Causalità della colpa e causalità della condotta: l’errore medico nel tempo
La causalità assume notevole rilevanza nell’ambito giuridico penale, non solo perché il nesso eziologico tra condotta ed evento costituisce uno degli elementi essenziali di qualsiasi fattispecie incriminatrice – sia che si sposi la concezione tripartita o bipartita del reato -; ma anche ai fini della c.d. “suitas” della condotta. Essa, infatti, permette di coordinare la ratio sottesa all’intervento del legislatore ordinario, in materia penale, al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, attraverso l’imputazione soggettiva della condotta all’evento. In tali termini, deve interpretarsi il primo comma dell’art. 40 c.p., ai sensi del quale: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione”.
Tuttavia, la carenza di sufficiente precisione di tale norma ha determinato, oltre a problemi di ossequioso coordinamento con il principio di tassatività in materia penale, (di cui la chiarezza e la determinatezza delle disposizioni ne costituiscono corollari); il proliferare di una congerie di teorie dottrinali, volte ad individuare la reale portata normativa da conferire alla parola “conseguenza”.
Tra queste, merita prima menzione la c.d. teoria condizionalistica, secondo cui, una condotta umana è causa dell’evento, quando essa costituisce condicio sine qua non della verificazione dello stesso; ossia quando attraverso un giudizio contro fattuale, ad eliminazione mentale, si ottiene che: eliminando ipoteticamente la condotta, l’evento non si sarebbe prodotto. Alla teoria naturalistica, -che conferma, tra l’altro, l’inoperatività epistemologica dell’indeterminismo della fisica quantistica in ambito giuridico tout court inteso -, si sono succedute altre teorie, che si sono configurate come “meri” correttivi dell’eccessivo rigidismo, a cui la stessa portava.
Difatti, sia la teoria della causalità adeguata che quella della causalità umana furono preordinate a stemperare gli eccessi di addebitabilità, derivanti da una concezione della causalità del tutto avulsa dalla ontologica multifattorialità degli eventi, naturalisticamente intesi; sicché, alla luce di tale limite, introducevano, rispettivamente, il correttivo dell’individuazione della “condicio determinante”, ricorrendo alle massime di esperienze (id quod plerumque accidit); ovvero, alla prevedibilità in concreto dell’evento da parte del soggetto, che ha tenuto la condotta. Entrambe, tuttavia, non superarono le critiche mosse in merito alla loro eccessiva indefinitezza: circa, ad esempio, il generico riferimento a massime di esperienze, che, in quanto tali, esulavano da qualsiasi fondamento scientifico (causalità adeguata); né quelle relative ai loro labili confini con il giudizio di colpevolezza, a cui si sovrapponeva, infatti, la valutazione di prevedibilità dell’evento da parte dell’autore della condotta (causalità umana). Da qui, il pericoloso “individualismo” che, inevitabilmente, hanno prodotto in sede applicativa: fermo il ripudio di una valutazione in astratto, ai fini di un riscontro processuale di colpevolezza, alla luce di entrambe le teorie si rese palese il rischio di un inaccettabile ampliamento della discrezionalità del giudice, in sede di accertamento del nesso eziologico tra condotta ed evento, in relazione al rilevo causale della prima, siccome calata nel caso concreto sottoposto al suo esame.
Pertanto, al fine di soddisfare l’esigenza di una maggiore certezza dei rapporti giuridici processuali ed obiettività dell’apprezzamento giudiziale degli stessi, la dottrina, tuttora, dominante elaborò la teoria della causalità scientifica, recepita anche in sede giurisprudenziale, secondo cui: l’azione è causa dell’evento quando, secondo leggi scientifiche di copertura, si attesta con certezza o elevata probabilità che l’evento non si sarebbe verificato se non vi fosse stata l’azione. O meglio, si accoglie la tesi in base alla quale il giudice deve verificare se quell’evento è conseguenza di quell’azione od omissione, avuto riguardo alle leggi scientifiche universali (se esistenti) o statistiche, (ossia con percentuale pari o vicina a 100), ritenute valide, non in astratto, ma in quel preciso momento storico di produzione dell’illecito, anche attingendo da eventuali massime di esperienza, nonché, (in particolare nel giudizio di colpevolezza), al grado di prevedibilità da attribuire all’agente, in base al suo livello culturale, di istruzione ecc. ( ciò in forza del carattere dinamico della causa).
Tali approdi ermeneutici in tema di causalità, subiscono una parziale variazione quando la “conseguenza” derivi non da un fatto “commissivo”, bensì da un fatto “omissivo”.
Difatti, superata l’anacronistica concezione ottocentesca di una causalità omissiva, relegata ad un minore grado di accertamento e di rigore probabilistico; adesso, di contro, si richiede un duplice procedimento ad eliminazione/sostituzione mentale, che postula una duplice sussunzione alle leggi scientifiche di copertura. Il riferimento è all’art. 40 , secondo comma, secondo cui: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Pertanto, da un lato, si deve ipoteticamente sostituire l’azione non tenuta a quella che avrebbe dovuto tenersi e, attraverso un procedimento ad eliminazione mentale, accertare se venuta meno quest’ultima, l’evento non si sarebbe prodotto; dall’altro, si deve operare una duplice sussunzione sia alla legge scientifica che accerta la causa naturale dell’evento, sia a quella che vincola a tenere il comportamento omesso al fine di impedire l’evento, con certezza o elevata probabilità.
Ebbene, con riguardo ai profili della causalità omissiva in campo medico, non poche sono state le problematiche sorte in merito al grado probabilistico richiesto dalla legge scientifica di copertura, che attesti l’idoneità dell’omissione a produrre l’evento lesivo, e che postula, per l’effetto, la portata giuridica dell’obbligo di garanzia, gravante sul medico, titolare dei relativi poteri impeditivi.
Difatti, l’obbligo di garanzia, posto a fondamento dei reati omissivi impropri, si distingue dall’ obbligo di sorveglianza e da quello di attivarsi, per la preesistenza, in capo a specifiche categorie di soggetti, di poteri giuridici, impeditivi di eventi lesivi, che offendono beni giuridici appartenenti a soggetti incapaci di autotutelarsi.
Con riguardo alla causalità omissiva medica, si sono susseguiti diversi orientamenti giurisprudenziali che alternativamente ravvisavano la responsabilità penale del professionista nella violazione in re ipsa dell’obbligo di garanzia; ovvero la estendevano accogliendo una soglia minima di verificazione “possibilistica” dell’evento (pari anche al 30 %) o, ancora, non conferendo alcun valore alla riduzione del rischio da parte del medico omittente. In tutti i suesposti casi, si determinava una indebita identica sovrapposizione tra obbligo di diligenza ed obbligo di garanzia, e correlata imputazione oggettiva dell’evento lesivo.
Sicché, per evitare un’inammissibile violazione dell’art. 27 Cost., a partire dal 2000, il Giudice di legittimità ha cercato di salvaguardare il carattere personale della responsabilità penale optando, dapprima, per un rigore maggiore richiesto alla fonte giuridica dell’obbligo di protezione: ci si attestava su un livello probabilistico vicino alla certezza, in ossequio alla regola probatoria dell’ “aldilà di ogni ragionevole dubbio”. Successivamente, le Sezioni Unite, investite del contrasto giurisprudenziale, al fine di chiarire la nozione di “certezza processuale” e di contemperare gli intollerabili eccessi degli opposti orientamenti, ha, infine, adottato il criterio probabilistico in concreto, anche in sede di responsabilità colposa omissiva del medico. Ripudiando qualsiasi automatismo in astratto, il supremo consesso ha invitato gli operatori del diritto a verificare se l’illecito in quel momento cagionato, non si sarebbe prodotto se il medico avesse agito conformemente all’obbligo di protezione cui è preposto, non “in astratto”, ossia sulla base della mera percentuale probabilistica prevista dalle leggi scientifiche di copertura; ma valutando, in concreto, se, nel caso di specie, nonostante l’elevata probabilità ivi sancita, si siano innescati fattori causali alternativi idonei a far venir meno il nesso eziologico. Sicché, se per l’accertamento della causalità era sufficiente un’elevata probabilità di un nesso tra condotta ed evento; per l’accertamento probatorio occorreva la raggiunta certezza processuale dell’esistenza di tale grado probabilistico.
In merito alla pregnanza di “cause da sole sufficienti a determinare l’evento” (art. 41, secondo comma), rileva precisare che in sede di causalità omissiva, si sono traslati i risultati cui dottrina e giurisprudenza sono pervenute con riguardo ai reati commissivi: ossia, dandosi rilievo ai fattori “eccezionali”, rispetto ai quali le leggi scientifiche attestino una minima o assente probabilità di verificazione.
Tuttavia, anche in tal caso, il recepimento ha subìto delle variazioni. Difatti, con riguardo agli errori terapeutici commessi da medici in momenti temporali diversi, da ultimo la Suprema Corte, ha fatto proprio un orientamento risalente, secondo cui, ai fini dell’interruzione del nesso eziologico, deve aversi riguardo non tale al carattere “eccezionale”, “statisticamente imprevedibile” del fattore causale sopravvenuto; quanto piuttosto al suo carattere “eccentrico”. Si riprende, quindi la teoria del “rischio consentito” da attività pericolosa giuridicamente autorizzata, poiché socialmente utile, quale corollario di un’ altra teoria della causalità: la c.d. teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento. Secondo quest’ultima, infatti, il medico che abbia errato nell’intervento di osteosintesi, applicando al paziente viti eccessivamente grandi, non risponde anche dell’errore dell’altro medico, il quale, sbagliando nell’individuare il gruppo sanguigno del paziente in sede di emotrasfusione, ne cagioni la morte. Di contro, è altresì vero, che il paziente, non si sarebbe sottoposto ad un nuovo intervento, richiedente un’emotrasfusione, se il primo medico non avesse errato nell’applicazione delle viti, cagionanti la relativa emorragia.
Pertanto, appare che in sede interruzione del decorso causale per “eccentricità del rischio” consentito e governabile dal soggetto agente, il giudice di legittimità abbia riaperto le medesime problematiche poste dalla prima (e succitata) elaborazione giurisprudenziale, in materia di causalità medica omissiva: l’applicazione del corollario della teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, riproduce l’assorbimento del giudizio di causalità in quello di colpevolezza, posta la labilità dei rispettivi confini in sede di reati omissivi impropri.
Difatti, in base alla formulazione dell’art. 43 c.p., il reato colposo si configura come la violazione di diligenza, imprudenza o imperizia, ovvero, come violazione di regole cautelari contenute in leggi, regolamenti, ordini e discipline; quindi postula, rispettivamente in via generica o specifica, un obbligo di diligenza in capo al soggetto agente.
Nei reati omissivi impropri, dunque, si assiste ad una reciproca interimplicazione tra violazione dell’obbligo di protezione e violazione dell’obbligo di diligenza; in quanto il primo viene meno attraverso l’omessa applicazione della regola cautelare che contiene il secondo. Tuttavia, l’obbligo di diligenza attiene non alla causalità materiale della condotta rispetto ad un evento; ma alla c.d. causalità della colpa, secondo cui, il soggetto agente non risponde per la violazione della regola cautelare ex se considerata, ma solo se, non rispettandola, abbia “concretizzato il rischio”, che essa mirava ad impedire. Ebbene, nel 2015, la Cassazione stabilendo un diverso grado di responsabilità per gli errori commessi dai due medici, ha segnato un passo indietro con riguardo all’elaborazione sulla causalità materiale in materia di reati omissivi impropri; applicando, invece, i più recenti approdi in tema di causalità della colpa: entrambi i sanitari hanno illecitamente aumentato il rischio vietato dalle leges artis mediche (l’evento morte del paziente), ma, violando in via omissiva la regola cautelare ivi sancita, rispondono, non in base al solo disvalore della condotta, ma in forza dell’ evento verificatosi, in misura diversa “vicino” al rischio vietato, ossia, rispettivamente, per lesioni personali colpose ed omicidio colposo.
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