Cassazione, omicidio colposo per il medico sportivo che attesti con eccessiva negligenza l’idoneità allo sport agonistico
La Suprema Corte di Cassazione con una recentissima sentenza, la n. 20943 del 17 maggio 2023, è tornata a pronunciarsi sulla responsabilità penale del medico sportivo, sancendo il principio secondo cui risponde di omicidio colposo il sanitario che attesti l’idoneità alla pratica sportiva agonistica di un atleta, in seguito deceduto durante un allenamento ciclistico, a causa di una patologia cardiologica non diagnosticata dallo specialista per l’omessa effettuazione di esami strumentali più approfonditi nonostante la presenza di anomalie del tracciato elettrocardiografico.
Prima di passare alla disamina dell’anzidetto provvedimento, è opportuno un breve cenno alla tutela sanitaria delle attività agonistiche e non.
La tutela sanitaria delle attività sportive è disciplinata dalla Legge 26 ottobre 1971, n. 1099, la quale al comma 1 dell’art. 2 stabilisce che la stessa venga garantita mediante l’accertamento obbligatorio, con visite mediche di selezione e di controllo periodico, dell’idoneità generica e della attitudine di chi desidera praticare regolarmente attività sportiva e di chi intende svolgere o svolge attività agonistico sportive.
Prima di proseguire con la trattazione della normativa di riferimento, va sottolineato come la regolamentazione della medicina sportiva sia divenuta sempre più rigorosa con il verificarsi di accadimenti anche drammatici che hanno coinvolto atleti e sportivi; ne sono prova alcuni gravi episodi che sono rimbalzati agli onori delle cronache non solo sportive, anche in tempi recenti. In ambito professionistico, infatti, la legislazione in materia è maggiormente articolata con l’istituzione di una scheda sanitaria che attesta l’avvenuta effettuazione degli accertamenti sanitari prescritti e che, aggiornata dal medico sociale con periodicità almeno semestrale, accompagna l’atleta professionista nel corso della sua carriera.
Ciò posto, il Ministero della Sanità, dapprima con il D.M. 5 luglio 1975 e successivamente con i D.M. 18 febbraio 1982 e 28 febbraio 1983, ha disciplinato l’accesso alle singole specialità in relazione all’età ed al sesso degli atleti professionistici e non. Inoltre, ha indicato, altresì, le visite obbligatorie e periodiche a cui l’atleta deve sottoporsi, tenendo conto della specificità dell’attività sportiva dallo stesso praticata, per il riconoscimento dell’idoneità e dell’attitudine dello stesso allo svolgimento dell’attività agonistica. La relativa certificazione di idoneità può essere rilasciata esclusivamente da un medico specializzato in Medicina dello Sport, che operi presso Centri di Medicina dello sport delle Aziende Sanitarie Locali o presso strutture private accreditate dalla Regione.
Rimandando ad altra sede una succinta disamina del D.M. 4 marzo 1993 che disciplina, invece, la concessione dell’idoneità sportiva agonistica ai portatori di handicap, è d’uopo il riferimento al D.M. 24 aprile 2013 e successive modifiche che, in materia di certificazione dell’attività sportiva non agonistica ed amatoriale, abrogando il D.M. 28 febbraio 1983, distingue l’attività non agonistica in “attività ludico-motoria” e “attività non agonistica in senso proprio” stabilendo differenti adempimenti. In particolare, è stato soppresso l’obbligo di certificazione per l’attività ludico-motoria o amatoriale “per non gravare cittadini e Servizio sanitario nazionale di ulteriori onerosi accertamenti e certificazioni”; viceversa, resta fermo l’obbligo per quella “non agonistica” e per tutte quelle attività che richiedono un elevato impegno cardiovascolare [1]. In tal caso, è necessario sottoporsi preventivamente e periodicamente ad una visita medica finalizzata ad accertare lo stato di salute dell’interessato, al quale, ricorrendone i presupposti, verrà rilasciata una certificazione di stato di buona salute [2]. Competenti al rilascio del certificato di idoneità alla pratica non agonistica sono: i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta limitatamente ai propri assistiti, nonché i medici specialisti in medicina dello sport.
La vicenda. Tizio recatosi presso un poliambulatorio, al fine di effettuare una visita medico-sportiva, finalizzata al rilascio di un certificato di idoneità sportiva agonistica, veniva sottoposto dal dott. Caio, medico specialista, ad un ecg da sforzo ed al termine riceveva certificazione di idoneità alla pratica agonistica del ciclismo. L’anno successivo, il sanitario visitava nuovamente l’atleta e, previa esecuzione dell’ecg da sforzo ritenuto nella norma, certificava nuovamente al paziente l’idoneità alla pratica agonistica del ciclismo, richiedendo, tuttavia, di effettuare un “ecocardiogramma per extrasistolia in fase di recupero”. Ottenuta la prescrizione medica di tale esame dal proprio medico di base, Tizio eseguiva l’accertamento con diagnosi “dilatazione biventricolare. IM ed IP lievi.”. Nel corso del consueto allenamento ciclistico, dopo 30 minuti si accasciava sul ciglio della strada e poco dopo ne veniva constatato il decesso. L’autopsia evidenziava che la morte era dovuta ad “arresto cardiaco acuto da verosimile recidiva d’infarto in soggetto con esiti di pregresso infarto del miocardio anterosettale in sede subendocardica, cardiomiopatia ipertrofico-dilatativa e coronaropatia”.
Il giudice di primo grado, condividendo le considerazioni svolte dai periti nominati in sede di incidente probatorio, riteneva la morte di Tizio causata dalla condotta colposa del dott. Caio.
Successivamente, anche la Corte di appello condivideva integralmente le argomentazioni del Tribunale. Per la Corte bolognese, la perizia d’ufficio e le dichiarazioni rese dal consulente tecnico della difesa dinanzi al Tribunale non lasciavano dubbi in ordine ai profili di colpa addebitabili all’imputato in occasione delle visite mediche e degli accertamenti prodromici al rilascio del certificato di idoneità agonistica nonché al nesso causale tra tale comportamento colposo e il decesso della vittima. Infatti, secondo la Corte distrettuale, in caso di corretta valutazione degli esiti degli esami (in particolare, di ecg da sforzo e in fase di recupero) e di esatta diagnosi della patologia, si sarebbero potuti suggerire al paziente: “a) una completa valutazione cardiologica e una coronarografia che avrebbero portato all’approntamento di una terapia medica; b) un antiaggregante piastrinico (aspirina o simili); c) una statina per ridurre il livello ematico di colesterolo e proteggere la parete delle arterie; d) un beta bloccante per ridurre il consumo di ossigeno del miocardio e proteggerlo da possibili aritmie ipercinetiche da ipertono simpatico”; e) la non sottoposizione a sforzi fisici intensi quali l’attività sportiva agonistica caratterizzata da attività motoria al di sopra della pericolosa soglia ischemica, idonea provocare discrepanza ossigenativa su una parte del muscolo cardiaco. Tali azioni avrebbero certamente evitato il decesso dell’atleta”.
Pertanto, avverso la decisione di secondo grado lo specialista promuoveva ricorso in Cassazione, articolando plurimi motivi di doglianza.
Orbene, secondo i Giudici di Piazza Cavour il ricorso è inammissibile.
La decisione della Suprema Corte. Gli Ermellini hanno evidenziato che il Giudice del gravame ha puntualmente indicato, nel provvedimento impugnato, tutti gli elementi atti a dimostrare come la morte del ciclista fosse conseguita eziologicamente alla condotta colposa del Dott. Caio. In particolare, è stato rilevato come già il primo ecg fosse indicativo di un’ischemia miocardica infero-laterale con test positivo per ischemia miocardica inducibile e che, inoltre, il successivo ecg avesse mostrato la comparsa di inversione dell’onda T in A VL, V1 e V2 ed extrasistolie in fase di recupero, aspetti tutti indicativi di un peggioramento dello stato di salute dell’atleta.
Pertanto, secondo i Giudici di legittimità, è stato correttamente sottolineato che, stante la presenza di elementi diagnostici indicativi con certezza di ischemia miocardica inducibile e di aritmie ventricolari complesse, il sanitario avrebbe dovuto astenersi dal rilasciare (nel 2012 e nel 2013) il certificato di idoneità allo svolgimento di attività sportiva agonistica sulla base dei “Protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità allo sport agonistico”.
Invero, gli esiti degli ecg effettuati avrebbero dovuto ingenerare nel medico il sospetto della sussistenza di una cardiopatia ischemica, per cui sarebbe stato necessario svolgere esami strumentali più approfonditi e specifici in luogo di un semplice ecocardiogramma.
Per quanto concerne la sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva colposa e il decesso si è chiarito che, a fronte di un tracciato ECG patologico, se il medico non avesse rilasciato il certificato di idoneità alla pratica agonistica del ciclismo e avesse indirizzato il paziente ad una completa valutazione cardiologica, con ragionevoli probabilità l’atleta non avrebbe proseguito gli allenamenti intensi in bicicletta, idonei a provocare “una discrepanza ossigenativa su una parte del muscolo scheletrico”.
Nello specifico, la morte dell’atleta, avvenuta per arresto cardiaco improvviso nel corso di attività sportiva, è stata attribuita alla scarsa ossigenazione di una parte del tessuto miocardico – circostanza ascrivibile all’ischemia del miocardio non diagnosticata – aggravata dal superamento di una certa soglia di sforzo fisico, che aveva innescato le aritmie ventricolari maligne.
Secondo i Giudici del Palazzaccio, l’impiego esigibile della media diligenza e perizia medica avrebbe dovuto comportare, non già la superficiale diagnosi che aveva dato luogo al rilascio del certificato di idoneità sportiva, bensì l’effettuazione di ulteriori esami approfonditi che avrebbero evitato, con ampio margine di probabilità, la morte di Tizio, la quale, invece, avveniva improvvisamente durante la rischiosa attività fisica espletata.
In altri termini, la Corte sottolinea come i giudici di merito abbiano accertato che la morte improvvisa di Tizio poteva e doveva essere scongiurata mediante un diligente ed oculato comportamento professionale del dott. Caio., mentre quello diverso da lui tenuto, nel caso di specie, si palesava, sotto il duplice profilo della negligenza e dell’imperizia, colposo ed eziologicamente incisivo sul determinismo dell’evento mortale, avendo consentito l’automatica ammissione del soggetto all’attività sportiva, incompatibile con la sua situazione clinica ed essendo, di contro, altamente credibile che la sua morte sarebbe stata evitata, se non avesse svolto l’allenamento ciclistico.
[1] Sul punto, si veda PITTALIS, Fatti lesivi e attività sportiva, Milano, 2016, pagg. 196-197.
[2] È obbligatoriamente prevista la misurazione della pressione arteriosa nonché l’effettuazione di un elettrocardiogramma a riposo da parte del medico certificatore che, laddove vi siano esiti sospetti, deve richiedere gli opportuni accertamenti specialistici integrativi. Per un approfondimento, si veda PITTALIS, Fatti lesivi e attività sportiva, Milano, 2016, pagg. 206-207.
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Raffaele Toriaco
Avvocato, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Foggia. Si è laureato nel 2018, presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, con una tesi in Diritto Sportivo dal titolo “Le misure antiviolenza nel calcio in Italia, tra prevenzione e repressione dei reati da stadio".
Dopo la pratica forense, si è abilitato all'esercizio della professione di avvocato nell’ottobre del 2021, presso la Corte d'Appello di Bari.
Nello stesso anno, ha approfondito la materia del diritto della proprietà intellettuale con il “Master online in Intellectual Property”, Business school Meliusform. Nel 2022 ha frequentato il Corso di perfezionamento in Diritto sportivo e Giustizia sportiva “Lucio Colantuoni”, organizzato dall’Università degli Studi di Milano.
È autore di pubblicazioni giuridiche e collabora con altre riviste giuridiche.
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