Cassazione: la barriera architettonica nei pubblici uffici è discriminazione indiretta del disabile
Commento a Cass. civ., Sez. III, sent. 13 febbraio 2020, n. 3691
Il diritto delle persone disabili di accedere autonomamente a strutture, aree pubbliche o edifici aperti al pubblico, è assicurato in loro favore dalla legge n. 67 del 2006, mediante l’eliminazione delle barriere architettoniche ivi presenti. L’interpretazione conforme alla Costituzione individua l’«accessibilità» come una «qualitas» essenziale degli edifici, quale conseguenza dell’affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici. Ciò risponde all’esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili su base costituzionale a garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest’ultima nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica. Su tali basi, la Corte di cassazione, sez. 3° civile, con la sentenza n.3691 del 13.02.2020, ha confermato il proprio orientamento in virtù del quale si ritiene integrata la fattispecie della cd. «discriminazione indiretta», in base alla legge n. 67 del 2006, anche quando l’accesso ad aree pubbliche sia interdetto o limitato per il disabile a causa dell’esistenza di apparati non adatti a rimuovere la barriera architettonica presente in un ufficio pubblico. Tale nozione prescinde da ogni volontà o intenzione discriminatoria del soggetto agente. La Cassazione dà continuità anche ai suoi precedenti che rimarcano il carattere immediatamente precettivo delle norme in materia. Considera, infatti, non legittimamente giustificabile la discriminazione o la situazione di qualsivoglia svantaggio in cui si vengano a trovarsi le persone portatrici di disabilità. Per la Suprema Corte, resta loro riconosciuto il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l’accessibilità sia impedita o limitata e ciò a prescindere dall’esistenza di una norma regolamentare apposita, che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi. [ABSTRACT ITA]
Access to public buildings, but also to buildings open to the public is ensured for the disabled by law no. 67 of 2006, through the elimination of architectural barriers. The interpretation in accordance with the Constitution identifies accessibility as an essential «qualitas» of buildings, as a consequence of the affirmation, in the social conscience, of the collective duty to remove, in advance, any possible obstacle to the implementation of the fundamental rights of people with disabilities physical. This responds to the need for a general safeguarding of the personality and rights of disabled people on a constitutional basis to guarantee the dignity of the person and the fundamental right to health of the interested parties, the latter understood in the meaning, precisely of art. 32 of the Constitution, also including mental as well as physical health. The sentence of the Court of Cassation, Section 3 ° civil, no. 3691 of 13.02.2020 considered the case of the so-called “indirect discrimination”, based on law no. 67 of 2006, even when access to public areas is forbidden or limited for the disabled due to the existence of equipment not suitable for removing the architectural barrier present in a public office. This is based on the fact that, this notion is independent of any discriminatory will or intention of the acting subject. The Cassation, in this way, gives continuity to its precedents. The character of the norms is immediately prescriptive. It considers that discrimination or the situation of any disadvantage in which people with disabilities find themselves is not legitimately justifiable. For the Supreme Court, recourse to anti-discrimination protection remains recognized to them, when accessibility is impeded or limited and this regardless of the existence of a specific regulatory provision, which attributes the qualification of architectural barrier to a given state of places. [ABSTRACT ENG]
Sommario: 1. Il caso – 2. Il ricorso per cassazione del Comune ed i motivi – 3. Il controricorso – 4. Il rigetto della Cassazione e l’accessibilità come qualitas essenziale degli edifici – 4.1. Il secondo motivo del ricorso e ragioni del rigetto – 4.2. La determinazione del danno – 5. Conclusioni
1. Il caso
Una signora convenne in giudizio un Comune dinanzi al Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Jesi. All’attrice era stata riconosciuta disabilità, ai sensi dell’art. 3, co. 3, legge 5 febbraio 1992, n. 104. La stessa, al tempo dei fatti di causa, rivestiva la carica consigliere del Comune convenuto in giudizio.
L’attrice lamentava di non poter accedere, in maniera autonoma, agli spazi dell’edificio comunale e alla sala consiliare dell’ente. Si doleva, in particolare, dell’assenza di un ascensore per disabili o, quanto meno, di una servoscala. Il risultato era che, per potere accedere alla sala delle adunanze, doveva essere guidata o, addirittura, trasportata dal personale comunale lungo due rampe di scale, per poi essere messa su una specie di “trattorino” o “montascale” per giungere, infine, all’aula consiliare. La domanda attorea era, quindi, finalizzata – nel suo oggetto – alla richiesta dell’ordine di cessazione immediata del comportamento discriminatorio, in uno alla condanna dell’ente convenuto alla realizzazione di un ascensore e/o di un servoscala, o comunque alla realizzazione delle opere ritenute più idonee. L’attrice domandava anche il risarcimento del danno, da liquidare equitativamente in suo favore.
Il Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, rigettò la domanda attorea. L’attrice propose gravame avverso la pronuncia di primo grado, incardinando l’azione presso la Corte di Appello di Ancona. L’appello esperito si concluse con l’accoglimento della domanda della donna disabile.
Con sentenza n. 1710 del 14 novembre 2017, la Corte anconetana ritenne, infatti, che la mancata eliminazione delle barriere architettoniche rappresentasse un ostacolo all’accesso di persone disabili agli uffici e alla sala consiliare del Comune. Tale condotta, ad avviso della Corte, realizzava “una discriminazione indiretta, ex art. 2, comma 3, della legge 10 marzo 2006, n. 67”. Alla declaratoria, segui in sentenza, anche, la condanna del già menzionato Comune a risarcire alla disabile i danni, che furono liquidati in via equitativa in 15mila euro.
2. Il ricorso per cassazione del Comune ed i motivi
Il Comune marchigiano propose ricorso cassazione avverso sentenza n. 1710/2017 della Corte d’appello territoriale. Articolò la posizione difensiva su due motivi.
Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., dedusse la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge 10 marzo 2006, n. 67, nonché dell’art. 1 della legge 9 gennaio 1989, n. 13, dell’art. 1 del D.M. 14 giugno 1989, n. 236, dell’art. 24 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 e, infine, dell’art. 1 del d.P.R. 24 luglio 1996, n. 503 e dell’art. 28 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150.
Il Comune, in primo luogo, negò la sussistenza dei presupposti della discriminazione indiretta.
La tesi difensiva venne articolata fondandosi sulla vetustà storica della struttura pubblica comunale, la cui edificazione fu ricondotta ai primi anni 50′ del secolo scorso. Da ciò, l’inapplicabilità dell’art. 1 della legge n. 13 del 1999, dettata per il superamento delle barriere architettoniche solo per “progetti di nuovi edifici“, ovvero per la “ristrutturazione di interi edifici“.
Su tale scorta, la difesa del Comune fondò le sue deduzioni, forte di un’interpretazione dell’art. 1 della legge n. 13 del 1999. La normativa dettata, per il superamento delle barriere architettoniche, doveva applicarsi, secondo la tesi del Comune, soltanto nel caso di “progetti di nuovi edifici“, oppure nell’ipotesi di “ristrutturazione di interi edifici“, come anche specificato dal regolamento di attuazione alla legge stessa.
In sostanza, la tesi interpretativa della difesa prese le mosse dal fatto che, l’art. 1, commi 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 503 del 1996 non avesse vigenza per gli edifici e gli spazi pubblici di vecchia costruzione o già esistenti, se non nel caso specifico in cui venissero sottoposti a ristrutturazione.
Stando a tale logica, nel caso di edifici oppure nel caso di spazi pubblici già esistenti, sarebbe stata prevista dalle norme solamente la realizzazione accorgimenti, atti migliorarne la fruibilità da parte dei disabili, “prevedendosi, in particolare, che – in attesa del predetto adeguamento – ogni edificio sia dotato, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore del predetto regolamento di attuazione, di un sistema di chiamata per attivare un servizio di assistenza tale da consentire, alle persone con ridotta capacità motoria o sensoriale, la fruibilità dei servizi espletati”[1].
Tra l’altro, ad avviso del Comune, le norme menzionate avrebbero una natura “programmatica”, le cui condizioni sarebbero state realizzate dal Comune stesso, attrezzando la struttura con un montascale regolamentare (definito dalla attrice disabile con il termine “trattorino”), a mezzo del quale sarebbe stato possibile per un qualsiasi disabile accedere autonomamente agli spazi pubblici, tutto ciò in attesa della realizzazione dell’ascensore idoneo al trasporto di persone con disabilità.
Per il Comune, l’erroneità dell’affermazione della sentenza impugnata risiederebbe nel fatto che, la mancata predisposizione di strumentari (montascale o ascensori per locomozione dei disabili) sia stata elevata dalla Corte anconetana a condotta di “omesso adeguamento alla normativa”, sebbene non diretta esplicitamente, a discriminare o danneggiare la libertà di movimento della disabile. Di qui, l’errata interpretazione dell’art. 2 della legge n. 67 del 2006.
Con il secondo motivo, il Comune ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge 1° marzo 2006, n. 67 e dell’art. 28 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150.
Anche qui, ad avviso della difesa dell’ente, ci sarebbe stata una erronea interpretazione delle norme da parte della Corte, che avrebbe minimizzato la valenza della misura provvisoria assunta (l’installazione del cd. «trattorino») che “prescinde del tutto dalla valutazione dell’elemento soggettivo dell’azione del Comune volta al superamento della barriera architettonica”, giacché l’adozione di tale misura dimostrerebbe l’insussistenza di “una condotta negligente o colposa” o, tantomeno, di “una volontà discriminatoria“[2].
Quanto, infine, alla violazione dei commi 5 e 6 dell’art. 28 del d.lgs. n. 151 del 2006, il Comune rilevò come la condanna risarcitoria – a carico di chi attui la discriminazione – sia puramente facoltativa. Nel caso di specie, mancherebbe del tutto quella condotta “intenzionalmente discriminatoria” che avrebbe potuto giustificare la pesante sanzione risarcitoria comminata, visto che il comma 6 del citato art. 28 individua uno dei criteri in base ai quali commisurare l’entità il risarcimento del danno proprio nel fatto che il comportamento discriminatorio costituisca una “ritorsione ad una precedente azione giudiziale“, ovvero “una ingiusta reazione ad una precedente attività nel soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”, […] avendo la Corte marchigiana riconosciuto che la condotta di esso Comune non era “diretta esplicitamente a discriminare e danneggiare“[3]
3. Il controricorso
La signora disabile propose controricorso, resistendo così all’impugnazione avversaria in sede di giudizio per cassazione. Per la difesa della controricorrente, il Comune marchigiano non avrebbe mai eccepito, nel corso del giudizio di appello, la datazione di origine del palazzo municipale risalente agli anni 50′ a sostegno delle proprie ragioni processuali. Di qui, l’inammissibilità della deduzione per la prima volta, in sede di legittimità.
Per ciò che concerne il merito, vieppiù aggiunse la deduzione di non fondatezza del primo motivo di ricorso, in ragione dello stesso art. 1, comma 4, del d.P.R. n. 503 del 1996.
Risulterebbe, infatti, evidente la mancata predisposizione di ciò che la difesa del Comune ha definito “accorgimenti idonei a migliorare la fruibilità negli uffici comunali e della sala consiliare da parte dei soggetti disabili”, visto che il “trattorino” (ossia, il montascale installato dal Comune) non avrebbe mai posseduto le caratteristiche tipiche di un montascale regolamentare, dato accertato dalla Corte d’appello di Ancona ed insindacabile in sede di legittimità.
Il punto centrale della difesa della controricorrente è, quindi, il risultato di un ragionamento giuridico articolato a sostegno della correttezza della decisione della Corte di merito circa la sussistenza della cd. “discriminazione indiretta“, almeno fino all’avvenuta installazione dell’ascensore, dal momento che sarebbero riconducibili a tale fattispecie anche “comportamenti apparentemente neutri, a prescindere dalla presenza di una intenzione o volontà discriminatoria in capo a chi li realizzi […]”.
“Inoltre, anche il secondo motivo di ricorso risulterebbe non fondato, poiché la sentenza impugnata non avrebbe affatto “minimizzato” – come ipotizzato dal ricorrente – la valenza della misura provvisoria adottata dal Comune, avendo le risultanze istruttorie confermato che esso non aveva affatto le caratteristiche regolamentari di un “servoscala”, risultando, pertanto, insicuro e non utilizzabile autonomamente da persona disabile. D’altra parte, nessuna censura potrebbe rivolgersi anche in relazione alle modalità con cui il giudice ha ritenuto di avvalersi del proprio potere discrezionale di liquidare il danno da condotta discriminatoria, trattandosi di potere ad esso riservato in via equitativa, nonché esercitato attraverso una decisione che risulta sorretta da motivazione immune da vizi logici o errori di diritto”[4].
4. Il rigetto della Cassazione e l’accessibilità come qualitas essenziale degli edifici
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il primo motivo del ricorso del Comune, nel punto ove attribuisce natura “programmatica” alle norme che impongono l’eliminazione delle barriere architettoniche[5].
I Giudici di legittimità hanno già affrontato, in passato, la quaestio iuris con sentenza Cassazione 23 settembre 2016 n. 18762 sulla tutela delle persone disabili vittime di discriminazione, affermando l’esistenza di un’ampia definizione legislativa e regolamentare di “barriere architettoniche e di accessibilità“, in base alla normativa sull’obbligo dell’eliminazione delle prime.
Con la decisione in commento, la Corte dà continuità al suo precedente dove, per altro, aveva già ampiamente riconosciuto il diritto per le persone con disabilità ad ottenere la rimozione delle barriere.
In quella sede aveva affermato la portata della norma “immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime“[…], consentendo loro “il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l’accessibilità sia impedita o limitata” ciò, a prescindere, “dall’esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi“[6].
La legge n. 67 del 2006 e le altre norme richiamate, prevedono, infatti, che sia assicurato ai disabili l’accesso a scuole e a edifici pubblici, ma anche a edifici aperti al pubblico, con l’eliminazione delle barriere architettoniche, con ciò rispondendo alla necessità di assicurare alla normativa suddetta un’interpretazione conforme a Costituzione.
La giurisprudenza costituzionale, a più riprese[7], ha teso ad evidenziare che l’accessibilità “è una «qualitas» essenziale” perfino “degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell’affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici“.
Il superamento delle barriere architettoniche – tra le quali rientrano[8] gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti – è stato previsto[9] per facilitare la vita di relazione delle persone disabili.
Ciò risponde all’esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili su base costituzionale a garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest’ultima nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica[10].
4.1. Il secondo motivo del ricorso e ragioni del rigetto
La Corte di Cassazione ha rigettato, anche, il secondo motivo alla base del ricorso del Comune, motivando articolatamente la decisione assunta. Prende in considerazione la posizione prioritariamente sposata dal giudice d’appello, che ha ritenuto integrata la fattispecie della cd. “discriminazione indiretta” in base alla legge n. 67 del 2006, sul dato che tale nozione prescinda da ogni volontà o intenzione discriminatoria del soggetto agente. Di fatto, il c.d. “trattorino” non era stato mai adeguato alle concrete esigenze di trasporto dei disabili nell’edificio comunale.
Nel precedente della Cassazione n. 18762/2016 era stato già osservato dalla Corte che, per riconoscere la natura discriminatoria di “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri”, in ogni caso si […] “presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dall’art. 3, comma 3, della legge n. 67 del 2006“.
Nel caso della sentenza in commento, tale censura consiste nella richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del “trattorino” a garantire l’accessibilità all’edificio municipale, riservata alle fasi e ai gradi del giudizio di merito, ma non consentita in sede di legittimità: donde la sua inammissibilità dichiarata dai giudici nella motivazione della sentenza della Corte di Cassazione, Sez. 3° civile, n.3691 del 13.02.2020, qui in commento.
4.2. La determinazione del danno
La questione accennata riguarda, anche, i criteri di determinazione del danno in sede del giudizio di merito. Il risarcimento del danno di 15mila euro, liquidato dalla Corte d’appello di Ancona in favore della disabile, era stato disposto su base equitativa.
Il punto nodale affrontato la Corte nella decisione in esame riguarderebbe l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno equitativamente, insuscettibile di sindacato in sede di legittimità”, a condizione che “la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito“[11].
Il problema motivazionale dei Giudici di Cassazione si incentra sull’esigenza di “evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo“.
A tal fine, anche qui, la Cassazione richiama un suo precedente in pronuncia del 31 gennaio 2018, n. 2327, dove ha precisato la necessità che il giudice indichi, anche solo “sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al «quantum»”, senza però che egli sia “tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata” (in tal senso, Cass. Sez. 3, sent. 10 novembre 2015, n. 22885).
Nell’ipotesi in questione, la Corte d’appello di Ancona opera la quantificazione del danno patito dalla disabile, tenendo in considerazione una serie di elementi tra cui “la destinazione d’uso del fabbricato interessato, della qualifica rivestita all’epoca dall’istante, nonché del periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione di inadempienza dell’ente territoriale”, così indicando i criteri seguiti nella determinazione del “quantum“[12].
La Corte d’appello utilizza tali elementi, considerando inoltre l’arco temporale del disagio patito dalla consigliera fino alla (tardiva) realizzazione dell’ascensore per disabili, atto che risolve il superamento definitivo della barriera architettonica. In ciò si giustifica, anche, la liquidazione del quantum del danno patito dalla disabile.
Altro dato, tenuto in conto, è il fatto che non essendo garantito l’accesso alla sala consiliare e agli uffici comunali, il Comune aveva organizzato le sedute presso l’attigua palestra della scuola elementare, proprio per consentire la partecipazione più agevole all’interessata, salvo poi – una volta preso atto delle sue dimissioni da consigliere – tornare a svolgere le riunioni nella sede istituzionale. Di qui, pertanto, la condanna del Comune al solo risarcimento del danno, essendo “medio tempore” cessata la condotta discriminatoria, attraverso la realizzazione dell’ascensore per disabili.
5. Conclusioni
In estrema sintesi conclusiva, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Comune, condannandolo alle spese del giudizio.
In questa pronuncia, la Corte riflette la coscienza sociale e il dovere collettivo di rimuovere ogni ostacolo per consentire l’esercizio dei diritti fondamentali dei soggetti colpiti da disabilità. Sulla scia delle pronunce della Consulta, l’accessibilità è identificata dalla Cassazione come una qualità essenziale degli edifici di nuova costruzione. Nei tratti della motivazione della sentenza in commento, si arriva ad una affermazione in più, ossia che a prescindere dalla vetustà o meno dell’edificio, sia esso privato o pubblico, resta risarcibile il danno in favore del disabile laddove subentri una limitazione del diritto all’accessibilità, costituendo una discriminazione indiretta ai suoi danni.
Note bibliografiche
[1] Corte Cass., sez. 3° civ., sent. n.3691 del 13.02.2020 (ECLI:IT:CASS:2020:3691CIV), udienza del 15.10.2019, Presidente TRAVAGLINO Giacomo; Relatore GUIZZI Stefano G., in www.italgiure.giustizia.it
[2] Id. Corte Cass, sez. 3° civ., sent. n.3691/2020, p. 3, in www.italgiure.giustizia.it
[3] Id. Corte Cass, sez. 3° civ., sent. n.3691/2020, p. 3, in www.italgiure.giustizia.it
[4] Id. Corte Cass, sez. 3° civ., sent. n.3691/2020, p. 4, in www.italgiure.giustizia.it
[5] Il primo motivo, per la restante parte, è considerato dalla Corte di cassazione, addirittura inammissibile laddove il ricorrente deduce di aver ottemperato al dovere di apportare all’edificio municipale “tutti quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei disabili”, attraverso la messa disposizione del “trattorino“, lamentando, così, la violazione, in particolare, dell’art. 1, comma 3, del d.P.R. n. 503 del 1996. Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla portata applicativa dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., e ciò alla stregua del principio secondo cui “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole del fatto che il “trattorino” non sia stato ritenuto accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità dell’edificio municipale in attesa dell’installazione dell’ascensore – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord.13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché Cass. Sez. 3, ord.13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
[6] così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23 settembre 2016, n. 18762, Rv. 642103-02 (ECLI:IT:CASS:2016:18762CIV), udienza del 23/02/2016, Presidente AMENDOLA Adelaide; Relatore BARRECA Giuseppina L., in www.italgiure.giustizia.it
Corte cost., sent. n. 167 del 1999, in www.cortecostituzionale.it; in senso conforme, Corte cost. sent. n. 251 del 2008, in www.cortecostituzionale.it
[8] ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera b), del d.P.R. n. 503 del 1996.
[9] comma 1 dell’art. 27 della legge n. 118 del 1971.
[10] Id. Corte cost. sent. n. 251 del 2008, op.cit.
[11] Cass. Sez. 3, sent. 13.10.2017, n. 24070, Rv. 645831-01; Cass. Sez. 1, sent. 15.03.2016, n. 5090, Rv. 639029-01.
[12] Id. Corte Cass, sez. 3° civ., sent. n.3691/2020, p. 3, in www.italgiure.giustizia.it.
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Avvocato, iscritta presso Ordine Avvocati di Salerno, con patrocinio in Corte di Cassazione e altre Magistrature Superiori.
Laureata in Giurisprudenza nel 1994 presso UNISA-Università degli Studi di Salerno.
Tra i vari, titoli conseguiti si annoverano:
Specializzazione universitaria in professioni legali; Master universitario in E-Government e Management della Pubblica Amministrazione; Master universitario in diritto amministrativo.Dal 2019 è membro confermato del Consiglio Direttivo Provinciale di Salerno dell’associazione Nazionale-Europea A.N.AMM.I.. Ha, inoltre, conseguito idoneità in concorso pubblico per titoli ed esami per attività giuridico-amministrativo e medico-legale del laboratorio di igiene e medicina del lavoro presso UNISA (Dipartimento di medicina e chirurgia), Scuola Medica Salernitana dell´Università degli studi di Salerno.Dal 2020 ha conseguito titoli di aggiornamento professionale per funzioni di mediatore civile e commerciale; idoneità REI CINECA (collaboratori Area Economica) per docenza, esercitazioni/laboratori, didattica presso UNIMIB Università degli Studi di Milano-Bicocca; idoneità Collaboratori Alta Formazione triennio 2019 - 2022 - Area Giuridica/ Higher Education Collaborators – presso UNIMIB Università degli studi Milano Bicocca.
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