Caso Cappato: la Corte d’Assise di Milano solleva la legittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p.
Finisce dinanzi ai giudici di Palazzo della Consulta il processo nei confronti di Marco Cappato per il suicidio assistito di Dj Fabo.
La Corte d’Assise di Milano, con l’ordinanza del 14 febbraio 2018, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale nella parte in cui incrimina la condotta di aiuto al suicidio indipendentemente dal suo contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidario, ritenendo tale incriminazione in contrasto con i dettami costituzionali di cui agli articoli 3, 13 e 25 della Costituzione Italiana.
Tali norme, infatti, individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell’offensività della condotta accertata.
Ogni individuo ha la libertà di decidere dove e quando morire, in forza dei principi sanciti sia nella nostra carta costituzionale, agli articoli 2 e 13 della Costituzione, sia nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo agli articoli 2 ed 8, sempre che sia in grado di assumere una decisione libera e consapevole.
Di conseguenza solo le azioni che pregiudicano la libertà della sua decisione possono costituire un’offesa al bene tutelato dall’articolo 580 del codice penale.
I suddetti principi, dai quali deriva la libertà dell’individuo di decidere della propria vita anche se da ciò dipende la sua morte, il riconoscimento del primario diritto di autodeterminazione e l’approvazione della legge 219/2017 sul biotestamento devono essere considerati gli elementi base per l’interpretazione della norma in esame, del bene giuridico tutelato e delle condotte idonee a lederlo.
I giudici milanesi rappresentano come le condotte di agevolazione all’esecuzione del suicidio che non incidono sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida non sono sanzionabili. Ed ancor più non possono essere sanzionate con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, così come prevista dall’articolo 580 c.p., senza alcuna distinzione tra istigazione ed aiuto al suicidio, nonostante la prima condotta sia certamente più incisiva rispetto a quella di chi ha solo contribuito al realizzarsi della deliberazione autonoma altrui.
Il legislatore del 1930 aveva previsto una tale sanzione a tutela del “diritto alla vita”, concepito come valora a sé, indipendentemente dalle deliberazioni del titolare.
Leggendo oggi l’articolo 580 c.p. alla luce dei principi costituzionali, appare evidente la necessità di cambiare questi concetti, propri di un’epoca ormai desueta.
Secondo la Corte d’Assise meneghina dalla lettura complessiva della norma in oggetto si apprezza una diversa considerazione del diritto alla vita, che si pone oggi come presupposto degli altri diritti riconosciuti all’individuo ed attraverso i quali si definisce.
Oggi non è più lo Stato ad essere al centro della vita sociale, ma l’uomo inteso come singolo individuo ed essere umano. Si ha una inversione della centralità, e la vita umana non può più essere concepita in funzione di un fine eteronomo.
Ad ogni individuo viene garantita dalla Costituzione la libertà dalle interferenze arbitrarie dello Stato e da questo diritto fondamentale derivano sia il potere della persona di disporre del proprio corpo, sia l’impossibilità per ogni individuo di essere costretto a subire un trattamento sanitario non voluto, in assenza di una norma che lo imponga esplicitamente.
Principio, quest’ultimo, che trova la sua massima espressione nell’articolo 32 della Costituzione.
Tale norma, nell’affermare la libertà della persona ad autodeterminarsi in termini di rifiuto di cure e corrispondente obbligo per l’ordinamento di rispettarne la decisione, pone anche dei limiti oltre il quale lo Stato ha il dovere di non intervenire, anche nelle ipotesi in cui da tali scelte ne derivi la morte.
Il collegio rimettente pone attenzione, infine, alla legge sul biotestamento, la legge 219/2017, ritenendo che i principi alla base di tale legge possano aiutare ad interpretare l’articolo 580 c.p.
Tale legge riconosce la possibilità in capo ad ogni individuo di disporre anticipatamente le proprie volontà sul c.d. “fine vita”, fino ad affermare che lo stesso può decidere, nei fatti, di porvi fine.
Viene sottolineato che in caso di malattia il legislatore ha riconosciuto espressamente il diritto di decidere di lasciarsi morire a tutti i soggetti capaci.
Il mancato riconoscimento da parte del legislatore italiano di un diritto al suicidio assistito, pertanto, implica si l’impossibilità di pretendere dai medici del servizio pubblico la somministrazione di un farmaco che “procuri la morte” ma non può portare a negare l’esistenza della libertà di ogni persona di poter scegliere come e quando porre fine alla propria vita, posto che una tale libertà trova fondamento nei dettami costituzionali.
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Agostina Stano
Avvocato del Foro di Milano
Volontaria presso l'associazione Avvocato di Strada Onlus di Milano