Cassazione: primo via libera alla stepchild adoption
La Suprema Corte di Cassazione, I sez. civ., con la sentenza n. 12692 del 26 maggio 2016, respingendo il ricorso del Procuratore generale, ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Roma – sez. minorenni, con la quale era stata accolta la domanda di adozione di una minore, proposta dalla partner della madre biologica, convivente con lei in modo stabile.
Si tratta di una decisione di ampio rilievo, e che già ha suscitato ampie polemiche, costituendo la prima ipotesi di adozione co-parentale riconosciuta dalla Corte di Cassazione; con tale sentenza gli ermellini hanno posto un punto fermo nel dibattito sulla genitorialità omosessuale, che tanto ha animato l’opinione pubblica, anche alla luce della recente legge n. 76/2016, recante la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, dal cui testo definitivo è stata stralciata proprio la norma sulla stepchild adoption.
Ancora una volta, laddove il legislatore ha rinunciato a cogliere le esigenze concrete di tutela, e ad introdurre una riforma completa ed effettivamente innovativa, è stata la giurisprudenza ad assumere quel ruolo di protagonista ed interprete dell’adeguamento dell’ordinamento alla coscienza sociale, e alle sue evoluzioni.
Due sono stati i profili esaminati dalla Corte Suprema nella suddetta sentenza: nella prima parte, la Corte ha chiarito che l’adozione “in casi particolari” ex art. 44, comma 1 legge 1983/184 non comporta ex se un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, essendo, invece, necessario che tale conflitto vada accertato in concreto, caso per caso.
Gli ermellini, ricostruendo tutto il quadro normativo anche alla luce delle fonti internazionali, (in particolar modo con riferimento alla Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1989) hanno escluso che nella procedura di adozione ex art 44, comma 1 legge 1983/184 sussista una situazione di conflitto di interessi in re ipsa tra il genitore-legale rappresentate e il minore adottando, ritenendo, piuttosto, che tale (eventuale) incompatibilità debba essere accertata in concreto, con riferimento alle singole situazioni dedotte in giudizio. Nel caso in esame, la Corte di Appello di Roma già si era espressa sul punto, respingendo la richiesta, avanzata dal Procuratore generale, di nomina di un curatore speciale per la minore, con motivazione ritenuta adeguata dalla Corte Suprema, e, pertanto, incensurabile in sede di legittimità.
Nella seconda parte della sentenza, la Corte Suprema ha affrontato la questione relativa all’interpretazione dell’art. 44, comma 1 lettera d) l. 1983/184, il quale prevede che l’adozione di minori possa avvenire (ove non ricorrano i presupposti per l’adozione cd legittimante)”in caso di constatata impossibilità di affidamento preadottivo“.
Da tempo la giurisprudenza si è interrogata in merito al significato da attribuire al termine “impossibilità”. Inizialmente è stata preferita un’interpretazione restrittiva, volta a concepire l’impossibilità di affidamento preadottivo come “impossibilità di fatto“, richiedente, quindi, la sussistenza di una situazione di abbandono del minore. Recentemente, però, si è venuta a consolidare un’interpretazione più estensiva, volta a concepire l’impossibilità non più solo come “di fatto“, ma anche “giuridica“, ossia “di diritto“, consentendo, in tal modo, l’adozione anche nell’ipotesi in cui il minore non si trovi in uno stato di abbandono in senso tecnico-giuridico.
La Corte ha accolto questo orientamento, e, analizzando anche gli ultimi interventi legislativi in materia di filiazione, nonché la ratio ad essi sottesa, tutta improntata alla tutela e al perseguimento del “best interest” del minore, ha affermato che la tesi “restrittiva” ostacolerebbe proprio il perseguimento del suddetto interesse, non consentendo la stabilizzazione e il riconoscimento giuridico di quei legami affettivi, che, invece, per il minore costituiscono punti di riferimento. L’obiettivo, quindi, è il consolidamento dei rapporti tra il minore e le persone che già si occupavano di lui, come precisato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 383/1999, richiamata espressamente dalla Corte Suprema. Tale interpretazione, ha affermato la Corte Suprema, si pone, quindi, in perfetta linea con la ratio legis dell’istituto dell’adozione “in casi particolari“, e in particolar modo della ipotesi disciplinata dalla lettera d) dell’art. 44, comma 1, concepita come clausola residuale per tutti quei casi non inquadrabili nell’ambito dell’adozione “legittimante“, e non rientranti nelle altre ipotesi di cui alle lettere a) b) e c) art. 44, comma 1.
La Corte, poi, richiamandosi anche alla più recente giurisprudenza della Corte EDU (X e altri contro Austria) ha ribadito che l’analisi dei presupposti richiesti dalla legge non possa in alcun modo essere svolta, anche indirettamente, dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente l’adozione, e alla conseguente natura della relazione stabilita con il proprio partner. La non discriminazione, quindi, viene in gioco sia con riferimento ai genitori, ma anche, e soprattutto, con riferimento ai minori, sempre in quell’ottica di perseguimento del “best interest of child“, che deve costituire l’obiettivo primario nelle decisioni riguardanti gli stessi; gli ermellini, quindi, hanno ritenuto che i minori non possano essere discriminati per il solo fatto di vivere in una famiglia omosessuale, sussistendo anche per quest’ultimi un diritto alla continuità affettiva e alla stabilità dei rapporti affettivi e familiari già formatisi, ribadendo, ancora una volta, la centralità del minore per ogni tipo di coppia, etero ed omosessuale.
Fermo restando che anche, e soprattutto, in tali casi dovrà essere il Giudice a valutare la sussistenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge, e, dopo un’accurata e rigorosa indagine di fatto, ad ammettere tale tipo di adozione, solo laddove la stessa realizzi effettivamente il preminente interesse del minore.
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Alessandra Cautela
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