportando la disapplicazione delle norme illecitamente invocate e la conseguente reiezione della domanda.
Nel codice civile non vi è una norma che confermi l’attuale vigenza dell’exceptio doli generalis, la quale è legata al ruolo creativo della giurisprudenza; infatti, negli ultimi anni, sia le Corti di legittimità che di merito, hanno ampiamente utilizzato l’eccezione in esame, contestualmente alla riscoperta e all’evoluzione del principio della buona fede oggettiva.
E proprio nel solco del ruolo della buona fede come limite alle pretese creditorie abusive e fraudolente e, di conseguenza, dell’esposizione all’exceptio doli generalis, è necessario segnalare una questione che è stata oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza circa la possibilità o meno di richiedere, in via giudiziale, l’adempimento frazionato di una prestazione originariamente unica, perché fondata sullo stesso rapporto contrattuale.
Un primo orientamento ha dato risposta negativa all’interrogativo sulla base del fatto che la clausola generale di correttezza – buona fede, che opera anche nella fase patologica conseguente al mancato o inesatto adempimento, non consente di considerare legittimo il comportamento del creditore che, attraverso un anomalo frazionamento delle azioni giudiziarie, prolunghi il vincolo coattivo cui deve sottostare il debitore, in assenza di un interesse del creditore oggettivamente apprezzabile e meritevole di tutela.
Un secondo orientamento, invece, ha affermato la legittimità di tale comportamento, osservando che la facoltà del creditore di chiedere un adempimento parziale è speculare all’identica facoltà di accettarlo, riconosciuta dall’art. 1181 c.c. (1).
Le S.U. della Cassazione, con sentenza n. 108/2000, hanno ritenuto ammissibile la domanda giudiziale con cui il creditore di una determinata somma, in caso inadempimento dell’intera prestazione, chieda un adempimento parziale con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento, rispondente ad un interesse del creditore meritevole di tutela, che non sacrifica in alcun modo il diritto del debitore di difendere le proprie ragioni.
Tuttavia, le S.U. della Cassazione, con ordinanza n. 11794/2007, sono nuovamente intervenute sulla questione, invertendo il loro precedente orientamento e sostenendo l’inammissibilità di una richiesta frazionata della tutela giudiziale del credito.
Secondo questo recente orientamento, tale richiesta sarebbe contraria alla regola generale di correttezza – buona fede per la sua intervenuta costituzionalizzazione, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost, che attribuisce alla clausola in esame forza normativa e ricchezza di contenuti, includendo anche obblighi di protezione delle persone e delle cose della controparte, pur se si è nella fase patologica del rapporto obbligatorio a causa dell’inadempimento.
In conclusione, il principio della buona fede oggettiva presiede ad ogni fase del rapporto obbligatorio, compresa quella giudiziale, in quanto se esso è uno strumento di integrazione del contenuto del negozio a garanzia del giusto equilibrio tra gli interessi delle parti, a maggior ragione deve riconoscersi che il predetto rapporto debba essere mantenuto fermo in ogni sua successiva fase.
In questo modo, anche nella fase patologica il creditore, alla stregua della buona fede, non potrà porre in essere comportamenti scorretti, abusivi e finalizzati al soddisfacimento di interessi non tutelabili, aggravando la posizione del debitore e alterando il corretto equilibrio degli interessi contrapposti, anche in virtù del principio costituzionale del giusto processo.
(1) Cfr. F. CARINGELLA – L. BUFFONI, Manuale di diritto civile, Roma, 2020. p. 952 e ss.
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