Caso Pogba: il doping tra ordinamento statale e ordinamento sportivo
Il fenomeno del doping è sempre attuale e non vi è sport, purtroppo, che ne resti estraneo. Molteplici i precedenti, sia a livello nazionale e sia internazionale, nel professionismo e non, di quello che viene considerato una piaga del sistema sportivo.
Giova, a tal proposito, ricordare alcuni casi di famosi personaggi del mondo dello sport che nel recente passato si sono macchiati di tale illecito. Il più noto alle cronache è probabilmente quello del ciclista statunitense Lance Armstrong, vincitore di sette Tour de France consecutivi, dal 1999 al 2005, e successivamente revocati. È stato definito il più vasto e sofisticato scandalo di doping nello sport. Nel 2013, il ciclista texano, durante un’intervista [1], ammise per la prima volta di aver fatto sistematico uso di sostanze dopanti (EPO, testosterone) nel corso della sua carriera. Nel calcio, invece, i tifosi ed appassionati ricorderanno sicuramente il caso di Diego Armando Maradona, probabilmente il più grande calciatore di tutti i tempi, il quale fu squalificato per doping due volte nel corso della sua carriera. La prima volta, nel 1991, quando vestiva la maglia del Napoli, venne trovato positivo alla cocaina. La seconda volta durante i mondiali di calcio del 1994, invece, risultò positivo all’efedrina. Passando in rassegna velocemente la lunga lista di sportivi risultati positivi nel corso della loro carriera, si segnalano i nomi del marciatore italiano Alex Schwazer, del velocista canadese Ben Johnson, della tennista russa Maria Sharapova e del pilota motociclistico italiano Andrea Iannone.
Tra questi sportivi, da ultimo, va annoverato il calciatore francese Paul Pogba, in forza alla Juventus, il quale successivamente ai controlli antidoping effettuati in occasione del match contro l’Udinese, valido per il campionato di serie A, dello scorso 20 agosto, è risultato positivo (rectius: «non negativo») al testosterone. Le controanalisi del campione B svolte il 5 ottobre presso il laboratorio romano dell’Acqua Acetosa hanno confermato la positività del giocatore bianconero.
Con il presente elaborato si vuole effettuare una disamina dell’articolato quadro normativo vigente, in considerazione della prevenzione e repressione di tale fenomeno tanto in seno all’ordinamento statale quanto in quello sportivo, nazionale ed internazionale.
Definizione e brevi cenni storici
Con il termine doping (dall’inglese to dope: drogare) si definisce la somministrazione o l’assunzione di farmaci o sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, nonché l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero di modificare i risultati dei controlli antidoping (cd. agenti coprenti).
Il fenomeno in esame ha origini antichissime, ma solo verso la fine dell’800 assume quei tratti distintivi che lo contraddistinguono oggi. A questo periodo storico si fa risalire il primo caso di morte di doping; si tratta del ciclista inglese Arthur Linton che, nel 1896, vinse la Parigi-Roubaix, ma morì di overdose da etere e cocaina subito dopo. Dagli anni ’60 in poi si assiste in Europa ad una diffusione costante del fenomeno, dapprima nei paesi dell’Est, con le stesse federazioni sportive che, alla ricerca della gloria sportiva e non, imponevano il ricorso a pratiche dopanti, per poi diffondersi in tutto il continente non solo nello sport praticato a livello professionistico, ma anche in quello dilettantistico ed amatoriale.
Il doping nell’ordinamento sportivo internazionale
Pietra miliare della lotta al doping in seno all’ordinamento sportivo è stata indubbiamente la costituzione della Agenzia Mondiale Antidoping (la World Antidoping Agency “WADA”). L’Agenzia, una fondazione di diritto svizzero, è stata istituita il 10 novembre 1999 a Losanna, ma ha sede a Montréal. Essa si prefigge di promuovere e coordinare la lotta contro il doping a livello internazionale. A tal fine, nel marzo del 2003, a Copenaghen, in occasione della Conferenza mondiale sul doping nello sport, venne approvato il primo Codice Mondiale Antidoping (c.d. “Codice WADA”), che rappresenta il documento fondamentale della lotta al doping a livello mondiale. Con la sua adozione, da un lato si è voluto tutelare il diritto fondamentale degli atleti alla pratica di uno sport libero dal doping, promuovendo la salute, la lealtà e l’uguaglianza di tutti gli atleti del mondo e dall’altro garantire l’applicazione di programmi antidoping armonizzati, coordinati ed efficaci sia a livello mondiale che nazionale, al fine di arginare la pratica del doping.
Il Codice WADA è oggetto di continui aggiornamenti dettati dall’esigenza di mantenere le norme al passo con l’evoluzione delle condotte dopanti e del sistema normativo integrato delle legislazioni pubbliche [2]. Pertanto, è prevista l’entrata in vigore di nuove versioni a distanza di sei anni l’una dall’altra. Attualmente è in vigore la versione del 2021, dopo che si sono succedute quelle del 2003, 2009 e del 2015.
L’entrata in vigore del citato Codice, il quale si applica a tutti i Paesi che hanno aderito alla Convenzione UNESCO del 2005 (Convenzione internazionale contro il doping nello sport), non rappresenta l’unico intervento nella lotta al doping. Invero, ad esso si aggiunge l’adozione di Standard Internazionali, distinti in quattro categorie: la lista delle sostanze vietate e dei metodi proibiti; l’esenzione ai fini terapeutici; le modalità dei controlli antidoping e, infine, i laboratori antidoping.
Per quanto riguarda la lista delle sostanze vietate viene effettuata una distinzione tra le sostanze vietate soltanto in competizione e quelle vietate sempre, anche al di fuori di tale contesto. È il Codice WADA a stabilire i criteri in base ai quali una sostanza o un metodo possono essere inclusi in tale lista [3]. Quest’ultima viene aggiornata dall’Agenzia con cadenza annuale.
Per essere sanzionati è sufficiente l’accertamento dell’assunzione di sostanze vietate, senza che sia necessario dimostrare il dolo o la colpa da parte degli atleti. In tal caso, il codice prevede per le violazioni intenzionali la squalifica di quattro anni, mentre per quelle non intenzionali la squalifica è di due anni. Tuttavia, attraverso la previsione di un sistema di rilascio di esenzioni ai fini terapeutici viene reso lecito l’utilizzo di una sostanza vietata di cui alla citata lista, esclusivamente all’atleta che, giusta documentazione medica, dimostri di soffrire di una patologia per la quale è inevitabile l’utilizzo di farmaci contenente una sostanza vietata [4].
Alla predisposizione della lista delle sostanze vietate segue un’altra relativa alle sostanze cd. specificate per le quali vi è una maggiore flessibilità nella sanzione, in quanto certe sostanze possono entrare nell’organismo inavvertitamente. Relativamente all’onere della prova, nel caso si tratti di una sostanza specificata grava sull’Organizzazione antidoping l’onere di provare l’intenzionalità, mentre nel caso di una sostanza non specificata l’onere di provare la non intenzionalità della violazione grava sull’atleta.
La normativa antidoping mondiale, inoltre, oltre a comprendere entro la nozione di doping la manipolazione delle fasi del controllo antidoping, il possesso di sostanze vietate, il rifiuto di sottoporsi ai controlli, estende l’ambito della responsabilità non solo agli atleti, ma anche al personale di supporto. Il fine di tale previsione è quello di reprimere e sanzionare tutte quelle pratiche perpetrate da allenatori, dirigenti, medici, preparatori ed altre figure, con, tra l’altro, una sanzione da quattro anni a vita. Tale regime sanzionatorio è applicabile anche alle fattispecie di traffico e di tentato uso di sostanze vietate o metodi proibiti.
Il doping nell’ordinamento sportivo nazionale
In attuazione dell’anzidetto Codice WADA, in sede domestica è adottato un Documento tecnico attuativo del Codice Mondiale Antidoping WADA e dei relativi Standard internazionali, le cd. Norme Sportive Antidoping, le quali costituiscono le uniche norme nell’ambito dell’ordinamento sportivo italiano che disciplinano la materia dell’antidoping e le condizioni cui attenersi nell’esecuzione dell’attività sportiva. Le NSA sono composte da: Codice Sportivo Antidoping (CSA); Procedura di Gestione dei Risultati (PGR), in attuazione dello Standard Internazionale per la gestione dei risultati; Documento Tecnico per i Controlli e le Investigazioni (DT-CI), attuativo dello Standard Internazionale per i Controlli e le Investigazioni.
L’ambito di applicazione del presente regolamento si estende non solo agli Atleti e al cd. personale di supporto (allenatore, preparatore, dirigente, agente, addetto alla squadra, ufficiale, medico, paramedico, genitore), ma a tutte le Federazioni Sportive Nazionali, Discipline Sportive Associate, Enti di Promozione Sportiva, Leghe e Società sportive nonché a tutti gli organismi sportivi che ricadono nella giurisdizione di NADO Italia. Inoltre, le disposizioni si applicano anche a tutti gli atleti paralimpici ed alle attività sportive paralimpiche.
Per doping si intende, ai sensi dell’art. 1, la violazione di una o più norme contenute negli articoli dal 2.1 al 2.11, nonché le violazioni di cui all’articolo 3.
Costituiscono violazioni delle norme sportive antidoping, ai sensi dell’art. 2, in primo luogo, la presenza di una sostanza proibita o dei suoi metaboliti o markers nel campione biologico di un atleta. Gli atleti sono responsabili di qualsiasi sostanza proibita o dei suoi metaboliti o markers siano riscontrati nei propri campioni biologici. Va evidenziato che ai fini dell’accertamento dell’anzidetta violazione non è necessario dimostrare il dolo, la colpa, la negligenza o l’uso consapevole da parte dell’atleta, ma è sufficiente, a titolo meramente semplificativo, non solo la presenza nel campione biologico A dell’atleta di una sostanza proibita o dei suoi metaboliti o markers, ma anche la rinuncia alle analisi del campione biologico B ovvero che il campione biologico B venga analizzato e l’analisi confermi la presenza di una sostanza proibita riscontrata nel campione biologico A dell’atleta.
Tra le altre violazioni, vi rientrano l’uso o tentato uso di una sostanza o di un metodo proibito, l’elusione, il rifiuto o la mancata presentazione, senza una valida giustificazione, da parte dell’atleta a sottoporsi al prelievo del campione biologico; il mancato rispetto degli obblighi di reperibilità (cd. whereabouts) che comporta una sanzione minima pari ad un anno di squalifica nel caso di tre mancati controlli antidoping e/o mancate comunicazioni in un periodo di dodici (12) mesi, da parte di un atleta incluso in RTP [5].
Seguono, la manomissione o tentata manomissione di qualsiasi parte del controllo antidoping, il possesso di una sostanza o di un metodo proibiti da parte di un atleta o di persona di supporto dello stesso; il traffico o tentato traffico illegale di sostanze o metodi proibiti; la somministrazione o tentata somministrazione ad un atleta durante le competizioni di una qualsiasi sostanza vietata o metodo proibito oppure fuori competizione relativamente a sostanze o metodi proibiti fuori competizione; il fornire assistenza, incoraggiamento, aiuto ovvero istigare, dissimulare o favorire ogni altro tipo di complicità intenzionale o tentata in riferimento a una qualsiasi violazione o tentata violazione delle NSA; il divieto di associazione da parte di un atleta o altra persona. Quest’ultima violazione riguarda coloro che si avvalgono di persone già squalificate per doping. In tal caso, va evidenziato che le Organizzazioni Antidoping seppur non tenute a fornire agli Atleti un elenco dei soggetti squalificati, hanno l’onere di dimostrare che l’Atleta sapesse che il “personale di supporto” a cui si è rivolto fosse nello status di “squalificato”. Da ultimo, tutti quegli atti consistenti in ritorsioni, minacce e intimidazioni da parte di un atleta o di altra persona per scoraggiare o contrastare la segnalazione alle autorità.
L’art. 3 individua altre ipotesi, quali: la mancata collaborazione da parte di qualsiasi individuo per garantire il rispetto delle NSA, compresa la mancata segnalazione di circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento di reati di doping; qualsiasi comportamento offensivo nei confronti dei Responsabili dei controlli antidoping (DCO) e/o del personale addetto al controllo antidoping, che non integri la fattispecie della manomissione o tentata manomissione di qualsiasi parte del controllo antidoping.
Al verificarsi di una delle fattispecie innanzi viste, potranno essere irrogate le diverse sanzioni previste dal codice. Negli sport individuali, “una violazione delle norme antidoping in relazione ad un controllo in gara porta automaticamente alla squalifica del risultato ottenuto in quella competizione con tutte le conseguenze che ne derivano, incluso il ritiro di eventuali medaglie, punti e premi”. All’atleta può essere irrogata la sanzione della squalifica. Il periodo di squalifica può variare tenendo conto del tipo di violazione della normativa antidoping, della presenza o meno di una sostanza specificata, dell’intenzionalità o meno e di altri elementi, sino ad arrivare ad una squalifica a vita nel caso l’atleta abbia violato tre volte la normativa antidoping negli ultimi dieci anni.
L’art. 12 del CSA prevede delle sanzioni anche per le squadre nel caso in cui più di due membri di una squadra abbiano commesso una violazione della normativa antidoping nel corso di un Evento, l’Organizzazione che ha giurisdizione sull’Evento dovrà comminare alla squadra una sanzione adeguata (ad es. perdita di punti, squalifica da una competizione o da un Evento, o altra sanzione), in aggiunta alle eventuali sanzioni inflitte individualmente agli atleti responsabili della violazione della normativa antidoping. Sanzioni più lievi sono previste, invece, per le violazioni di cui al citato articolo 3. Mentre, per quanto riguarda le violazioni commesse da soggetti non tesserati si applicano “le sanzioni dell’inibizione a tesserarsi e/o a rivestire in futuro cariche o incarichi presso il CONI, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate o gli Enti di Promozione Sportiva, ovvero a frequentare in Italia gli impianti sportivi, gli spazi destinati agli Atleti ed al personale addetto, a prendere parte alle manifestazioni o ad eventi sportivi che si svolgono sul territorio nazionale o sono organizzati dai predetti enti sportivi, per tutta la durata del periodo di squalifica corrispondente alla violazione commessa”.
Da ultimo, oltre ad irrogare sanzioni individuali, con la decisione che definisce il procedimento, il Tribunale Nazionale Antidoping può condannare la parte soccombente al pagamento di sanzioni economiche, nonché al rimborso delle spese ed oneri processuali. Si tratta di una pena accessoria alla sanzione della squalifica e, pertanto, non costituisce “valida motivazione per una riduzione della squalifica stessa o di qualsiasi altra sanzione teoricamente applicabile ai sensi del CSA”. Si rischierebbe, altrimenti, di creare delle disparità permettendo ad atleti di livello di poter ridurre il periodo di squalifica mediante il pagamento di sanzioni pecuniarie. Nel determinare l’importo da irrogare, il Tribunale “deve tenere conto della gravità della violazione commessa, del grado di responsabilità accertato, dell’eventuale ipotesi di recidiva, nonché della condotta processuale tenuta”.
La normativa statale in materia di doping
Per quanto concerne la normativa italiana, prima dell’intervento del legislatore del 2000, essa appariva frammentaria e non efficace nel contrastare il fenomeno in esame.
Tra gli atti normativi in origine adottati è opportuno segnalare (per una seppur non esaustiva disamina) la legge 26 ottobre 1971, la n. 1099, la quale sanzionava penalmente l’uso e la somministrazione di sostanze nocive per la salute degli atleti, al fine di modificare artificialmente le loro energie naturali. Successivamente, con l’entrata in vigore della legge 24 novembre 1981, n. 689, tali fattispecie di reato furono depenalizzate, passando così dal penalmente rilevante all’applicazione di sanzioni di natura amministrativa.
L’assenza di una normativa che potesse fungere da deterrente spinse la dottrina e parte della giurisprudenza a far rientrare l’uso di sostanze dopanti nella nozione del reato di frode in competizioni sportive, disciplinato dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401, intitolata “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive”, adottata al fine di contrastare un diverso fenomeno (quello delle scommesse e della manipolazione dei risultati sportivi) che in quegli anni balzò agli onori della cronaca. Sul punto, va evidenziato che tale tentativo di colmare il vuoto legislativo in materia non incontrò il favore degli Ermellini, i quali asserirono la non applicabilità della disciplina di cui innanzi ai casi di doping [6].
Come segnalato in apertura, è con l’entrata in vigore della legge 14 dicembre 2000, n. 376, intitolata “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping”, che al termine di un travagliato iter legislativo si è provveduto ad inserire in seno all’ordinamento statale una disciplina organica ed unitaria in materia di doping. La legge composta di 10 articoli si prefigge di promuovere la salute individuale e collettiva, ispirandosi ai principi di cui alla Convenzione di Strasburgo del 1989.
In assenza precedentemente di una chiara e precisa definizione del fenomeno in esame all’interno del nostro ordinamento, all’art. 1, comma 2, viene definito doping “la somministrazione o l’assunzione di farmaci o sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”; inoltre, al comma successivo è stabilito che rientra nel concetto di doping anche l’assunzione di farmaci o sostanze biologicamente attive o pratiche non giustificate da condizioni patologiche, che siano idonee a modificare i risultati dei controlli (la cd. manipolazione farmacologica).
Si rimanda ad altra sede la trattazione della legge de quo nella sua interezza, la quale non solo all’art. 9 reintroduce alcune fattispecie di reato, in precedenza, come abbiamo visto, depenalizzate, ma apporta ulteriori novità di rilievo. È d’uopo, al riguardo, prima di passare alla trattazione delle anzidette fattispecie, un breve cenno. Si segnala l’introduzione di una lista delle sostanze e dei metodi vietati che con decreto ministeriale viene aggiornata, a cadenza annuale, in ossequio alla lista WADA, di cui al precedente paragrafo. Tra le altre, l’istituzione di una Commissione per la Vigilanza ed il controllo sul doping (oggi ridenominata Sezione Vigilanza Doping), la quale indirizza la propria attività di controllo antidoping in ambito amatoriale e dilettantistico [7]. Infine, l’obbligo, di cui all’art. 7, per i produttori di farmaci di rendere noto che l’assunzione del farmaco potrebbe causare positività.
Ciò segnalato, passando alla trattazione delle disposizioni penali di cui all’anzidetto articolo 9, la norma punisce al comma 1 chi procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricomprese nelle classi previste dall’art. 2, comma 1 della legge, che non siano giustificate da condizioni patologiche e siano idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero siano dirette a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali sostanze; al comma 2 è punito, invece, chi adotta o si sottopone a pratiche mediche, ricomprese nelle classi previste dall’art.2, comma 1, non giustificate da condizioni psicofisiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero dirette a modificare i risultati dei controlli sul ricorso a tali pratiche. Da ultimo, al comma 7 è previsto il delitto di commercio di farmaci o di sostanze farmacologicamente o biologicamente attive, ricomprese nelle classi previste dall’art. 2, comma 1, in luoghi diversi dalle farmacie e altri parimenti autorizzati.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs n. 21/2018, le disposizioni dell’art. 9 della legge 376/200 sono state trasfuse all’interno dell’art 586 bis del codice penale, rubricato “Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”, il quale prevede in sostanza le condotte di eterodoping, autodoping e di commercio non autorizzato di sostanze dopanti. Un’unica modifica rilevante è stata quella dell’elemento soggettivo della condotta di commercio, sostituendo al dolo generico, che nella legge 376/2000 caratterizzava tale condotta, il dolo specifico («fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti»), compiendo, difatti, un sostanziale passo indietro [8], in quanto la norma previgente consentiva di sanzionare la condotta del soggetto agente anche se non era preordinata al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, estendendo così al di fuori dell’alveo sportivo l’applicabilità della stessa.
La norma in esame prevede, inoltre, delle circostanze aggravanti che comportano un aumento della pena se dal fatto deriva un danno per la salute, se è commesso nei confronti di un minorenne e, da ultimo, se il fatto è commesso da un componente o da un dipendente del Comitato olimpico nazionale italiano ovvero di una federazione sportiva nazionale, di una società, di un’associazione o di un ente riconosciuti dal CONI.
Alla pena principale (un periodo di reclusione da tre mesi fino a tre anni, che possono arrivare a sei nei casi di commercio abusivo) si aggiungono quelle accessorie dell’interdizione temporanea dall’esercizio della professione per il sanitario e permanente dagli uffici direttivi del Comitato olimpico nazionale italiano, delle federazioni sportive nazionali, società, associazioni ed enti di promozione riconosciuti dal CONI per i componenti e dipendenti degli stessi enti sportivi. È, altresì, prevista la confisca dei farmaci, delle sostanze farmaceutiche e delle altre cose servite o destinate a commettere il reato.
Conclusioni
A lume di quanto innanzi esposto, è indubbio che il ricorso a pratiche che provocano in modo artificioso un miglioramento delle prestazioni dell’atleta, con possibili danni alla sua salute, “costituisca un attentato alla stessa natura dell’attività sportiva”. L’attenzione va posta, pertanto, sia sui rischi per la salute dell’organismo di chi è sottoposto a doping e sia sul conseguimento di prestazioni che non rispecchiano le potenzialità naturali dell’atleta, “generando atteggiamenti di slealtà e di frode, che sono agli antipodi degli ideali che lo sport deve custodire e promuovere”. Ne discende che, come autorevole dottrina sostiene, si tratti “non solo di un abuso farmacologico, ma di una forma di mascheramento del vero talento sportivo, ottenuto mediante aggiustamenti velleitari e illusori”. Non sottaciuto che a destare preoccupazione ed allarme è la facilità con cui gli stessi atleti si lasciano suggestionare dal miraggio di un agevole successo, lasciandosi coinvolgere in una spirale inarrestabile dagli esiti ingannevoli e distruttivi [9].
La presente disamina della normativa antidoping ci consente, infine, di rilevare il tentativo di porre l’attenzione non tanto sul concetto di repressione del doping, quanto più su quello di prevenzione, anche attraverso l’educazione ad uno sport sano [10].
[1] Sul punto, https://www.gazzetta.it/Ciclismo/18-01-2013/lance-armstrong-confessa-epo-impossibile-vincere-7-tour-senza-doping-913879156086.shtml
[2] COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pag. 513.
[3] “Quando una sostanza o metodo sono potenzialmente idonei a migliorare la prestazione sportiva, ovvero quando espongono l’atleta ad un rischio, anche solo potenziale, per la sua salute ovvero quando rappresentano una violazione dello spirito sportivo, ed infine quando sono potenzialmente idonei a mascherare l’uso di una sostanza o metodo proibito”. LIOTTA, SANTORO, Lezioni di Diritto Sportivo, III edizione, Milano, 2016, pag. 264.
[4] nello specifico, è necessario, con il supporto di un medico specialista che attesti la patologia per la quale si richiede l’autorizzazione, inoltrare domanda di esenzione prima di iniziare l’assunzione del prodotto contenente la sostanza vietata, indicandone la posologia, la frequenza, la via e la durata di somministrazione della sostanza. COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pag. 515.
[5] Il Register Testing Pool (RTP), il cd. Gruppo registrato ai fini dei Controlli, è un elenco di atleti di alto livello istituito separatamente a livello internazionale dalle singole Federazioni Internazionali e a livello nazionale dalle organizzazioni antidoping nazionali (in Italia dalla NADO Italia) che sono sottoposti a controlli finalizzati, in o fuori gara. In pratica, tali atleti hanno l’obbligo di comunicare la loro reperibilità e, a tal fine, attraverso l’ADAMS, il software informatico Anti-Doping Administration & Management System, dovranno fornire le informazioni sulla propria reperibilità. Tali informazioni riguardano non solo la propria dimora notturna, le proprie attività di allenamento e lavorative o, ancora, le tabelle dei propri impegni agonistici, ma soprattutto l’indicazione di uno slot di 60 minuti, tra le 5 del mattino e le 23, per tutti i giorni dell’anno, nel corso del quale siano disponibili per i controlli. L’atleta deve garantire la propria presenza sul luogo indicato per tutta la durata dello slot. Tuttavia, l’atleta può attraverso l’ADAMS modificare lo slot indicato in precedenza anche poco prima dell’inizio dello stesso. Va rilevato però che tale operato se ripetuto nel tempo può comportare che gli atleti finiscano sotto indagine. COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pag. 518.
[6] Tale normativa non contiene alcun riferimento alla materia del doping, ma è stata usata da alcuni autori per non lasciare impuniti certi comportamenti, nonostante la ratio legis fosse quella di contrastare il fenomeno delle scommesse e della manipolazione dei risultati sportivi. All’art. 1 si fa riferimento alla nozione di “atti fraudolenti” utilizzati artificiosamente al fine di falsare il risultato e pervenire ad un esito guidato e differente da quello che si sarebbe potuto realizzare in un ambito di lealtà e correttezza sportiva. Su questa base si fece rientrare anche gli atti di doping, avendo la capacità di pervenire ad un risultato non veritiero e di ledere il bene tutelato dalla stessa legge, ossia il regolare svolgimento delle competizioni sportive. Per un approfondimento, si veda COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pagg. 538-539.
[7] COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pag. 546.
[8] COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pag. 548.
[9] si veda SANINO, Giustizia sportiva, Padova, 2018, ove è stata elaborata dall’autore una analisi completa del fenomeno.
[10] COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pag. 536.
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Raffaele Toriaco
Avvocato, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Foggia. Si è laureato nel 2018, presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, con una tesi in Diritto Sportivo dal titolo “Le misure antiviolenza nel calcio in Italia, tra prevenzione e repressione dei reati da stadio".
Dopo la pratica forense, si è abilitato all'esercizio della professione di avvocato nell’ottobre del 2021, presso la Corte d'Appello di Bari.
Nello stesso anno, ha approfondito la materia del diritto della proprietà intellettuale con il “Master online in Intellectual Property”, Business school Meliusform. Nel 2022 ha frequentato il Corso di perfezionamento in Diritto sportivo e Giustizia sportiva “Lucio Colantuoni”, organizzato dall’Università degli Studi di Milano.
È autore di pubblicazioni giuridiche e collabora con altre riviste giuridiche.
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